mercoledì 19 dicembre 2018

E' sempre Natale

Quando crediamo e difendiamo la vita,

quando ti ringraziamo per quanto già abbiamo,

quando sappiamo metterci in ascolto della Tua parola,

quando siamo di aiuto a chi ne ha bisogno,

quando dividiamo le nostre gioie con gli altri,

quando la speranza guida le nostre giornate e azioni,

quando sappiamo essere docili alla Tua volontà,

quando Ti riconosciamo come Padre e Ti preghiamo e adoriamo in silenzio,


Tu, o Signore, nasci dentro di noi,

e per noi ogni giorno è NATALE! 



martedì 4 dicembre 2018

Continua la solidarietà per Barbara Giuggioloni, malata di SLA


Barbara Giuggioloni, sposata e con una figlia, ha contratto la terribile Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) nel 2012. Da allora Barbara ha perso la sua indipendenza, ma non la sua combattività e la voglia di vivere. Purtroppo le spese che Barbara deve affrontare sono tante, sopratutto quelle delle badanti di cui ha assolutamente bisogno. A questo proposito Barbara lancia questo appello: “Carissimi amici, la vita mi vuole umiliare ma io voglio vivere e guarire, ma ho bisogno del vostro aiuto per pagare le badanti”.

I concittadini maceratesi di Barbara, in questi anni di malattia hanno manifestato la propria solidarietà nei suoi confronti in vari modi, e in particolar modo con la bella iniziativa "Un caffè per Barbara", una raccolta fondi che si realizza donando un euro in apposite cassettine sparse in vari esercizi pubblici della città. Ma le donazioni si posso eseguire anche tramite bonifico bancario, da effettuarsi a queste coordinate:


IBAN: IT06Y0570413400000000002166

Banca Popolare di Spoleto filiale di Villa Potenza
intestato a Barbara Giuggioloni

Tante gocce, tutte insieme, formano l'oceano, e ciascuna persona può far parte di questo "Oceano" di solidarietà a favore di Barbara. Non manchiamo quindi di fare la nostra parte, di donare ciascuno la propria goccia, per piccola o grande che sia. Un grazie di vero cuore a chi lo farà.

Marco

24 novembre 2018

Fonte: La Voce della Verità

martedì 27 novembre 2018

La danza del bambino

C'è un episodio, nella vita di madre Teresa, che sconvolge molte convinzioni e lascia pensosi, forse uno degli episodi chiave per capire questa figura. Lo raccontò lei stessa.

«Durante una notte passata nella stazione di Howrah, a Calcutta, verso mezzanotte quando i treni sono tutti fermi per qualche ora, arrivò una poverissima famiglia che veniva di solito a dormire alla stazione. Erano una madre e quattro figli, dai cinque agli undici anni. La madre era una buffà, piccola cosa avvolta in un sari bianco di cotone, sottile per quella notte di novembre, con i capelli rasi a zero, stranamente per una donna. Aveva con sé dei recipienti di latta, qualche straccetto e dei pezzi di pane, tutto quanto possedeva per sé e per i suoi figli. Erano mendicanti. La stazione era la loro casa.
I bambini, tre ragazze e un bimbo che era il più piccolo, erano come la madre pieni di vivacità. A quell'ora, in piena notte, sedettero tutti su un marciapiede della stazione presso le rotaie, vicino ad altre innumerevoli famiglie e mendicanti solitari che già dormivano tutt'intorno, e fecero il loro pasto serale di pane secco, probabilmente quanto era avanzato a un rivenditore che verso sera lo aveva ceduto a un prezzo bassissimo. Ma non fu un pasto triste. Essi parlavano, ridevano e scherzavano. Sarebbe difficile trovare una riunione di famiglia più felice di quella.
Quando il breve pasto fu finito, andarono tutti a una pompa con grande allegria, si lavarono, bevettero e lavarono i loro recipienti di latta. Poi stesero con cura i loro stracci per dormire vicini, e un pezzo di lenzuolo per coprirsi tutti. E fu allora che il ragazzino fece qualcosa di assolutamente meraviglioso: si mise a danzare. Saltava e rideva fra i binari, rideva e cantava sommesso con incontenibile gioia. Una simile danza, in una simile ora, in così assoluta miseria!
».
Madre Teresa affermò tante volte che per noi occidentali, tristi nella nostra ricchezza, rintanati nelle nostre lussuose caverne, il povero è un "profeta". Pur nella miseria dove la nostra economia scaltra l'ha esiliato, egli ci insegna dei valori grandi che noi abbiamo dimenticato: l'amore per gli altri, la gioia che nasce dal gustare le piccole cose, l'amicizia, la capacità di entusiasmarsi per qualche cosa.
«Noi lo aiutiamo ad uscire dalla miseria. Ma lui ci regala qualcosa di più: ci insegna una maniera diversa di vivere: servirsi delle cose, ma non diventare prigionieri delle cose, credere che ci sono valori assai più importanti del denaro: l'amore, il calore della famiglia, il sorriso dei bambini, l'amicizia, la gioia...».


FONTE: dalla biografia di madre Teresa di Calcutta

martedì 13 novembre 2018

A questi bambini ho donato una scuola


L'ITALIA CHE NON STA A GUARDARE: I “MIRACOLI” DI UN GIOVANE CREMONESE

Dopo la maturità Nicolò ha aiutato i poveri in India. Ora in Grecia ha costruito aule per i piccoli profughi: «anche loro hanno lavorato con me»

«Quando sono arrivato a Samo mi sono ripromesso che avrei cambiato le cose. Le ultime le ho cambiate ieri, con calce, mattoni e camion colmi di banchi e sedie».
Venticinque anni, originario di Cremona, aveva da poco finito il liceo quando è nata in lui la voglia di regalare sorrisi. Dopo la maturità la scelta di cambiare vita. Adesso l'ultimo dei tanti sogni umanitari di Nicolò Govoni si avvera. Sull'isola greca di Samo, in un campo profughi in cui la notte si confonde con il giorno e la felicità sembra spesso negata, adulti e bambini si trovano a vivere in tende in uno spazio che dovrebbe ospitare settecento persone, ma ne accoglie quasi tremila. Lì, però, il sogno di Nicolò ha portato un po' di allegria: una scuola costruita mattone dopo mattone grazie alle donazioni provenienti dall'Italia.
Ha aperto le porte a metà agosto, dopo mesi di intenso lavoro. Lì, ora, il diritto allo studio non è più un miraggio. «Mi sono posto l'obiettivo di costruire una scuola, sembrava una missione impossibile. Mi sono dato trenta giorni di tempo, ho raccolto fondi a sufficienza per affittare un edificio e iniziare a ristrutturarlo. Sono arrivati tanti fondi dal nostro Paese, da chi leggeva i miei racconti su Facebook e decideva di darci una mano, ma non erano sufficienti. Poi, quando stavamo per mollare, la svolta: un anonimo lettore di Bianco come Dio (il secondo libro di Govoni, uscito come e-book, prossimamente edito per Rizzoli, ndr) ha deciso di sponsorizzare la scuola per un anno intero». I lavori serratissimi, mentre i profughi sbarcavano e la necessità del diritto allo studio si faceva sempre più urgente. «In un mese», racconta Nicolò, «abbiamo costruito i muri, rifatto l'impianto elettrico, comprato banchi e sedie ad Atene, installato i condizionatori e procurato tutta la cancelleria di cui avevamo bisogno. In quattro parole, abbiamo costruito una scuola, insegnanti e bambini insieme. Ogni giorno prendevamo misure, pulivamo le stanze, facevamo gli imbianchini per dimenticare gli abusi del campo profughi e i maltrattamenti che vediamo intorno a noi».

La scelta di partire, per Nicolò, è arrivata dopo il liceo linguistico a Cremona. Prima il periodo in India come volontario in un orfanotrofio, poi il trasferimento sull'isola greca. «Sono arrivato qui a settembre, ho cominciato a occuparmi dei bambini rifugiati che provenivano da Siria, Afghanistan, Iraq, Palestina, Kurdistan, Iran, Algeria e Congo. Questa missione mi riempie di gioia, è il lavoro più importante della mia vita».
Un mondo difficile, quello di Samo. «Ho visto rifugiati dormire in mezzo ai topi, nello sporco e nel degrado. Mi sono detto che sarei rimasto lì fino a quando la situazione non fosse cambiata. A dicembre, poi, ho scoperto che uno dei miei bambini, un orfano arrivato a Samo con alcuni parenti, viveva una situazione di abuso domestico. Ho fatto di tutto per aiutarlo, mi sono appellato al sistema di protezione dell'infanzia, agli assistenti sociali, al governo, alle Nazioni Unite. Le ho provate tutte, mi sono persino offerto come padre in affido di questo bimbo. La mia denuncia e i miei tentativi di dare al ragazzo la felicità che merita sono stati ignorati. Quel giorno ho perso la prima vera battaglia della mia vita, e ancora mi si spezza il cuore».
In quel momento, però, alla porta di Nicolò ha bussato un'altra occasione. «La State University di New York mi ha offerto una borsa di studio per un prestigioso master. Quello da sempre è stato il sogno della mia vita, ma in quel contesto mi è parso quasi di secondo piano. I miei studenti sono fuggiti dalla guerra e hanno perso tutto, ma ora hanno qualcosa di prezioso, un mentore, e i loro occhi brillano di gratitudine ogni giorno. E poi c'era quel bambino vittima di abusi, se me ne fossi andato sarebbe rimasto solo. Ho rinunciato, sono rimasto con i miei ragazzi». E i risultati sono arrivati. La scuola è il primo passo in avanti per cambiare le cose. «Oggi, un mese dopo, quasi cento bambini e adolescenti hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, quella per cui sono sopravvissuti a una guerra, la vera alternativa alla prigione in cui vivono». Un progetto portato avanti tutti insieme.
Mentre lo racconta, a Nicolò si illuminano gli occhi. «Perché», spiega, «questo è il bello della mia missione: che insieme si può fare la differenza». Ha un nome la scuola, si chiama Mazi, è il primo istituto per bambini rifugiati a Samo. Rimpianti? «No», risponde convinto Nicolò. «Anzi, sono felice di essere qui e di imparare ogni giorno dai ragazzi. Un anno fa mi dicevano di tornare a casa, di riprendere in mano la mia vita. Lo ammetto, ci ho pensato. Ma poi sono rimasto, e non avrei potuto fare scelta migliore».

A Nicolò squilla il telefono, dall'altro capo dell'Europa è sua nonna Mariuccia. Vuole sapere come sta, da qualche giorno è in pensiero per lui. Nicolò la rassicura. «Sto bene», le dice. Entrambi avranno gli occhi lucidi a fine chiamata. «E' la nonna che mi ha cresciuto, che mi ha insegnato la compassione e l'importanza di aiutare il prossimo», spiega Nicolò, che nonostante tutto si commuove a sentire le voci della vita che ha abbandonato per rincorrere la sua lunga, vorticosa, missione per la felicità.

Di Enrico Galletti

FONTE: Gente N. 35
1-9-2018


Ecco una di quelle storie di Amore e Solidarietà che riporto sempre con molto piacere sul mio blog.
Per chi volesse conoscere la vicenda umana di Nicolò e seguire e sostenere l'evoluzione dei progetti da lui intrapresi, lo può fare attraverso la sua pagina Facebook.
E da parte mia posso solamente dire: “Grazie di tutto Nicolò!”.

Marco

domenica 28 ottobre 2018

La bella storia di nonna Irma, a 93 anni in Kenia per aiutare i bambini dell'orfanotrofio


Se qualcuno pensa che una persona dopo i 90 anni non sia più in grado di fare niente di importante, se non forse stare a casa a guardare e accudire i propri nipoti o pronipoti (cosa comunque lodevolissima e di grande importanza) legga questa storia.... e si ricreda.

Lei si chiama Irma Dallarmellina, "nonna" Irma per tutti, e ha 93 anni. E' una persona forte, ha visto la guerra, è rimasta vedova a 26 anni, con tre figli a carico, e poi ha perso una figlia. Vive a Noventana Vicentina e circa 10 anni fa ha conosciuto Francesca Fontana e Giannino Del Santo, una coppia vicentina, moglie e marito, che vanno in missione tutti gli anni in Kenia per un mese all'anno. Coinvolta dal loro esempio ed entusiasmo, nonna Irma ha iniziato ad aiutarli come poteva, con piccole ma importanti donazioni in denaro, quello che la sua pensione gli ha permesso di fare. In questo 2018 però non si è accontentata di questo e ha voluto fare di più..... ovvero andare lei stessa, di persona, in Kenia, nonostante le sue 93 primavere. Così, assieme alla figlia, con il suo trolley rosso e il suo bastone di sostegno, il 20 febbraio di quest'anno è partita alla volta di Nairobi per rimanervi tre settimane e offrire le sue mani, la sua esperienza e la sua simpatia ai bambini dell’orfanotrofio.
Appena arrivata in Kenia nonna Irma ha voluto subito incontrare Don Remigio, un missionario "giovanotto" come lei, che da vari anni sostiene economicamente, e che da diverso tempo è ricoverato in ospedale perché malato. Dopo di ciò ha voluto incontrare immediatamente i bambini del posto.... ed è stata gioia grande per tutti! Con Francesca e Giannino, i volontari che l'hanno "coinvolta" in questa avventura, nonna Irma è andata a visitare l'orfanotrofio che la missione gestisce, quindi ha trovato il tempo di inviare qualche foto e un messaggio vocale a casa, poca roba perché le comunicazioni non sono facili, ma comunque molto significativi:
Sto bene. Il viaggio è stato lungo, ma sono già operativa. E sono felice!.

Questo semplice messaggio e queste foto sono state postate sui social network dalla nipote Elisa Coltro e in men che non si dica sono diventate “virali”, raccogliendo in breve tempo migliaia di like e condivisioni.Questa è la mia nonna Irma – scrive Elisa -  una giovanotta di 93 anni, che stanotte è partita per il Kenya. Non in un villaggio turistico, servita e riverita, ma per andare in un villaggio di bambini, in un orfanotrofio. Ve la mostro perché credo che tutti noi dovremmo conservare sempre un pizzico di incoscienza per vivere e non per sopravvivere. Guardatela... ma chi la ferma? Io la amo”.



La nipote Elisa, come si può ben comprendere da queste parole, è orgogliosa della sua amata nonna, e non lo nasconde:
Mia nonna ha sempre amato la vita e non si è mai fermata davanti a niente. Ha dedicato la sua esistenza alla famiglia e ad aiutare chi le stava vicino - racconta - Per me è sempre stata un esempio. Un esempio che la nipote ha raccolto nel migliore dei modi dal momento che in estate, da qualche anno a questa parte, anziché andare in vacanza come fa la maggior parte dei suoi coetanei, adopera le proprie ferie per aiutare i rifugiati siriani nei campi greci. Ed è proprio il caso di dire che "buon sangue non mente".

Nonna Irma in Kenia è diventata subito la nonna di tutti. Nella sua valigia rossa ha portato pochissimi indumenti, per lasciare spazio ad ago, filo colorato, forbici, colla e a tante cartoline, perché lei è sempre stata bravissima a cucire delle scatole con le vecchie cartoline. Lo fa a casa, per gli amici, e lo ha fatto in viaggio per i nuovi piccoli amici kenioti. In ogni scatola c'è l'amore di un oggetto fatto a mano e un sorriso.

La bella esperienza di nonna Irma in territorio africano, come detto, è durata tre settimane, al termine delle quali è rientrata nella sua casa di Noventana Vicentina. Un esperienza che le è rimasta nel cuore: “Ho visto tante cose belle, ma anche tanta miseria - afferma - Mi sono rimasti nel cuore i bambini, ma non hanno niente. Neanche l'acqua e le strade. E' una vergogna. Se avessi una proprietà mia venderei tutto e lo darei al Kenya. Ma sono povera e vivo solo della mia pensione”.
Nonna Irma è diventata un esempio per chi vuole partire per l'Africa, ma lei dice: “Non devono fare come me, che sono rimasta poco. Devono rimanere per dei mesi. Anziché andare in vacanza al mare, devono andare in Kenya”. Poco tempo dice lei.... ma quando si ha un età come la sua, ogni giorno speso in questo modo è oro puro.
Nonna Irma ha anche le idee molto chiare su ciò che andrebbe fatto, e non si nasconde certamente dal dirlo: “Mettere i soldi che si spendono per le guerre per costruire invece delle fabbriche. E mettere anche del sale in zucca a quei quattro che comandano il mondo: andate a farle voi le guerre, se vi piacciono tanto!”.
Parole forti e taglienti, da parte di chi di cose ne ha viste e fatte tante!


E' veramente una bella storia questa di nonna Irma e lei è un bellissimo esempio per tutti, che ci ricorda più che mai come questo Dono preziosissimo che si chiama "Vita" vada vissuta pienamente, con forza, coraggio e tanta buona volontà. Ma sopratutto ci ricorda di "spenderla bene", con tanto Amore, per aiutare il nostro prossimo, in particolar modo quello più bisognoso. Grazie di tutto nonna Irma!

Marco

Febbraio - Marzo 2018

FONTI: Repubblica, Greenme, Tg com24, La Stampa, Il Corriere, Volontariatoggi

domenica 21 ottobre 2018

Felicità è amare gli ultimi della terra


La missionaria laica Annalena Tonelli fu uccisa 15 anni fa in uno degli ospedali da lei fondati

«Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita; più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Questo non è un merito, è una esigenza della mia natura». La vita e la morte di Annalena Tonelli, uccisa quindici anni fa nel Somaliland, sono racchiuse in queste parole. Un grido che interpella l'attuale assopimento delle coscienze nei confronti degli “ultimi” e dei diversi.
Missionaria laica, questa esile donna che indossava la tunica africana e il copricapo delle donne musulmane, per diciassette anni, in Kenia, “fece fiorire il deserto”, condividendo la vita dei nomadi che salvò dal genocidio.
«Io sono nobody, nessuno», diceva. Quel nulla era il suo “tutto in Dio”. Giunta in Africa, depositò ogni privilegio, povera fra i poveri, senza sicurezze, senza istituzioni alle spalle. Sola, fra i somali che le furono amici, quando videro che rischiava la vita per loro. Più volte minacciata di morte, non se ne andò mai, anche quando ebbe la certezza che l'avrebbero uccisa. Accadde il 5 ottobre nel 2003, un colpo di fucile alla testa, nella sua stanzetta francescana, attigua all'ospedale di Borama. Era appena passata di letto in letto per dare la buona notte, con una carezza e una stretta di mano, agli ammalati dell'ultimo ospedale che aveva creato per curare ogni genere di malattia e accogliere bambini ciechi, sordi, disabili. La sua grande scommessa fu la tubercolosi, una delle prime cause di morte. Per debellarla creò un protocollo, riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della sanità, che ha salvato milioni di persone.
Tutta la sua esistenza è stata un canto d'amore: «La vita ha senso solo se si ama, nulla ha senso al di fuori dell'amore... allora la nostra vita diventa degna di essere vissuta, diventa bellezza, grazia, benedizione».

Di Mariapia Bonanate

FONTE: Famiglia Cristiana N. 40
7 ottobre 2018


Altro articolo, breve ma molto ben scritto, sulla figura di Annalena Tonelli, a 15 anni dalla sua scomparsa. Lo riporto con molto piacere sulle pagine di questo blog, perchè questa splendida figura di Carità Cristiana, che pure non amava affatto che si parlasse di sè, merita veramente di essere conosciuta e amata.

Marco

mercoledì 17 ottobre 2018

“Io sono nessuno”: Annalena Tonelli

Quindici anni fa, per l'esattezza il 5 ottobre 2003, veniva uccisa da un colpo di fucile alla testa Annalena Tonelli, missionaria laica dal cuore grande come il mondo intero, figura meravigliosa di autentica Carità Cristiana, tutta dedita ai poveri e ai malati africani.
Si potrebbero utilizzare tantissime parole per descrivere Annalena, ma credo che nulla sarebbe mai abbastanza.... preferisco allora riportare sulle pagine di questo blog questo magnifico articolo incentrato sulla sua figura trovato sul web. Un mio piccolissimo omaggio ad una persona che ha tanto da dirci con il suo esempio, con la sua dedizione e con il suo Amore totale e incondizionato. Una figura stupenda che consiglio veramente a tutti di conoscere e approfondire. Da parte mia mi sento solamente di elevare un sentitissimo “Grazie” a Dio, per averci donato un anima così bella, il cui ricordo, ne sono certo, non verrà mai meno nel cuore delle persone.



"Io sono nessuno": Annalena Tonelli



Religiosa nell’intimo, senza vestire un abito. Medico e madre. Dolcissima e forte. Per chi ha vissuto con lei, queste contraddizioni, solo apparenti, si scioglievano in una quotidianità intessuta di gioia. E di passione, come emerge dalla sua prima biografia, pubblicata ad un anno dalla sua uccisione presso il suo ospedale per i malati di tubercolosi a Borama in Somaliland.
Annalena infatti è morta il 5 ottobre, il giorno prima di vedere completata la nuova ala dell’ospedale che lei aveva fatto costruire per uno di quei miracoli della buona volontà che sembra possano accadere solo grazie all’impegno di qualcuno che crede fino in fondo in quello che fa.
Lei che aveva inventato un particolare metodo di cura delle TBC, malattia endemica tra la popolazione somala, aveva dato vita, grazie agli aiuti che le venivano in gran parte dal Comitato contro la fame nel mondo di Forlì, a una piccola ma efficace struttura da 200 posti letto a cui facevano capo oltre 1000 malati. Ancora oggi l’ospedale continua a funzionare anche senza di lei. Proprio come desiderava questa grande donna che iniziava il suo testamento con queste parole: “Non parlate di me, non avrebbe senso”, e che non si stancava di ripetere di se stessa “Io sono nessuno”.
Non è stato facile per gli autori del libro ricostruire la sua complessa e avventurosa vita. Fuggiva le occasioni ufficiali, rifiutava tutte le interviste; prima di accettare il prestigioso Premio Nansen dell’UNHCR, c’era voluta tutta la pazienza degli amici per convincerla ad andare a Ginevra… Eppure in questa biografia, sembra che sia Annalena stessa a parlare di sé. Sono infatti raccolte in fondo alla biografia molte lettere inedite e una lunga dichiarazione da lei rilasciata nel 2002, in Vaticano, durante una delle rarissime occasioni pubbliche a cui aveva accettato di partecipare in occasione della Giornata internazionale per il volontariato.
Volevo seguire Gesù e scelsi di essere per i poveri. Da allora vivo al servizio dei poveri. Per Lui feci una scelta radicale, anche se povera come un vero povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamenti di contributi per quando sarò vecchia”.
Quella dell’"Ut unum sint" è stata ed è l’agonia d’amore di tutta la mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto per essere buona e veritiera, mai violenta, nei pensieri, nell’azione, nella parola. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola. Dobbiamo imparare a perdonare. Oh, com’è difficile il perdono. I miei musulmani fanno tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo nella loro vita… eppure la vita ha un senso solo se si ama. Nulla ha senso fuori dell’amore.
La mia vita ha conosciuto tanti e tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. E ne sono uscita con la convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Ed è allora che la vita diventa degna di essere vissuta. Perdo la testa per i brandelli di umanità ferita: più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia
”.
Si scherniva di non avere meriti speciali, di fare solo quello che la sua natura di donna giusta e appassionata le dettava. Però, spiegava che nei poveri non poteva fare a meno di vedere “Gesù l’Agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo”. E poi ringraziava Dio per il dono più grande che aveva ricevuto nella sua vita: “I miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico ma è rocciosa e arroccata in Dio. I miei nomadi mi hanno insegnato a fare tutto in nome di Dio”.

Sconvolge che al termine di questo suo lungo cammino d’amore, Annalena sia stata uccisa con un colpo d’arma da fuoco sparato a distanza ravvicinata, dopo avere terminato la visita serale ai suoi degenti. Aveva 60 anni, più di metà dei quali dedicati a servire i somali più poveri, i relitti di una società tanto particolare e dilaniata dalla guerra civile. Ma lei, missionaria laica, forlivese di nascita, somala per scelta, questo servizio l’aveva scelto per amore, e la preghiera la riconfermava ogni giorno in questa dimensione.
La chiamavano infatti la "Madre Teresa della Somalia" per la sua vita spesa ogni giorno al servizio degli ultimi, dei malati, dei poveri, nelle pieghe di un nascondimento da cui nemmeno il conferimento di importanti riconoscimenti era riuscita a tirarla fuori. La sua morte, come spesso avviene per i missionari che scelgono il silenzio della carità, ce l’ha svelata in tutta la sua dolcezza, in tutto il suo coraggio.
Annalena era preparata a morire, da molti anni. Qualche mese prima aveva scritto agli amici: “Vorrei che ciascuno di quelli che amo imparasse a vedere la morte con molta più semplicità. Morire è come vivere. Camminare consiste tanto nell’alzare il piede che nel posarlo. La mia morte, la mia malattia, il mio dolore non sono assolutamente diversi dalla morte, dalla malattia, dal dolore di uno di questi adulti e dei bambini che muoiono sotto i nostri occhi ogni giorno, sul gradino di casa nostra. La mia vita è per loro, per questi piccoli ammalati, per i feriti, per chi ha mutilazioni nel corpo e nello spirito, per gli oppressi, per gli sventurati senza averlo meritato. Potessi io vivere e morire d’amore. Mi sarà dato?”.
La preghiera di Annalena è stata ascoltata.
La sua biografia rivela il profilo di una donna straordinaria. Dormiva solo quattro ore per notte, il suo ritmo di lavoro era senza soste. Mangiava fagioli e riso a pranzo. Tornava raramente in Italia a trovare la famiglia, non ne aveva il tempo. Di suo non aveva che due tuniche, uno scialle, un paio di sandali regalati da qualcuno che l’aveva vista andare in giro scalza. Era una piccola donna tutta pelle e ossa ma piena di energia, infaticabile.
La sua giornata in ospedale cominciava alle 7,30 con la riunione con i medici con cui aveva ideato e attuava un progetto sanitario innovativo, il DOTS (Directly Observed Therapy), ovvero l’attenta osservazione dei malati di tubercolosi provenienti da tribù di nomadi o seminomadi. Poi si fermava con gli ammalati, accanto ai letti per parlare con ognuno. Una carezza speciale era sempre per i bambini che si specchiavano nei suoi grandi, disarmanti occhi azzurri cerchiati di occhiaie, arrossati dalla stanchezza di giornate interminabili di lavoro, fino a notte inoltrata. Eppure Annalena era felice. Diceva: “Nella mia vita non c’è rinuncia, non c’è sacrificio. Rido di chi la pensa così. La mia è pura felicità. Chi altro al mondo ha una vita così bella?”.
Oltre all’ospedale seguiva scuole di alfabetizzazione per bambini e adulti tubercolotici, corsi di istruzione sanitaria, una scuola per piccoli sordomuti e handicappati. Si batteva contro le pratiche di mutilazioni genitali femminili, e questo impegno in favore della donna le aveva attirato addosso minacce e persecuzioni. Forse perfino il colpo di pistola che l’ha uccisa.

Annalena era arrivata in Africa nel 1970 dopo avere conseguito una laurea in giurisprudenza. Si ritrova nel nord est del Kenya, presso la missione di Wajir tra tribù nomadi, rigidamente musulmane ad insegnare ai bambini e curare i malati. Si trova per la prima volta di fronte alle vittime della tubercolosi, allontanate dalle famiglie, abbandonate da tutti per la paura del contagio, condannate ad una fine lenta. “In quel momento mi sono innamorata di loro…” racconta Annalena, sempre sproporzionata nella sua grande capacità di amore. Li accoglie, li veste, regala loro piccole cose e la felicità di essere curati. Apre una piccola struttura di cura fatta di capanne: prima 40, poi 100, 200… Qui inizia a sperimentare un nuovo metodo di cura contro la TBC, poi adottato dall’Oms con la sigla Dots e ancora oggi applicato in tutto il mondo.
Viene espulsa dopo 17 anni di volontariato per avere denunciato l’eccidio dell’etnia dei Degodia, in cui in governo keniota era coinvolto: rientra in Italia in tempo per assistere suo padre malato sino alla fine. Ma nella sua città natale, Forlì, sente che l’Africa le manca, la chiama. L’anno dopo riparte per la Somalia. La gente è la stessa, anche la lingua e la religione, ma c’è la guerra civile dopo la cacciata del dittatore Siad Barre. Si stabilisce a Mogadiscio dove dà da mangiare agli sfollati, viene derubata, rapinata e sequestrata, la sua casa è bersaglio di raffiche di mitra. Mentre imperversano i combattimenti lei recupera i cadaveri dalle strade per seppellirli, cura i malati, nasconde i rifugiati. Poi si trasferisce a Merca, sull’Oceano Indiano, dove fa riattivare il porto in disuso da 25 anni per permettere l’arrivo di aiuti umanitari. Lavora come medico presso l’Ospedale della Caritas che ospita 500 malati: spende un milione di vecchie lire al giorno (una bella cifra per la fine degli anni ’80) che le arrivano da benefattori di tutto il mondo dopo che qualche coraggioso giornalista è riuscito a arrivare sino a lei…Malgrado il fisico minuto ha una grande forza fisica e una buona dose di coraggio che le permette di non piegarsi di fronte ai ricatti e alle prepotenze dei ras locali che cercano di impadronirsi degli aiuti scaricati dalle navi.
Lascia Merca nel 1995, a causa della situazione insostenibile creatasi in seguito ai sanguinosi conflitti tra clan rivali. Il medico italiano che la sostituisce nel servizio all’ospedale della Caritas è Graziella Fumagalli, uccisa solo pochi mesi dopo il suo arrivo.
L’ultima tappa del viaggio africano di Annalena è Borama, una cittadina vicina alla frontiera con l’Etiopia, nel Somaliland. Un centro di 100.000 persone, fatto di baracche di legno affacciate su strade polverose. Recupera una vecchia struttura e con i fondi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la trasforma in ospedale, che riesce a far funzionare grazie agli aiuti che riceve dall’Italia, in particolare dal "Comitato contro la lotta alla fame nel mondo" e dalla diocesi di Forlì. Grazie alla rete di solidarietà attivata da “doctor Tonelli”, i primi 30 malati diventano rapidamente 300, riescono finalmente ad avere un letto vero, medicinali e terapie sistematiche e continue come è necessario per combattere malattie come la tubercolosi e l’AIDS.
Quando nel giugno del 2002 le viene comunicata l’assegnazione del premio Nansen da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Annalena rimane stupita, perché di questo premio, confessa candidamente agli amici, non ne conosce nemmeno l’esistenza. Con il premio Nansen, si legge nella motivazione, le viene riconosciuto a livello internazionale "l’impegno eccezionale per migliorare la sorte di coloro che in Somalia non hanno alcuna protezione. Attraverso di voi, l’UNHCR vuole ricordare che i rifugiati… hanno diritto ad essere trattati con dignità, di essere nutriti, ospitati, curati. Grazie alla vostra opera, ricordate al mondo che i diritti hanno un’anima e che è nel quotidiano, concretamente, che i diritti dell’uomo devono essere rispettati e fatti vivere…".
Annalena è la dimostrazione vivente, ormai agli occhi di tanti, delle trasformazioni e dei cambiamenti che un solo individuo, anche sprovvisto di mezzi particolari, può costruire per migliorare la vita degli altri.


di Miela Fagiolo D’Attilia e Roberto Italo Zanini

FONTE: Note di pastorale giovanile

lunedì 8 ottobre 2018

«I miei 20 anni accanto a Padre Pio»


«Ho assistito a molti eventi inspiegabili, dalla sua stessa guarigione, grazie alla Madonna, a quella del mio papà. Ma il più grande è stato il suo Amore per Gesù»

Padre Marciano Morra ha un'aria severa che incute un po' di timore. Minuto ma affilato, ha l'espressione di un esigente professore di Latino. Ma è la sua corazza da timido. Quando entra un po' in confidenza e si lascia andare ha un sorriso dolcissimo. Nessuno meglio di lui può parlare di san Pio da Pietrelcina, padre Pio come tutti continuano a chiamarlo, del quale ricorrono in questi giorni due importanti ricorrenze che lo riguardano: i cento anni dall'impressione delle stimmate, avvenuta il 20 settembre 1918, e la sua morte, il 23 settembre 1968.

Padre Marciano ha ottantanove anni e per quasi venti è stato un suo confratello nel convento di San Giovanni Rotondo, dove il santo visse dal 1916 fino alla sua scomparsa. E' quindi una miniera di ricordi, aneddoti, emozioni che racconta con la sua voce pacata. «Era bellissimo stargli accanto», dice. «Facevamo a gara per passare del tempo insieme a lui: era come stare vicino a un papà affettuoso. Ci illuminava con la santità. E ci deliziava perché era un uomo gioviale e divertente. Ma c'erano volte in cui ti guardava fisso. Quello era il momento in cui leggeva nella coscienza con uno sguardo magnetico che ti trapassava. Sapevi che stava scrutando nel tuo cuore. Leggeva nelle persone come fossero stati dei libri aperti».

Nella sagrestia della vecchia chiesa del convento di Santa Maria delle Grazie, padre Marciano ci parla delle stimmate, forse il mistero più eclatante di padre Pio. Ferite alle mani, ai piedi e al costato che rimandavano alla Passione di Cristo e che erano sempre aperte come piaghe vive. Padre Marciano le ha viste più volte da vicino. «Padre Pio teneva le mani sempre coperte da mezzi guanti anche perché un ordine del Sant'Uffizio gli proibiva di mostrare le ferite. Li toglieva solo quando celebrava la Messa e allora era possibile vedere le piaghe. Servirgli Messa perciò era un compito ambito perché si era vicini a un grande mistero. In più, tornato in sagrestia, il Padre faceva baciare le mani, sempre senza guanti, ai due che erano stati con lui sull'altare. In quel momento potevo vedere bene le ferite che aveva sul palmo. Posso testimoniare che erano veri e propri buchi che trapassavano le mani da parte a parte. Il vero miracolo delle stimmate però non sta tanto nella loro presenza e nel fatto che padre Pio le abbia portate per cinquant'anni ma nel fatto che poi sono scomparse. Per ordine del Vaticano, le piaghe erano state esaminate diverse volte da medici. Alcuni avevano dichiarato l'inspiegabilità della loro natura, altri invece le avevano giudicate un imbroglio affermando che padre Pio se le procurava da solo usando degli acidi. Con la loro scomparsa però, nessuno ha più potuto dire nulla. Come è possibile infatti che una piaga, a prescindere da come si sia formata, scompaia senza lasciare neppure una piccola cicatrice? Questo è il vero miracolo che testimonia la veridicità delle stimmate.»

«Qui in sagrestia ho veduto padre Pio compiere un prodigio, guarendo il mio papà che era molto malato», continua padre Marciano. «Aveva un tumore ai polmoni e i medici gli avevano dato poco da vivere. Padre Pio lo guardò fisso, poi lo prese per il bavero della giacca e con l'altra mano iniziò a tirargli dei pugni sul petto dicendo: “E chi te l'ha detto che tu stai malato? Tu stai bene! Stai bene!”. E subito dopo: “Ora ti saluto. Arrivederci!”. Disse proprio così: “Arrivederci!”. Non capii subito cosa voleva dire ma lo compresi in seguito. Il mio papà aveva i giorni contati e invece guarì e incontrò ancora padre Pio. Ci lasciò quindici anni dopo per un'altra malattia».

Padre Marciano ricorda un altro episodio importante: «Ero presente anche quando padre Pio fu miracolato dalla Madonna. Era il 1959. Quell'anno era stata portata in Italia la statua pellegrina della Madonna di Fatima che girava le diocesi delle più importanti città. Per interessamento del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, amico di padre Pio, si fece in modo che la statua fosse portata per due giorni anche a San Giovanni Rotondo. Però padre Pio era a letto da quattro mesi. Aveva un tumore ai polmoni e si diceva che stesse per morire. Lo portammo di peso in chiesa, dove era stata sistemata la statua della Madonna. Lì si fermò in preghiera, baciò l'immagine della Vergine e le pose tra le mani una coroncina del Rosario. Poi si fece portare alla finestra per vedere l'elicottero che partiva con la statua. Era stato deciso, infatti, che l'elicottero sarebbe andato via dopo aver fatto tre giri sopra Casa Sollievo della Sofferenza, l'ospedale fondato da Padre Pio. Quando lui vide il velivolo che si allontanava, disse: “Madonnina, sei venuta in Italia e io ero ammalato. Ora te ne vai e mi lasci ancora ammalato”. Poi, improvvisamente fu come se fosse stato attraversato da una scossa. Ero a pochi metri da lui e lo vidi tremare. Si girò e gridò: “Ma io sto bene. Sto bene. Andiamo a confessare”. Ovviamente gli fu impedito di andare in confessionale e venne riportato della sua cella. Ma il giorno dopo riprese la vita di sempre. Era perfettamente guarito».

di Roberto Allegri

FONTE: Famiglia Cristiana N. 37
16 settembre 2018


Sono passati pochi giorni dalla ricorrenza dei 50 anni della "nascita al Cielo" di padre Pio da Pietrelcina e 100 anni dall'impressione delle sue sacre stimmate. Ho pensato quindi di postare sulle pagine di questo blog qualcosa che riguardasse questo meraviglioso Santo così amato dalla gente di tutto il mondo, e l'articolo "giusto" l'ho trovato su Famiglia Cristiana con questa bella testimonianza del bravissimo padre Marciano Morra, suo confratello a San Giovanni Rotondo per tanti anni.
Tante cose si sono dette e scritte su padre Pio in tanti, tanti anni.... ma l'Amore verso questo Santo non sembra risentire del passare del tempo e la devozione nei suoi confronti è sempre vivissima nel cuore delle persone. E di questo, personalmente, ne sono solo estremamente felice, perchè padre Pio è e rimarrà sempre un esempio luminosissimo per tutti di Santità e di Amore Vero per Gesù, la nostra Madre Celeste e il prossimo, per il quale si è completamente speso in tutto l'arco della propria vita.

Marco

venerdì 28 settembre 2018

Mega-donazione per il centro alzheimer. Il benefattore è Cassio Morosetti


Il celebre fumettista italiano, fra gli jesini più illustri, ha deciso di donare 800 mila euro per realizzare in via Finlandia la struttura a servizio degli anziani affetti da demenza degenerativa

JESIÈ Cassio Morosetti il benefattore che ha donato 800 mila euro alla sua città natale per realizzare il centro Alzheimer. Proprio oggi (7 settembre 2018), il sindaco Massimo Bacci, accompagnato dall’assessore ai servizi sociali, Marialuisa Quaglieri, è in trasferta a Milano, dove il celebre fumettista vive da tempo, per siglare l’accordo e accettare ufficialmente l’enorme donazione, che consentirà appunto di edificare una struttura a disposizione degli anziani affetti da demenza degenerativa in via Finlandia, completa di arredi e attrezzature.

Trattandosi infatti di una somma non di modico valore, e tenuto anche conto della destinazione vincolata, è obbligatorio un atto formale di accettazione da parte del Municipio.

«Un grande atto di mecenatismo – commenta il sindaco Bacci – con il quale Morosetti vuole farsi ricordare dalla sua città natale che, come mi ha avuto modo di confidare, non è stata riconoscente con lui. Desidero ringraziare Jesi e la sua Valle che ha facilitato il nostro incontro e ha permesso a questo artista di poter esprimerci la propria volontà. Ho avuto modo di parlare con Cassio Morosetti, ho conosciuto una persona brillante, estremamente lucida, molto più giovanile dei suoi 96 anni, che mi ha raccontato di aver lasciato Jesi ed essersi arruolato volontario nel 1940 perché estremamente povero, di essere rimasto in un campo di concentramento per lunghi anni e per tornarvi poi con promesse non mantenute».

Morosetti se ne è andato quasi subito da Jesi, per poi compiere un percorso professionale straordinario grazie alla sua caparbietà e alle sue grandi doti naturali. Ha iniziato con la celebre Settimana Enigmistica, avviando subito dopo un crescendo di collaborazioni con migliaia di vignette su quotidiani, riviste, house organ, inserti pubblicitari in Italia e non solo.

«Oggi – ha aggiunto Bacci – ha quasi preso una rivincita con la sua città che negli anni ‘40 lo aveva a suo modo messo in disparte. Da personalità di grande spessore qual è ha voluto quasi testimoniarci che quel trattamento non se lo meritava. Sarà per questa Amministrazione un onore trovare il modo di rendere duraturo il senso di riconoscenza per questa donazione. Il nuovo centro per l’Alzheimer è un preciso obiettivo del nostro programma di mandato che completa il centro demenze aperto provvisoriamente in via San Giuseppe, rendendo tale servizio ancor più strutturato e con una maggiore possibilità di accogliere ospiti. Ci metteremo subito al lavoro per realizzarlo quanto prima in un’area all’interno della città, ma dotata di ampio verde».

Nato a Jesi nel 1922, Morosetti partecipò alla guerra in Libia e, dopo tre anni di prigionia, si stabilì a Milano dove iniziò a pubblicare alcune vignette su la Settimana Enigmistica. Negli anni ’50 crea il suo personaggio più famoso, lo sceriffo Botticella, divenuto noto grazie al Corriere dei Piccoli. Si deve a Morosetti la nascita della Disegnatori riuniti, un’agenzia che ha rappresentato gli umoristi italiani per oltre quarant’anni. Nel 2010 è uscita la sua autobiografia, intitolata In divisa nell’orto dietro casa. Nel 2013, a seguito di una mostra delle sue opere organizzata a Jesi dal 15 al 26 settembre, è uscito il libro-catalogo intitolato Cassio Morosetti (una vita da umorista).

di Matteo Tarabelli

7 settembre 2018

FONTE: Centro Pagina

giovedì 20 settembre 2018

“Anche il carcere è meglio dell'Africa!”. Parola di Marie Anne Molo, Missionaria del Vangelo


In Africa in tante zone rurali non esistono servizi di base, come l’acqua potabile e l’illuminazione. Non esiste uno stato sociale

In Africa in tante zone rurali non esistono servizi di base, come l’acqua potabile e l’illuminazione. Non esiste uno stato sociale, i cittadini non hanno diritto ad alcun servizio da parte dello stato, tutto è a pagamento: l’istruzione, la copertura sanitaria. Il lavoro manca e si vive disussistenza e di vendita di prodotti agricoli. Chi non ha la casa, vive dove capita. La libertà di stampa non esiste, in molti Stati scrivere un articolo di politica significa essere uccisi, in Camerun si finisce a volte in prigione. I servizi per i disabili non ci sono, una pensione sociale non esiste”.

Lo racconta Marie Anne Molo una donna consacrata Missionaria del Vangelo del Camerun di 52 anni che vive a Palermo che afferma:
In molti Paesi africani c’è la dittatura, in altri la guerra, in altri il terrorismo, in tanti altri la povertà estrema e si muore di fame”.

È meglio per un africano vivere in un carcere italiano che vivere in Africa. Nelle galere italiane si vive bene: c’è un tetto, c’è la luce, c’è l’acqua potabile, c’è da mangiare, c’è la sicurezza, ci sono cure mediche, non c’è la guerra e né tanto meno la tortura”.
Marie Anne è venuta in Italia diversi anni fa con l’obbiettivo di studiare e acquisire competenze per poi tornare in Camerun per impegnarsi nella promozione dello sviluppo dell’area rurale da dove proviene. Già da alcuni anni Marie Anne, con il supporto delle Missionarie del Vangelo, realizza diversi microprogetti (frantoi, mulini, pollai, coltivazioni, un pozzo per l’acqua potabile) per aiutare in Camerun il suo popolo.

Io sogno di cambiare la vita della mia gente e di sfruttare bene le nostre risorse: legname, minerali, petrolio. Sin da bambina desideravo consacrarmi al Signore per dedicare tutta la mia vita ad aiutare la mia gente. Tant’è che mi sono sempre prodigata nell’aiutare chi era nel bisogno.

Da grande allora ho deciso di venire in Italia per cominciare sia la mia formazione religiosa e per consacrarmi al Signore, sia per studiareeconomia dello sviluppo alla Pontificia Università Gregoriana, per lo sviluppo umano integrale.

Noi siamo tutti vittima di un sistema che sfrutta le risorse e le persone sia in Italia, sia in Africa. Invito tutti i cittadini a fare una rivoluzione culturale per cambiare questo sistema che non pensa alle persone, ma ai soldi. Noi del Cristianesimo ci riempiamo la bocca, ma facciamo poco di quello che c’è scritto nel Vangelo. L’Italia è il mio Paese – dice Marie Anne - occorre uno sforzo per capire le altre culture, noi in Camerun abbiamo la cultura dell’accoglienza, ascoltiamo l’altro.

Nella mia famiglia, quando vivevo in Camerun, diverse volte non si mangiava, ma ogni giorno pregavamo: la mattina presto e la sera. Abbiamo ancora le lampade a petrolio e nelle strade non c’è illuminazione pubblica, beviamo spesso acqua sporca. Un pozzo realizzato dalla cooperazione internazionale è a vari chilometri. La pioggia per noi è una benedizione con la quale ci facciamo una doccia naturale
”.

Questo è il contenuto del primo appuntamentoche si è svolto nella "Cittadella del Povero e della Speranza" nella chiesa "Casa di preghiera per tutti i Popoli" nel mese di agosto, in attesa dell'incontro con Papa Francesco che verrà prossimamente in missione per condividere il pranzo con i fratelli ultimi.

di Antonio Lufrano

8 agosto 2018

FONTE: Quotidiano Sociale

giovedì 6 settembre 2018

La storia di suor Jacinta, in Italia per aiutare chi è in difficoltà


Sono venuta in Italia solo per seguire Gesù Cristo. Il buon Dio ha voluto che venissi a Palermo, nel quartiere Brancaccio, per mettermi al servizio del Centro Padre Nostro per aiutare chi è in difficoltà”. A parlare è suor Jacinta delle Maestre Pie Venerini, originaria dell'Uganda ma da tanti anni in Italia. Nella Cittadella del povero e della speranza in via Decollati, a Palermo, ha raccontato perché ha deciso di arrivare in Italia e cosa l'ha spinta a dedicarsi a chi ha bisogno in uno dei quartiere più difficili della città. “Vengo da una famiglia unita, con genitori santi, che mi hanno trasmesso grandi valori - dice -. E’ importante avere una famiglia che ti formi con amore, ci sono tanti figli che hanno avuto solo schiaffi e mai una carezza. Quando avevo 15 anni ho detto a mio padre che volevo diventare suora, che mi ha risposto dicendomi di finire gli studi e se dopo avessi avuto ancora quel desiderio potevo seguirlo”.

Da diplomata in lingua inglese suor Jacinta va a insegnare subito, ma dopo un anno sente forte il desiderio di venire in Italia per diventare suora. “Amo moltissimo i miei genitori e loro amano me, amo l’Uganda e amo insegnare ai miei studenti, ma seguire Dio è un amore ancora più grande - spiega -. Ho detto che sarei partita per l’Italia solo per tre mesi per dare loro una speranza, in realtà sono rimasta 6 anni in Italia per prendere i voti e solo allora sono tornata in Africa”. E’ stata una grande festa quando suor Jacinta è tornata nella sua città Foct-Portal. Quando è rientrata a Roma il suo provinciale le ha chiesto di andare a Palermo e suor Jacinta ha subito accettato. “Ho messo tutto nelle mani del Signore - racconta -, io conoscevo la mafia, la storia di Palermo e per non fare preoccupare la mia famiglia non ho detto che sarei andata a Brancaccio”.


Tante suore mi hanno chiamata preoccupate per il mio trasferimento - dice ancora -. Circa un anno fa, il 17 settembre 2017, ho messo piede a Brancaccio, al servizio del Centro Padre Nostro voluto dal beato Padre Pino Puglisi. All’inizio gli abitanti del quartiere non mi davano confidenza, ora invece sono molto accoglienti, si confidano sui loro figli per avere un consiglio, un sostegno, sanno che possono contare su di me e io su di loro”. Suor Jacinta è sempre sorridente e presta il suo servizio alla casa per anziani del Centro Padre Nostro dove sono accolte 80 persone. Tante le attività insieme: gite, pranzi fuori porta, lavori in ceramica, danza, preghiere ed esperienze di condivisione.

Nel Centro si occupa anche di recupero scolastico per bimbi delle scuole elementari e per ragazzi delle scuole superiori. Li aiuta ad imparare l'inglese. Nella casa museo Padre Pino Puglisi accoglie tanti visitatori a cui racconta la vita del beato ed è anche una volontaria della parrocchia San Gaetano, dove insegna catechismo e canta nel coro. “La sera sono stanca perché ogni giorno mi muovo solo con la macchina di San Francesco (a piedi) - dice -. In Africa siamo liberi di lasciare le porte aperte delle nostre case e possiamo andare a trovare ogni persona senza preavviso. Tra gli africani c’è molta solidarietà, ci sentiamo tutti fratelli e qui in Europa tra di noi ci aiutiamo. Qui in Italia, invece, non potete lasciare la porta aperta e per andare a mangiare a casa di qualcuno avvisate con diverso anticipo, non esiste presentarci all’improvviso come facciamo noi in Africa” conclude.

L'incontro testimonianza è stato il terzo appuntamento nella Missione di Speranza e Carità di Biagio Conte in vista della visita pastorale di Papa Francesco che a metà settembre si recherà alla Cittadella del povero e della speranza per condividere il pranzo con immigrati e carcerati.

29 agosto 2018

FONTE: Adnkronos

domenica 2 settembre 2018

La parabola dei tre setacci

Nell’antica Grecia Socrate aveva una grande reputazione di saggezza.

Un giorno venne qualcuno a trovare il grande filosofo, e gli disse:
Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?

Un momento
, rispose Socrate, “Prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.
I tre setacci?

, continuò Socrate. “Prima di raccontare ogni cosa sugli altri, è bene prendere il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Io lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è VERO?
No… ne ho solo sentito parlare.

Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di BUONO?
Ah no, al contrario!

Dunque
, continuò Socrate, “vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell’utilità. È UTILE che io sappia cosa avrebbe fatto questo amico?
No, davvero.”

Allora
, concluse Socrate, “se ciò che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile, io preferisco non saperlo; e consiglio a te di dimenticarlo.”



FONTE: Libro "La via del guerriero di Pace" di Dan Millman





Penso che ciascuna persona, prima di parlare con il nostro prossimo, dovrebbe chiedersi se ciò che sta per dire è VERO, BUONO E UTILE, come insegna mirabilmente questa bella parabola. Se ciò non dovesse essere, allora è meglio non dire assolutamente nulla perchè, ricordiamocelo bene, una parola buona può anche guarire una persona... ma una parola cattiva può far più male di una spada!
Quante, quante cose brutte, quanti guai, quanto male non ci sarebbe se si evitasse di parlar male del nostro prossimo.... e quanto bene invece si farebbe, al contrario, avendo sempre sulla nostra bocca parole benevole e caritatevoli nei confronti di tutti! A questo proposito mi vengono in mente le sagge e Sante parole di quel grande Uomo che risponde al nome di San Giovanni Bosco, il quale soleva dire: “Quando parlate di qualcuno, evidenziate sempre gli aspetti buoni e positivi della sua persona. E se proprio, proprio, non vi viene in mente niente di buono da dire.... allora tacete!”.

Marco

domenica 12 agosto 2018

Bologna, l’agente eroe: «In molti scattavano foto, li ho mandati tutti via». I 4 minuti dell’agente eroe


Le forze dell’ordine: bruciavamo, ma abbiamo dato l’anima

«
Ma certo che avevo paura, ero avvolto dalle fiamme e sentivo l’odore della mia carne che bruciava, chi non ne avrebbe avuta?». Provateci voi, a rispondere allo stesso modo per cento volte alla stessa domanda preconfezionata, "ti senti un eroe Riccardo?", mentre sei ricoverato nel reparto Grandi ustionati dell’ospedale Bufalini di Cesena, e hai la schiena, le gambe, le spalle e la nuca, insomma il 25 per cento del corpo, coperto da bruciature di secondo grado, che intanto si fanno sentire. «Eh, un po’ scotta».

La verità è che abbiamo tanto bisogno di buone notizie. L’agente Riccardo Muci da Copertino, Lecce, 31 anni, un matrimonio alle spalle, ex programmatore di volo Alitalia fino alla crisi del 2008, entrato in Polizia seguendo l’attrazione familiare per le divise, il padre Pantaleo è un sottufficiale dell’aeronautica in pensione, era la miglior notizia possibile, in una gerarchia dettata dalla vicinanza al fuoco, perché il coraggio, l’altro giorno sotto quel viadotto, l’hanno avuto in tanti. A riprova del fatto che i miracoli sono spesso un’opera collettiva.

Il racconto

«Con il mio collega eravamo impegnati nel servizio di Volanti sulla via Emilia. Quando abbiamo visto cosa era successo, io ho solo capito la situazione, e quel che sarebbe successo. Sapevo di avere poco tempo, perché ero certo che ci sarebbe stata un’altra esplosione. Sono sceso dall’auto e proprio sotto il ponte, lungo la via, era pieno di persone che facevano foto e riprese. Erano all’altezza del viadotto, addirittura si sporgevano per inquadrare meglio il camion, che da sotto mandava già piccole fiamme, era evidente che stava per saltare in aria. Io mi sono limitato a urlare, a fargli paura, a strattonare per mandare lontano quelli che non mi ascoltavano, mentre il mio collega bloccava la via con la Volante, e anche quella è stata una cosa importante. Davvero, non ho meriti particolari, e neppure ricordi da offrire, perché rivivo tutta quella scena in adrenalina, ho frammenti che scorrono veloci e non riesco a isolarne nessuno. Credo solo di aver usato bene quei quattro minuti tra la prima esplosione e quella pazzesca che è arrivata dopo».


Le ferite

Se l’è presa sulla schiena, mentre si sbracciava come per mandare ancora più lontano la gente che stava facendo fuggire. «Ho sentito un vento bollente che mi sollevava. Sono caduto, e mentre mi rialzavo mi sono accorto che la polo della mia uniforme aveva preso fuoco, ho sentito un dolore pazzesco su tutta la schiena e le fiamme che mi avvolgevano. Ho cominciato a correre urlando a chi vedevo di seguirmi. Appena ho raggiunto la macchina il collega mi ha buttato addosso dell’acqua, sentivo che gridava “acqua, serve acqua”. Finché ce l’ho fatta ho dato una mano ai carabinieri che stavano prestando soccorsi ai feriti, eravamo tutti insieme. Poi ho ceduto, avevo troppo dolore».

Altri eroi

La Polizia chiama, l’Arma dei Carabinieri risponde, o viceversa. Ma questa non è una gara. L’unica competizione è quella solita, tra le nostre due istituzioni. Questi sono solo uomini, persone normali dalle vite normali, gente semplice che quasi si sorprende di essere mostrata in pubblico per aver fatto quello che molti, si spera, avrebbero fatto. Come i militari della caserma di Borgo Panigale, duecento metri in linea d’aria dalla zona dell’esplosione, tutti i vetri infranti. «Abbiamo fatto quel che dovevamo e volevamo, abbiamo dato l’anima» dice sovrappensiero il maresciallo maggiore Arturo Guidoni, che lunedì mattina era appena rientrato dalle ferie, mentre guarda la batteria di telecamere davanti a lui, ed è una frase bellissima. Ha la testa e altre parte del corpo fasciati da garze, ha un racconto diverso solo nei dettagli dagli altri, ma con lo stesso significato. «Abbiamo sgomberato la strada. In ogni modo possibile. Meno male. Perché davvero, è stato tremendo. A un passante davanti a me si sono anneriti gli zigomi all’improvviso. Il calore era intollerabile, mi stava per scoppiare la testa, così mi sono salvato sfondando la vetrata di un bar».


Il maresciallo ordinario Fabio D’Alessio, romano del quartiere Laurentino, padre di un bimbo di otto mesi, ha anche le orecchie coperte da medicazioni, che non riescono a coprire del tutto le piaghe. Il suo pari grado Emanuele Manieri si è bruciato anche i gomiti e appare intimidito da questa esposizione mediatica. «Nessuno poteva immaginare la violenza dell’esplosione». Il comandante della compagnia Elio Norino, con ustioni di secondo grado al cuoio capelluto, racconta come abbia aperto la caserma per dare riparo a chi fuggiva, poi si schermisce alla richiesta di informazioni personali. «Siamo tutti insieme, le singole storie non contano».

Intanto all’ospedale di Cesena l’agente Muci ha ricevuto la telefonata del padre. «Bravo» gli ha detto. E si sono commossi entrambi. La sua convalescenza sarà lunga. «Ma basta con questa cosa che siamo stati coraggiosi. Abbiamo fatto il nostro dovere. E avere paura non è certo un male. Anzi, la paura ci permette di tornare a casa»

di Marco Imarisio

7 agosto 2018

FONTE: Corriere.it

martedì 31 luglio 2018

Riccione, in classe c'è un bimbo con l'epilessia: ogni compagno ha un ruolo per le emergenze


Il piccolo ha 9 anni: la maestra ha spiegato ai suoi amici come rendersi utili in caso di crisi

RICCIONE - C'è un bambino di 9 anni che ha l'epilessia. E compagni di classe pronti a soccorrerlo quando lui ne ha più bisogno, perché la maestra ha spiegato loro cosa sia questo problema di salute, che conseguenze e che manifestazioni abbia, e come occorra intervenire, con lucidità e rapidità. E' stata la mamma del bambino a raccontare in una lunga lettera su un gruppo Facebook come l'insegnante abbia deciso di rendere ciascun compagno di classe consapevole di poter essere d'aiuto: ha affidato a ciascuno di loro un ruolo, nel caso il loro amico abbia una crisi in classe. I genitori del piccolo hanno scoperto quel foglio di istruzioni quasi per caso, andando ai colloqui.

Se il ruolo di regista dei soccorsi spetta ovviamente all'insegnante, c'è poi "chi prende il farmaco, chi avverte i bidelli, chi prende dall'armadietto il cuscino", ed è prevista persino una turnazione degli incarichi, mese per mese, e sostituti, perché non manchi mai sostegno al bambino. In questo modo, spiega la madre, i suoi compagni si preparano “ad essere utili e a reagire in caso di necessità. Io mi sono fortemente commossa”, scrive. “La maestra ha compiuto un gesto di estrema importanza perché li ha resi partecipi e preparati per una cosa importantissima: Aiutare. Questo è un grande insegnamento di solidarietà. Questi bambini un giorno per strada si fermeranno ad aiutare chi ha bisogno e non si volteranno dall'altra parte! Io ho il magone in gola perché so che in classe non vedono l'ora di avere il nome scritto lì sopra. Noi famigliari insegnamo a casa certi valori e principi ma poi è di fondamentale importanza che anche la società segua un certo percorso. Questo foglio per me è la Vita, è amore per il prossimo”, scrive a caratteri cubitali, “è altruismo. Quando una maestra può fare un enorme differenza. Mio figlio sta vivendo tranquillo non solo per noi a casa che cerchiamo di fare un cammino amorevole ma anche perché ha risposte così meravigliose dall'esterno ma che è sempre un ambiente dove vive. Grazie è poco maestra Elena Cecchini”.

6 aprile 2018

FONTE: Repubblica.it


Storia semplice ma bellissima, che ci dice più che mai quanto basti poco, in fin dei conti, per rendere migliore la società in cui viviamo. Quello che ha fatto questa maestra di scuola è veramente splendido, un gesto di meravigliosa, squisita umanità, altruismo e solidarietà, un gesto che rende partecipi tutti i suoi alunni i quali, c'è da scommetterci, non dimenticheranno mai questo meraviglioso insegnamento e se lo porteranno dappresso per tutta la loro vita.

Marco

sabato 28 luglio 2018

Un pulmino in regalo ad un ragazzo che non si è mai arreso


Un gruppo di imprenditori varesini ha regalato un pulmino a Luca Alfano, un ragazzo costretto in sedia a rotelle da una grave malattia rara, ma che non ha mai perso la voglia di vivere

Un regalo speciale per un ragazzo dalla volontà di ferro. È ciò che hanno deciso di fare alcuni imprenditori del Varesotto, donando un pulmino Opel Combo attrezzato per il trasporto di disabili a Luca Alfano, un ragazzo di Varese affetto da una grava malattia incurabile.

Luca Alfano era un giovane calciatore, quando venne colpito da questa rara malattia che lo costrinse sulla sedia a rotelle. Questo segnò profondamente la vita del ragazzo, che vide distrutto il suo sogno di diventare un giocatore professionista. Luca decise però di non lasciarsi sopraffare dalla malattia, riuscì a reagire con grande coraggio e diventò un vero esempio per moltissimi ragazzi. Il giovane scrisse anche un libro intitolato “Più unico che raro” in cui, nonostante i problemi e le brutte vicende raccontate, si celebra con forza la vita.

Per premiare la forza di volontà che Luca ha dimostrato in questi anni la società Delta di Alessandro Carlomagno in collaborazione con molti altri imprenditori del Varesotto ha deciso di comprare un pulmino Opel Combo per facilitare gli spostamenti del ragazzo. Oltre al prezzo del veicolo verranno coperte anche tutte le spese per i prossimi quattro anni.

La carrozzeria rossa del pulmino e i suoi adesivi bianchi ricordano i colori del Varese Calcio, la società tanto amata da Luca Alfano. Gli imprenditori sono convinti che il mezzo non solo si dimostrerà molto utile al coraggioso ragazzo, ma che porterà anche fortuna al club varesino.

La cerimonia della consegna si è tenuta domenica 22 luglio al Tourlé di Gazzada, che oltre a partecipare all’acquisto del pulmino ha messo a disposizione la sua struttura. L’evento è stato animato da Massimiliano Pipitone in arte Tony Manero di Colorado Cafè, che con la sua simpatia ha reso la giornata ancora più festosa.

di Alessandro Guglielmi

23 luglio 2018

FONTE: Varesenews.it

domenica 22 luglio 2018

Papà Nayak, analfabeta, scava a mano la strada per consentire ai figli di andare a scuola. Adesso è un eroe


Alla fine la sua impresa durata due anni è stata segnalata dalla gente del posto a un quotidiano regionale: il governo lo ha premiato con uno stipendio adeguato al lavoro svolto

BANGKOK - Spinto dalla motivazione di dare un'educazione ai suoi figli, il venditore di frutta indiano Jalandhar Nayak, 45 anni, ha scavato a mano da zolle e roccia una strada di 8 chilometri che va dal suo piccolo villaggio di Gumsahi alla scuola di Phulbani.

Per completare oltre la metà del percorso l'uomo ha impiegato due anni cercando di combinare i suoi affari con 8 ore di scavi quotidiani a colpi di piccone, zappa e scalpello per aggirare lo sperone di roccia che costringeva i suoi tre bambini a impiegare oltre tre ore per andare e venire dalle lezioni, in ogni condizione atmosferica.

Alla fine la sua impresa è stata segnalata dalla gente del posto a un quotidiano regionale che ha trasformato Nayak in un eroe popolare e, di conseguenza, il governo lo ha premiato con uno stipendio adeguato al lavoro svolto. Non solo.

Secondo un'intervista concessa dal fruttivendolo alla tv locale News World Odisha, il governatore si è anche incaricato di completare con il suo aiuto gli ultimi 7 km che ancora mancano alla mèta, destinati ad accorciare ulteriormente le distanze. “I miei bambini avevano difficoltà a camminare sulle pietre - ha raccontato Nayak - Li avevo visti spesso inciampare contro le rocce”. Da qui la decisione di rimboccarsi le maniche e scavare la strada attraverso le colline.

Oltre alla commovente storia del sacrificio di papà Nayak che non è mai andato a scuola e sognava un destino diverso per i figli, la sua vicenda cela la malinconica sorte di una delle tante piccole comunità piano piano spopolate dai vecchi abitanti in cerca di centri più grandi dove vivere, prosperare e muoversi con facilità.

Gumsahi è infatti così tagliato fuori dal mondo che solo la sua famiglia ha resistito a vivere nel villaggio. Sarebbe toccato alle autorità collegare anche le aree più remote e permettere ai bambini di esercitare il loro diritto allo studio. Ma non sono poche le cause delle negligenze, inclusa la corruzione che impedisce a panchayat di villaggio e municipi di spendere i soldi nei servizi per le comunità isolate.

Per questo le azioni individuali nel generale lassismo delle autorità finiscono per trasformare i protagonisti in eroi, spesso onorati e col tempo anche venerati nell'India rurale dove personaggi veramente esistiti finiscono negli altari degli spiriti locali. Già l'impresa del fruttivendolo analfabeta è stata paragonata a quella di un abitante del poverissimo Bihar passato alla storia dopo essere morto dieci anni fa al termine di una impresa ancora più faticosa della sua.

Si chiamava Dasrath Manjhi, ed era illetterato e di umili origini come Nayak. Spese 22 anni della sua vita a creare con martello e scalpello una strada lunga 100 metri, larga nove e profonda sette per accorciare da 55 a soli 15 km il tragitto dei viandanti tra Atri e Wazirganj vicino alla città di Gaia. Quando si spense, gli furono concessi funerali di Stato tra ali di folla che hanno accompagnato il suo feretro attraverso quella fenditura costruita senza chiedere una rupia, per il semplice beneficio della sua gente.

di Raimondo Bultrini

12 gennaio 2018

FONTE: Repubblica.it


E' veramente sorprendente vedere quello che riescono a fare certe persone, povere, spesso poverissime, ma armate di tanta forza di volontà, ingegno e intraprendenza. E anche e sopratutto di Amore, aggiungo io, perchè quello che ha fatto quest'uomo lo ha fatto per Amore del proprio figliolo, per permettergli di andare a scuola e istruirsi come invece lui non ha mai potuto fare nella propria vita.
Onore e merito quindi a quest'uomo, Jalandhar Nayak, e a tutti coloro che si spendono, si sacrificano e si donano per il bene della propria famiglia, della società e dell'intera umanità. Il mondo tutto vive e si regge grazie a queste meravigliose persone, grazie all'Amore di questi uomini così ricchi interiormente. E questa è la sola e unica ricchezza che conta veramente!

Marco