giovedì 23 luglio 2015

«Educare alla vita i ragazzi difficili». La scelta di Giorgia Benusiglio

A 17 anni rischiò di morire per l’ecstasy. Oggi il suo lavoro è aiutare gli adolescenti

Giorgia arriva trafelata, affida i cagnolini al fidanzato e si concede un’oretta per parlare di sé. Non capita tanto spesso. «Misuro il tempo libero con il contagocce», sorride, «praticamente vado a ruba».
La cercano tutti, in effetti. Nelle scuole, nelle carceri, ai convegni, nelle comunità di recupero, ai workshop, negli incontri pubblici e nelle piccole riunioni di settore. Chiedono la sua presenza professori e genitori, educatori e psicologi, da un capo a all’altro della Penisola e ultimamente anche oltre confine. E quando è a casa le basta dare un’occhiata alla posta o ai messaggini arrivati via WhatsApp, ce ne sono sempre in gran quantità. Tutto questo in direzione di un unico argomento: la devianza giovanile, cioè la strada sbagliata che porta le esistenze di ragazzi e ragazze verso la droga, l’alcol, l’autolesionismo, il bullismo, l’anoressia, il cyberbullismo... «Non l’avrei mai detto. Stavo per morire e invece guarda cosa sto facendo... Adesso questa è la mia vita, il mio lavoro. Studio, mi aggiorno, seguo tutto e tutti e provo a fare del mio meglio per educare alla vita ragazzi che hanno bisogno di essere ascoltati e capiti, due cose per nulla scontate».

Riavvolgiamo il nastro del tempo, torniamo a una sera in discoteca dell’anno 1999. Giorgia aveva 17 anni e voglia di ballare fino all’alba. Prese una mezza pasticca di ecstasy e finì all’ospedale di Niguarda con un’epatite tossico-fulminante. Il suo cuore stava rallentando e si sarebbe fermato in poche ore se Alessandra, una ragazza di 19 anni, non si fosse schiantata in macchina a centinaia di chilometri da lei. C’era una donatrice e i medici tentarono il trapianto, il primo in Italia dopo una diagnosi di quel genere. Giorgia (che di cognome fa Benusiglio) promise a se stessa e a suo padre Mario che se fosse sopravvissuta sarebbe andata di scuola in scuola a fare della sua esperienza una campagna antidroga. Andò bene e quella ragazzina magra magra tornò a casa ad affrontare il lunghissimo percorso post-trapianto (che in realtà non finirà mai).
Nel 2007 arrivò l’ora di mantenere la vecchia promessa. La prima scuola fu a Milano e da lì in poi arrivarono richieste per decine e decine di interventi, ovunque. Giorgia sapeva come parlare ai ragazzini, gli insegnanti si accorsero della sua capacità di entrare in sintonia con loro e lei cominciò a capire che forse proprio quello era il futuro che più le corrispondeva. Nel 2010 scrisse un libro che amplificò l’effetto (Vuoi trasgredire? Non farti!) e lo stesso anno si laureò in Scienze della formazione primaria. L’indirizzo? Psicologia della famiglia ovviamente, e la sua tesi, manco a dirlo, puntò sui comportamenti devianti e a rischio e sui punti deboli della crescita adolescenziale.

«Più entravo in quel mondo più mi ci appassionavo - spiega lei -. Così non ho mai smesso di leggere e studiare, ho coltivato contatti importanti che mi hanno molto arricchito, ho moltiplicato gli impegni sull’argomento adolescenza. Ho conosciuto mostri sacri dello studio sulle dipendenze, come Riccardo Gatti, tanto per citarne uno». Nei 32 anni di Giorgia ci sono collaborazioni con la Comunità di San Patrignano, con Onlus come «Cuore e Parole», con don Mazzi, con la Kayros di don Burgio (cappellano del carcere minorile Beccaria) e progetti di lavoro con gruppi di psicologi, di detenuti e di educatori. Una vera e propria professione, ormai. Lei è diventata un’autorità, tanto da meritarsi il prestigio di un riconoscimento americano (il premio Melvin Jones Fellow). Ma quello che più la fa felice sono le parole di chi le scrive o la chiama per dirle che la sua vita sta andando un po’ meglio da quando lei ha cominciato a farne parte. Per esempio queste: «Cara Giorgia, volevo ringraziarti per avermi salvato la vita. Se non fosse stato per te io quella mezza pasticca di ecstasy l’avrei provata (...) per dimenticare, perché mi vedo molto brutta e mi sento molto sola». Ogni messaggio racconta un dramma: «Cara Giorgia stamattina, quando hai parlato di bulimia, anoressia e autolesionismo ho pensato che con te potevo sfogarmi. Ho 13 anni e da un anno sono autolesionista(...) ogni volta che sto male la prima cosa che penso è farmi del male».
Molti affidano confidenze a «Giorgia Benusiglio prevenzione droga», la sua pagina facebook: «Ho 13 anni, da un po’ di tempo penso che la mia vita debba finire adesso. Sono autolesionista, mi limito a farmi del male con le unghie ma ho quasi tentato il suicido quando in casa non c’era nessuno...».
Qualche volta a scrivere sono le madri. Non sanno come comportarsi davanti a una figlia o un figlio adolescente che sembra voler comunicare con tutti tranne che con loro. «Io non ho certo la pretesa di sapere cosa fare in ogni occasione - dice Giorgia -, ma so che spesso bastano piccole cose a fare grandi differenze. Un esempio? Se tua figlia è lontana a studiare da qualche parte non le chiedere ogni santo giorno: cos’hai mangiato? Chiedile se si sta divertendo, se sta bene. Cambiano i toni immediatamente. Quando mi riscrivono per dirmi che ha funzionato io mi sento felice. Per loro e per me stessa».

di Giusi Fasano

31 maggio 2015

FONTE: http://www.corriere.it/cronache/15_maggio_31/educare-vita-ragazzi-difficili-scelta-giorgia-benusiglio-51207b18-075d-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml


Ecco una storia che ci insegna come da un male vissuto, spesso ne può uscire un Bene, come da una cattiva esperienza possono scaturire dei frutti estremamente buoni e duraturi. E questo è proprio il caso di Giorgia Benusiglio, che da una tragica esperienza che l'ha portata fin sulla soglia della morte, è ritornata alla vita con la fortissima motivazione di aiutare tutta quella gioventù che spesso si ritrova allo sbando, incamminata verso cattive strade e ammaliata da false luci. E c'è davvero molto bisogno di testimonianze forti e dell'esperienza di persone come Giorgia, per aiutare giovani e genitori.

Marco

venerdì 10 luglio 2015

Mamma, dobbiamo dargli da mangiare!


Un bimbo di 5 anni fa piangere un intero ristorante con un atto di grande solidarietà


Penso che Ava Faulk non avrebbe mai immaginato che portare suo figlio in un ristorante di waffles lo avrebbe fatto conoscere a livello mondiale.

Josiah Duncan è un bambino di cinque anni che negli ultimi giorni ha attirato su di sé l'attenzione della rete.

Insieme alla mamma stava mangiano alla Waffle House di Prattville (Stati Uniti) quando ha notato che un uomo con i vestiti sporchi stava fuori dal ristorante con un sacco in mano.

Josiah si è subito incuriosito e preoccupato. “Che vuol dire?”, ha chiesto.

Ava ha risposto al figlio che l'uomo non aveva una casa, il che ha suscitato ancor di più l'interesse del bambino. Dopo aver capito che l'uomo era un senzatetto e che probabilmente nessun parente o amico si interessava a lui, Josiah si è arrabbiato scoprendo che l'uomo non aveva da mangiare.

Mamma, dobbiamo dargli da mangiare”, ha detto.

La madre ha raccontato che è stata felice di poter appoggiare il figlio nell'aiutare una persona bisognosa. “Egli [il senzatetto] è entrato e si è seduto, ma nessuno è andato da lui. Allora Josiah è andato al suo tavolo e gli ha chiesto se aveva bisogno di un menù, perché nessuno riesce a fare un'ordinazione senza averne consultato uno”, ha riferito alla WSFA-TV.

Josiah e la madre hanno detto all'uomo che avrebbe potuto ordinare qualsiasi cosa, anche una buona porzione di pancetta. In quel momento, ha rivelato Ava, 11 persone erano ferme nel ristorante a guardare tutta la scena.

È stato però quando è arrivato il cibo che il bambino ha fatto piangere tutti.

La mamma ha rivelato che è stato un ultimo gesto di solidarietà che ha fatto venire le lacrime agli occhi a tutti i presenti. Quando è arrivato il cibo, Josiah ha infatti cantato una benedizione appassionata in mezzo al ristorante.

Dio, nostro Padre... Dio, nostro Padre, ti ringraziamo... Ti ringraziamo, per le nostre tante benedizioni... per le nostre tante benedizioni. Amen, amen!

L'uomo ha pianto. Io ho pianto. Tutto il ristorante ha pianto”, ha raccontato Ava. Appena finito di mangiare, l'uomo ha lasciato il ristorante. Il suo destino è incerto, ma sicuramente non dimenticherà mai Josiah.

Sarà sempre uno dei maggiori risultati come madre che potrò mai testimoniare”, ha concluso Ava.


Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti

25 maggio 2015

FONTE: Aleteia.org/it
http://www.aleteia.org/it/stile-di-vita/articolo/mamma-dobbiamo-dargli-da-mangiare-5885856304857088


Che storia stupenda..... davvero meravigliosa nella sua semplicità e purezza! La semplicità e la purezza di un bambino, che senza tanti artifici, barriere mentali o "prudenze" umane, si è rivolto a un povero affamato con lo slancio di chi ha solamente una cosa da dare: il proprio cuore puro! E poi quel ringraziamento finale al buon Dio che ha fatto commuovere tutti..... anche questo è un grande insegnamento, perchè il Signore andrebbe ringraziato sempre, sempre e per ogni cosa.
Essere nelle condizioni di poter "dare" è un grande privilegio e dovrebbe essere una condizione da "utilizzare" al meglio delle nostre possibilità. Come disse una persona molto saggia: "Non ci sono i ricchi per i poveri..... ma i poveri per i ricchi". Impariamo quindi da questo bambino a donare, donare sempre, con purezza, le nostre risorse, il nostro tempo.... il nostro cuore. E non creda che chi è nelle possibilità di donare, di essere migliore di chi invece è solo nella possibilità di poter ricevere.... perchè non è affatto così! Ma nell'una o nell'altra condizione, in qualsiasi situazione ci possiamo trovare, cerchiamo sempre di essere grati a Dio, perchè tutto è Dono, tutto è sempre per il nostro maggior Bene.

Marco   

sabato 4 luglio 2015

Muore a 106 anni Nicholas Winton, lo "Schindler britannico"


Nel 1939 mise in salvo centinaia di bambini ebrei dalla Cecoslovacchia e per decenni non ne parlò a nessuno: è morto a 106 anni

«Chi si occuperà dei bambini?». È questa la domanda che si fece Nicholas Winton, un agente di cambio inglese 29enne, quando nel 1938 capitò a Praga. Mentre la guerra si espandeva in tutta l’Europa, alcune associazioni umanitarie avevano iniziato a prendersi cura degli ebrei e di altri gruppi di persone minacciate dalla Germania di Hitler. Ma Winton si accorse che nessuno stava pensando ai bambini che abitavano in Cecoslovacchia.

Ispirandosi a Kindertransport, un’operazione di salvataggio per i bambini attiva in Germania e Austria, Winton si diede una missione che definì la sua “impresa bellica”. Durante la Seconda guerra mondiale è stato stimato che Winton abbia salvato le vite di almeno 669 fra ragazzi e ragazze: per decenni, però, non parlò a nessuno di cosa aveva fatto. Negli ultimi anni l’operazione di Winton è diventata nota a tutti: quando Winton è morto, questo primo di luglio 2015, a 106 anni, la sua storia è tornata su molti giornali. Spesso ci si riferiva a lui come allo “Schindler britannico”: un riferimento al famoso Oskar Schindler, un imprenditore tedesco che riuscì a mettere in salvo 1.200 ebrei e la cui vita è stata resa famosa dal celebre film di Steven Spielberg Schindler’s List.

Ma Winton non era molto a suo agio con gli onori che gli vennero assegnati quand’era ancora in vita, fra cui un cavalierato ricevuto dalla regina Elisabetta: era solito dire che quell’operazione gli aveva occupato «solamente nove mesi di una vita molto lunga».

Quei nove mesi iniziarono nel dicembre del 1938. All’epoca le potenze europee avevano firmato da pochi mesi l’accordo di Monaco, che permetteva alla Germania di annettere parte del territorio della Cecoslovacchia, quello abitato dai Sudeti. Il primo ministro britannico Neville Chamberlain profetizzò che quell’accordo avrebbe garantito diversi anni di pace.

Un giorno Winton si stava preparando per una giornata di sci quando un suo amico, Martin Blake, lo chiamò per dirgli che la gita era annullata. Aggiunse Blake: «Devo andare a Praga. Ho un incarico molto interessante e ho bisogno del tuo aiuto. Raggiungimi il più presto possibile. E non portare gli sci». Blake, un maestro di scuola, era socio della “British Committee for Refugees from Czechoslovakia”, un’associazione che si occupava di assistere ebrei e altri gruppi di persone perseguitate dal regime nazista che avevano lasciato i territori della Cecoslovacchia occupati dai tedeschi.

Winton ha detto al Washington Post che ai tempi si definiva il «segretario onorario della divisione per l’infanzia della “British Committee for Refugees from Czechoslovakia”: gli altri, mi definivano solamente un ingenuo totale».


Winton occupava una stanza in un hotel in piazza San Venceslao – e più tardi un ufficio – nel quale riceveva moduli da genitori che cercavano di far emigrare i propri figli dalla Cecoslovacchia. Migliaia di famiglie facevano la coda fuori dalla sua porta, secondo una testimonianza raccolta dal museo dell’Olocausto statunitense. Ricorda Winton che «ciascuno riteneva che il proprio caso fosse il più urgente. Ma come potevo io – o qualsiasi altra persona a Londra – sapere quale fosse il più urgente fra i casi? Spesso si trattava di storie molto brutte».

Con i documenti dei vari casi in mano, Winton tornava in Inghilterra e cominciava a cercare ospitalità per i bambini. Scriveva lettere ai governi, anche: e molti di essi rifiutavano le sue richieste di assistenza. Fra questi c’erano anche gli Stati Uniti: Winton dice che se solo gli Stati Uniti gli avessero dato una mano, sarebbe riuscito a sistemare almeno duemila bambini (molti dei quali perdevano comunque i loro genitori nei campi di concentramento, e non facevano mai più ritorno a casa).

Mentre lavorava alla borsa e servendosi dell’aiuto di alcuni assistenti – inclusa sua madre – Winton metteva insieme o creava appositamente dei documenti per i bambini, raccoglieva i soldi necessari e cercava famiglie interessate a ospitare bambini tramite annunci di giornale o altri strumenti. In Cecoslovacchia, ebbe l’idea di fotografare i bambini in cerca di un ospite: una foto poteva fare molto più di una lista di nomi. Winton stesso ha ammesso che si trattava di una tecnica “commerciale, sporca”, ma che comunque risultò efficace.

Le famiglie che ospitavano i bambini erano ebree, cristiane o di altre fedi religiose. Ma durante quei mesi, Winton ricorda di avere subito notevoli pressioni da alcuni rabbini, che non volevano che i bambini ebrei andassero in affidamento a famiglie cristiane. Winton ricorda di avergli risposto: «Se preferite un bambino ebreo morto piuttosto che uno vivo e vegeto ma allevato da cristiani, questo è un problema vostro, non mio».

Il primo gruppo di bambini partì da Praga il 14 marzo 1939, un giorno prima dell’invasione dei nazisti della Boemia e della Moravia. Sette altri convogli – l’ultimo partì il 2 agosto 1939 – portarono centinaia di bambini in treno in Europa, dove poi attraversavano la Manica in traghetto. Winton ha confessato di avere esultato per ogni bambino portato in salvo, ma di essersi anche reso conto che «per ogni bambino ebreo arrivato sano e salvo in Inghilterra, ce n’erano centinaia ancora bloccati in Cecoslovacchia». L’ultimo treno doveva partire il 3 settembre 1939, e doveva portare in salvo circa 250 bambini: ma due giorni prima la Germania aveva invaso la Polonia. Era stata dichiarata guerra, e di conseguenza le frontiere erano chiuse. Si pensa che nessuno di quei 250 bambini la cui partenza era prevista per quel giorno sia sopravvissuto.

Winton era nato il 19 maggio 1909 a West Hampsted, in Inghilterra. Benché i suoi antenati fossero ebrei, i suoi genitori lo battezzarono in una chiesa anglicana e cambiarono il nome della famiglia (che prima si chiamava Wertheimer). Non si definiva un religioso: «Quando misi in piedi quell’operazione, non lo feci semplicemente perché si trattava di bambini ebrei. Lo feci solamente perché erano bambini, punto». Dopo la guerra, lavorò ancora nell’ambito delle associazioni umanitarie, e andò in pensione del 1967. Nel 1980, sua moglie Grete Gjelstrup stava riordinando cose in soffitta, quando trovò una cartella piena di documenti che testimoniavano l’operazione del 1939. Winton non gliene aveva mai parlato. I documenti finirono in mano a Elisabeth Maxwell, esperta di Olocausto e moglie dell’imprenditore dell’editoria Robert Maxwell. Poco dopo, la storia di Winton trovò spazio nei giornali britannici e in un programma della BBC, “That’s Life!”. Durante la puntata, a un certo punto, la presentatrice chiese alle persone in sala quanti di loro dovessero la vita a Winton. Fra la sorpresa generale, tutto il pubblico si alzò in piedi.

Winton ha vissuto per lungo tempo a Maidenhead, in Inghilterra, ed è morto nell’ospedale di Slough, nel Berkshire.

di Emyli Langer

2 luglio 2015

FONTE: Washington Post






Un grande Uomo ci ha lasciato ! Onore e merito a Nicholas Winton, che ha salvato tante vite umane dal furore satanico della ideologia nazista.
Ci hai dato un grande esempio Nicholas e mi piace pensare che tutti coloro che hai salvato in vita e che ti hanno preceduto in Cielo, ti verranno incontro alle soglie del Paradiso per accompagnarti nel posto che ti spetta, nella Luce e nell'Amore di Dio senza fine. E gli altri che invece sono ancora su questa terra, serberanno di te un ricordo vivissimo, indelebile, e tanta, tanta riconoscenza e Amore per te. Ma anche tutti coloro che sono venuti a conoscenza della tua storia non ti dimenticheranno mai.
Grazie Nicholas !

Marco


"Chi salva una vita, salva il mondo intero!"

mercoledì 1 luglio 2015

“Il pane a chi serve”, il progetto delle ACLI di Roma per combattere spreco e povertà


Circa 1000 i kg di pane che i volontari recuperano ogni settimana dai panifici e negozi che hanno scelto di aderire all’iniziativa e che poi vengono distribuiti alle associazioni presenti sul territorio che, a loro volta, si occupano di destinarlo a chi ne ha più bisogno.

IL PANE A CHI SERVE - Recuperare il pane del giorno prima rimasto invenduto nelle panetterie per metterlo a disposizione delle associazioni che si occupano di distribuirlo a chi vive in situazione di povertà: questo l’obiettivo del progetto “Il pane a chi serve” portato avanti dalle ACLI di Roma in collaborazione con le ACLI del Lazio e ENAIP IS.

Un’iniziativa che attualmente coinvolge solo alcuni municipi, anche se l’obiettivo è quello di estenderlo presto anche a tante altre zone della Capitale.

COME FUNZIONA IL PROGETTO “IL PANE A CHI SERVE” - Circa 1000 i kg di pane che i volontari recuperano ogni settimana dai panifici e negozi che hanno scelto di aderire all’iniziativa e che poi vengono distribuiti alle associazioni presenti sul territorio che, a loro volta, si occupano di destinarlo a chi ne ha più bisogno.

Un’iniziativa importante tenuto conto che, a Roma, ogni giorno si gettano via ben 200 quintali di pane: uno spreco enorme dal momento che il pane del giorno prima è ancora ottimo. E un fatto ancora più grave tenuto conto che aumentano ogni giorno di più i singoli individui e le famiglie che vivono in condizioni di grandi difficoltà a causa della crisi economica.

IL PROGETTO DELLE ACLI DI ROMA PER IL RECUPERO DEL PANE AVANZATO - Una rete solidale che permette, allo stesso tempo, di evitare lo spreco di un alimento ancora buono e contrastare la povertà.

Attraverso il portale dedicato all’iniziativa è possibile conoscere quali sono le associazioni e gli esercenti coinvolti: presto verrà lanciata inoltre un’app che permetterà di prenotare il pane in tempo reale e facilitarne il recupero.

Per maggiori informazioni consultate il portale “Il pane a chi serve” dedicato al progetto. 


4 aprile 2015


FONTE: http://www.nonsprecare.it/il-pane-a-chi-serve-progetto-acli-roma-contro-spreco-alimentare-poverta





In questi anni di crisi economica dove il numero dei poveri cresce sempre di più, iniziative come queste sono importantissime, anzi fondamentali.

Evitare gli sprechi inutili credo che oramai sia diventata una necessità di tutti.... non solo in questo modo si risparmiano soldi e risorse, ma è anche una vera e propria forma di rispetto verso i poveri, verso coloro che hanno avuto meno di noi (e non per colpa propria). Così come importante è anche poter recuperare le eccedenze alimentari, da poter poi essere distribuite a poveri e bisognosi, proprio come in questa bella iniziativa di Roma. Anche questa è una forma di rispetto, di solidarietà e di Amore..... e la cosa bella è che ognuno può fare la propria parte, senza eccezioni. La speranza, naturalmente, è quella che iniziative come questa non siano circoscritte soltanto alla capitale o alle grandi città, ma si moltiplichino dovunque, in ogni città e centro abitato del nostro belpaese, così da creare una rete di solidarietà che possa coinvolgere tutti. Adesso, più che mai, c'è veramente bisogno di questo.

Marco