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sabato 1 maggio 2021

L'albero Falcone sarà in 500 mila scuole italiane, le gemme del ficus verranno trapiantate

L'iniziativa, intitolata "Un albero per il futuro", promossa dal ministero della Transizione ecologica, è del raggruppamento carabinieri biodiversità

L'Albero Falcone, il ficus che cresce a pochi metri dal palazzo dove abitava il magistrato assassinato nella strage di Capaci, avrà 500 mila copie che verranno piantate in altrettante scuole italiane. L'iniziativa, intitolata "Un albero per il futuro", promossa dal ministero della Transizione ecologica, è del raggruppamento carabinieri biodiversità. La donazione e messa a dimora nelle scuole avverrà entro il 2022. A oggi sono quasi 400 gli istituti scolastici che hanno aderito e intrapreso questo percorso verso la consapevolezza dell'importanza degli alberi per il contenimento dei cambiamenti climatici e la conservazione ambientale. Alcune gemme del famoso ficus macrophilla columnaris magnoleides che cresce nei pressi della casa del giudice assassinato nel 1992 dalla mafia, verranno prelevate grazie alla collaborazione fra carabinieri, Fondazione Falcone, Comune e Soprintendenza di Palermo e duplicate nel centro nazionale carabinieri per la biodiversità forestale (CNBF) di Pieve Santo Stefano (Arezzo). I primi istituti scolastici a ricevere le piantine saranno quelli intitolati al giudice: 108 scuole tra primarie di I e II grado. Questi alberi contribuiranno al "Grande bosco diffuso" formato dalle giovani piante messe a dimora da tutti gli studenti e che sarà visibile su un'apposita piattaforma web che monitorerà la crescita e lo stoccaggio di Co2.


15 aprile 2021

FONTE: La Repubblica

sabato 24 aprile 2021

Chiedere e dare perdono: la forza di Claudia e Irene

Una è la vedova dell’appuntato Antonio Santarelli, ridotto in fin di vita ad un posto di blocco e morto dopo un anno di coma nel 2012. L’altra è la mamma di Matteo, il giovane aggressore, che per quella morte sta scontando 20 anni in una comunità di don Mazzi. Insieme hanno dato vita all’associazione «AmiCainoAbele».

Il dolore è una cosa seria. Ce lo insegna anche il Vangelo: Gesù piange per l’amico Lazzaro che è morto; Giairo, uno dei capi della Sinagoga, che chiede la vita per la figlioletta morente; Maria che, straziata dal dolore, resta ai piedi della croce assistendo impotente all’agonia del Figlio.

Il dolore è una cosa seria, è una dimensione della vita sulla quale ci giochiamo anche la nostra fede. Ma il dolore è anche una strada, come lo è stata la via crucis. È una strada che va percorsa tutta, evitando inutili scorciatoie, ma immergendosi nell’abisso, che a volte è solo disperazione, per incamminarsi – a passi anche stentati – verso la feritoia di luce che intravediamo. È questa l’esperienza che hanno vissuto Claudia Francardi e Irene Sisi, due "mamme coraggiose", che hanno saputo convertire il dolore in un sentiero di speranza. Per loro e per molti altri.

Claudia Francardi è la vedova di Antonio Santarelli, l’appuntato scelto dei Carabinieri, che una mattina di festa è uscito di casa per prendere servizio e non vi ha fatto più ritorno. Quella mattina del 25 aprile 2011 la vita di Antonio si è intrecciata indissolubilmente con quella di Matteo Gorelli, un ragazzo poco più che diciottenne, il quale di ritorno da un rave party, si imbatte in un posto di blocco dei Carabinieri nella zona di Pitigliano (Grosseto). Doveva essere quasi una pratica di routine e invece quell’alt genera l’inferno. Antonio, insieme al collega, viene aggredito, riporta gravissime lesioni cerebrali e dopo un anno di coma, l’11 maggio 2012 muore.

Per quell’aggressione, diventata mortale, Matteo sta scontando venti anni in una struttura di don Antonio Mazzi nel Milanese. Una terribile storia di cronaca, come purtroppo molte ne leggiamo, che poteva finire lì, "ridursi" ad essere – appunto – "solo" una terribile vicenda di "nera" e che invece, per la forza del perdono, diventa anch’essa una storia di resurrezione. Grazie a Claudia, la vedova del Carabiniere, e Irene, la mamma del giovane che sta scontando una pena per omicidio. Dal buio della disperazione, che in modi diversi le ha fatte sprofondare nell’abisso, Claudia e Irene hanno trovato la forza della risalita, faticosa, lenta, nient’affatto scontata, ma ce l’hanno fatta. A rendere possibile la loro rinascita è stato il perdono, chiesto e donato, desiderato e maturato nel cuore. Insieme Claudia e Irene hanno dato vita all’associazione "AmiCainoAbele", presentata ufficialmente pochi giorni fa a Grosseto, nell’ambito della festa parrocchiale di Santa Lucia, nel quartiere Barbanella.

Con loro, in questo cammino faticoso, c’è sempre stato un sacerdote, don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana di Grosseto ed una vita spesa in mezzo a quelle «periferie esistenziali» di cui tante volte ci parla Papa Francesco. Nel corso degli anni don Capitani ha dato vita a tante realtà sociali e di volontariato, «ma –’ ha detto – stavolta ho contribuito a far nascere qualcosa di diverso, a suo modo straordinario».

Ha parlato di «ritorno alle origini», don Enzo, ma non in senso temporale, a quando cioè con uno sparuto gruppo di volontari e operatori dette vita al Ceis anche in Maremma. No, un «ritorno alle origini» nel vero senso della parola, un ritorno alle origini «di noi come persone – ha spiegato –. Ciascuno di noi quando è nato era in pace con tutti; la vita poi ci porta quasi a spezzare l’incantesimo della fraternità umana e nelle nostre scelte si insinua il tarlo della divisione, del risentimento, della collera, dell’ingiustizia… Quanto sarebbe bello se ognuno di noi si impegnasse a recuperare l’armonia delle origini», ha sospirato.

"AmiCainoAbele" nasce con questo scopo: ritornare alla origini, non dimenticando – certo – che il male provoca conseguenze, che bisogna rispondere del dolore generato in altri, ma che c’è anche da ricomporre un quadro, un’armonia spezzata. Claudia e Irene sono partite da qui per imparare a guardasi negli occhi, chiedendo e ricevendo perdono. Non è una storia "zuccherosa" questa; anzi, è la stessa Claudia Francardi a dire subito: «Non sono pazza», ma «se diciamo di credere in Gesù, non possiamo prendere del Vangelo solo quello che ci conviene». Ma il percorso imboccato da questa donna esile, delicata, ma forte e coraggiosa, è stato dolorosissimo, così come quello di Irene.

Entrambe hanno lasciato che il dolore – quello che soffoca, toglie il respiro, annulla la vista – facesse il suo corso. Poi è iniziata la risalita. Paradossalmente è stata proprio la morte di Antonio Santarelli a far dire a Claudia che non avrebbe voluto un futuro di rabbia, di rancore, di vendetta. Doveva fare i conti con quel giovane che le aveva "ucciso l’amore", così come nel lungo e straziante periodo di coma del marito, ha dovuto fare i conti con la disperazione, con la voce dei medici che le ripetevano che per Antonio non c’era alcuna possibilità, con la depressione, coi mesi di buio, di dolore impotente.

Nel frattempo stava andando avanti il processo di prima grado e dopo la morte di Antonio, l’accusa per Matteo si fa più grave: omicidio. Poi arriva la sentenza: ergastolo. Nella concitazione del momento c’è chi sorride e chi si dispera, c’è chi piange e chi si da di gomito: solo queste due mamme, fragilissime come una porcellana di Capodimonte, sentono nel loro cuore che non basta un tribunale. «Quando ho sentito la parola ergastolo – racconta Claudia – mi sono sentita morire un’altra volta. Matteo aveva fatto qualcosa di aberrante, ma non potevo rassegnarmi all’idea che non gli fosse concessa una possibilità di riscatto
».

L’incontro tra le due mamme era già iniziato nelle settimane precedenti quella sentenza di condanna (che poi in appello è stata mitigata a vent’anni): un giorno Irene fece recapitare a Claudia una lettera, nella quale con poche parole, le chiedeva perdono. Quella lettera non è finita nel cestino: Claudia l’ha aperta e l’ha letta. C’è voluto del tempo, perché maturasse una risposta, poi un giorno le due donne si sono incontrate ed un abbraccio ha sciolto molto, se non tutto. Irene non ha mai minimizzato o cercato "scusare" il figlio, anzi si dice convinta che proprio grazie al fatto che anche in fase processuale non si siano cercate scappatoie, ma solo la verità e che Matteo si sia preso fino in fondo la responsabilità di quanto commesso, Claudia abbia avuto la possibilità di imboccare la strada del perdono. Il cammino continua, la risalita è lenta, ma un sentiero si è aperto e nessuno vuol tornare indietro.

Dalla discesa all’inferno al percorso di resurrezione

La prima cosa che Claudia Francardi ha fatto, il giorno in cui a Milano si è incontrata faccia a faccia con Matteo Gorelli, il giovane che aveva aggredito suo marito fino a condurlo alla morte, è stato guardare le mani di Matteo. «Mi sono chiesta come sia stato possibile che mani tanto piccole e affusolate avessero potuto compiere un gesto tanto tremendo». E quelle mani hanno incontrato quelle di Claudia grazie ad un Rosario: «Quel giorno – racconta la donna – avevo con me una corona e ho chiesto a Matteo se potevo metterla tra la sua e la mia mano». E così è avvenuto.

La forza della riconciliazione è passata anche da quel gesto, per certi versi ardito. «Per Matteo – ha spiegato la mamma Irene – è stato difficilissimo incontrare per la prima volta Claudia: in lei rivedeva il male che aveva commesso, la rappresentazione della sua colpa. Ma poi si è sentito perdonato ed in lui è nata la voglia di diventare una persona migliore». Oggi Matteo studio all’Università, è iscritto al corso di laurea in scienze dell’educazione, vuol diventare educatore nelle carceri «per essere – spiega la mamma – un ponte tra il passato e il futuro che può esserci».

Nel contempo prosegue l’impegno di Irene Sisi e Claudia Francardi per far sì che la loro vicenda diventi un seme fecondo per altri. Le due donne partecipano ad incontri nelle scuole ed è proprio durante il viaggio di ritorno da uno di questi incontri che quasi all’unisono si sono dette: «Come possiamo fare in modo che questa nostra storia non resti solo un fatto per noi?».

È nata così l’idea di dar vita all’associazione «AmiCainoAbele» per coinvolgere altre persone e diffondere la cultura della riconciliazione. Che passa attraverso alcune parole che stanno alla base del progetto: verità, responsabilità, compassione. Il perdono, infatti, è un fatto personale, ma può nascere dentro un cuore preparato e all’interno di una situazione in cui la giustizia fa il suo percorso. Verità e responsabilità: quella che ha detto Matteo e che Matteo si è assunto. Se anche in sede processuale la verità non fosse emersa fino in fondo e Matteo non avesse compiuto un percorso di consapevole pentimento, non ci sarebbe stato un "dopo" diverso da quello che sembrava già scritto: una storia di dolore insopportabile, capace solo di "congelare" ciascuno nel proprio dramma.

Da questo percorso di discesa nell’inferno del male, la risalita è diventata invece un percorso di resurrezione, che può guarire "Caino" e "Abele" e può aiutare tanti altri a sperimentare che il perdono non è utopia, non è per gente "debole", ma per chi ha testa e cuore, per chi sente dentro di sé che c’è una strada percorribile, per quanto stretta e piena di insidie e dentro una vicenda che stordisce c’è un pertugio e una ferita enorme, che ancora fa male, ha però potuto trasformarsi in una feritoia dalla quale filtra quel tanto di luce che ha permesso il perdono.


di Giacomo D'Onofrio

11 ottobre 2014

FONTE: Toscana Oggi

venerdì 25 dicembre 2020

Carabinieri di Rogliano donano plasma per aiutare chi combatte contro il Covid

COSENZA - I Carabinieri della Compagnia di Rogliano (CS) e delle Stazioni dipendenti hanno deciso di dedicare una intera giornata alla comunità: presso il Centro Trasfusionale dell’Azienda Ospedaliera Annunziata – Mariano Santo - Santa Barbara di Cosenza, decine di Militari, alcuni dei quali accompagnati da loro famigliari, hanno deciso di donare il plasma per aiutare chi sta ancora combattendo la propria battaglia contro il covid-19.

Un giornata diversa quella trascorsa oggi presso la maggiore struttura sanitaria della Provincia nell’ambito della raccolta di sangue e plasma, fortemente rievocativa non solo perché tradizionalmente associata alla ricorrenza religiosa dell’Immacolata Concezione e prodromica alle festività natalizie, ormai davvero prossime, ma per il gesto concreto che molti Militari dell’Arma hanno deciso di compiere proprio oggi.

Era il mese di marzo quando alcuni Militari in servizio presso la Compagnia Carabinieri di Rogliano sono risultati positivi al covid – 19. Prima uno, poi un altro, quindi altri ancora, fino a raggiungere il numero definitivo di 11 Carabinieri positivi all’infezione: 2 di loro sarebbero stati poi ospedalizzati e uno di questi addirittura per mesi. In quei giorni particolarmente difficili, in cui per il Comune cuore pulsante della Valle del Savuto era stata indetta la zona rossa, molti Militari, sia malati che non, hanno ricevuto tanti segnali di solidarietà dalla loro comunità, o anche, più semplicemente, da molte persone che, essendo abituate a scorgere quel viso ormai quasi noto sulle autovetture impegnate di pattuglia, hanno sentito nel loro intimo il bisogno di palesare il proprio senso di solidarietà a chi in quel momento stesse soffrendo.

Tante le iniziative benefiche già organizzate dalla Compagnia dell’Arma per ricambiare le tante attenzioni ricevute, nonché rinsaldare ancora di più il tradizionale rapporto di fiducia e di vicinanza ed il senso di appartenenza che lega l’Arma alla comunità ove è chiamata ad operare: la consegna a domicilio dei tablet agli studenti che non potevano più seguire regolarmente le lezioni scolastiche, le collette alimentari, la raccolta dei disegni degli alunni delle classi elementari e medie dell’Istituto Comprensivo di Rogliano.

Da ultimo, oggi i Militari hanno inteso compiere un altro gesto di grande concretezza ed altruismo: tanti Carabinieri fra coloro che alcuni mesi fa sono risultati positivi al covid – 19 hanno deciso di mettere insieme le loro energie e recarsi tutti insieme a donare fisicamente quella parte di sé che tanto preziosa si sta dimostrando negli ospedali, dove la lotta all’infezione si combatte in prima linea: il plasma iperimmune, cioè con un’elevata concentrazione di anticorpi che, se somministrato alle giuste quantità, può aiutare concretamente chi oggi è malato a trovare una via d’uscita ed a guarire dalla malattia. Nell’occasione, atteso che non solo il virus, ma anche le buone azioni possono essere contagiose, anche alcuni familiari dei Carabinieri, pure questi già stati affetti dal covid – 19, hanno deciso di unirsi all’iniziativa e dare il loro contributo. Nella giornata odierna, è stata donata anche una considerevole quantità di sangue, anch’esso divenuto ormai “merce rara”, per le sempre crescenti esigenze degli ospedali.

Tutto questo per rispondere alla necessità, non solo istituzionale, di attenuare quel senso di solitudine e lontananza dagli affetti che la pandemia sta portando con sé e che si sentirà ancora più acuto in un momento tradizionalmente dedicato al riavvicinamento familiare, come appunto quello natalizio. Un esempio ed un appello, quello a donare il sangue ed il plasma, per chi è guarito dal covid – 19, che non può essere più ignorato.


8 dicembre 2020

FONTE: il Lametino.it

domenica 28 luglio 2019

Mario Cerciello Rega: il carabiniere ucciso a Roma aveva un cuore d'oro!


"Un cuore d'oro" lo definiscono tutti. Una vita spesa a servizio degli altri, fra tutela dell'ordine, pasti caldi ai senza tetto, barelliere a Lourdes e opere quotidiane di bene. Il "ragazzone" di Somma vesuviana cui tutti erano affezionati.

«Un ragazzo d’oro, che ha frequentato la nostra chiesa dal battesimo fino al Matrimonio». Sono le parole con cui Fra Casimiro Sedzimir, parroco della chiesa Santa Croce in Santa Maria del Pozzo a Somma Vesuviana, ricorda il vice brigadiere Mario Cerciello Rega. Proprio in questa chiesa, dove era stato celebrato anche il matrimonio, 43 giorni prima dell’assassinio, sarà dato anche l’ultimo saluto, lunedì, al carabiniere ucciso a Roma.
«Il giorno del matrimonio
», ricorda il frate, «Mario e Rosa Maria erano emozionatissimi, una bellissima giornata per loro. Avevano coronato il sogno d'amore. Mario, ogni volta che tornava da Roma frequentava la parrocchia». A Roma, invece, il carabiniere, 35 anni, faceva volontariato ed era amato da tutti, soprattutto nel quartiere di campo dei Fiori dove viveva.
Occhi azzurrissimi e buoni, appena tornato dal viaggio di nozze in Madagascar – non aveva ancora disfatto i bagagli, lascia la madre Silvia, un fratello di 31 anni e una sorella di 19 (il padre era morto 10 anni fa).
«Mario era un ragazzo d'oro, non si è mai risparmiato nel lavoro. Era un punto di riferimento per l'intero quartiere dove ha sempre aiutato tutti», ha dichiarato Sandro Ottaviani, il comandante della stazione di Piazza Farnese dove il vice brigadiere prestava servizio. Mario era anche barelliere per l'Ordine di Malta, avrebbe ricevuto la medaglia d’oro fra qualche mese, e accompagnava i malati a Lourdes. Il martedì sera, invece, distribuiva pasti ai senza dimora della Stazione Termini. Proprio a Lourdes, devoto della Madonna come sua moglie, aveva chiesto a Rosa Maria, nella grotta delle apparizioni, di sposarlo.
Tra i tanti ricordi della sua bontà anche quello di una notte di cinque anni fa quando una mamma, vedova, chiama la stazione dei carabinieri perché non sa come portare in ospedale la sua bambina. Mario la accompagna al Bambino Gesù e resta con lei fino alla mattina. Gesto che la donna racconta ai carabinieri e che vale, per Rega Cerciello, un encomio.


Tantissimi i biglietti, i fiori e gli attestati di vicinanza all’arma. Gli stessi carabinieri rendono noto una letterina di una bimba lasciata davanti al Comando generale dell’Arma: «Carissimi Carabinieri», scrive la piccola, «vi vorrei ringraziare per tutto ciò che fate ogni giorno per il nostro Paese. Sin da piccola vi guardo come un bambino guarda il suo supereroe preferito. I miei supereroi siete voi, avete un cuore nobile e puro».

E anche noi di Famiglia cristiana ci uniamo al cordoglio che è di tutto il Paese ricordando il vice brigaderie con le parole che l’Arma ha diffuso via facebook appena saputo dell'assassinio:

"Nella sua nuda essenza anche la tragedia più grande è fatta di numeri: il Vice Brigadiere Mario Cerciello Rega aveva 35 anni, era sposato da 43 giorni e 13 ne erano passati dal suo ultimo compleanno.
È morto stanotte a Roma per 8 coltellate, inferte per i 100 euro che i 2 autori di 1 furto pretendevano in cambio della restituzione di 1 borsello rubato. In gergo si chiama “cavallo di ritorno”. Ma quei numeri non sono freddi: sono il conto di un’esistenza consacrata agli altri e al dovere, di una dedizione incondizionata e coraggiosa, di un amore pieno di speranze e di promesse. E la tragedia reca la cifra più alta: l’infinito. Il più vivo dolore per una mancanza che affligge 110 mila Carabinieri. Il più vivo cordoglio ai Suoi cari, che stringiamo in un immenso, unico abbraccio
".

di Annachiara Valle

27 luglio 2019

FONTE: Famiglia Cristiana


Con grande dolore posto, tra le pagine di questo blog, questo toccante articolo tratto da Famiglia cristiana, sulla morte di questo generosissimo carabiniere dal grande cuore che ha lasciato questa vita appena due giorni fa, mentre adempiva al suo dovere di tutore della Legge e dell'ordine.
Mi unisco sentitamente al cordoglio di tutti per la prematura scomparsa di questo grande Uomo, e come tutti mi sento di ringraziare con il cuore in mano l'Arma dei Carabinieri, così come tutti coloro che si dedicano con Passione e Professionalità alla tutela dell'ordine, per il Bene comune di tutti. Non si potrà veramente mai ringraziarvi abbastanza!
Infine mi sento di elevare sentitamente una preghiera al nostro buon Dio, perchè le due persone che hanno ucciso questo bravissimo Uomo si possano pentire del loro male agire, possano chiedere Perdono, convertirsi e cambiare vita. Queste due persone non vanno odiate, assolutamente NO, ma aiutate con la nostra preghiera a cambiare, a lasciare la malsana "via vecchia" per quella "nuova", quella del rispetto e dell'Amore, perchè anche essi, non dimentichiamocelo mai, sono figli di Dio.

Marco

domenica 12 agosto 2018

Bologna, l’agente eroe: «In molti scattavano foto, li ho mandati tutti via». I 4 minuti dell’agente eroe


Le forze dell’ordine: bruciavamo, ma abbiamo dato l’anima

«
Ma certo che avevo paura, ero avvolto dalle fiamme e sentivo l’odore della mia carne che bruciava, chi non ne avrebbe avuta?». Provateci voi, a rispondere allo stesso modo per cento volte alla stessa domanda preconfezionata, "ti senti un eroe Riccardo?", mentre sei ricoverato nel reparto Grandi ustionati dell’ospedale Bufalini di Cesena, e hai la schiena, le gambe, le spalle e la nuca, insomma il 25 per cento del corpo, coperto da bruciature di secondo grado, che intanto si fanno sentire. «Eh, un po’ scotta».

La verità è che abbiamo tanto bisogno di buone notizie. L’agente Riccardo Muci da Copertino, Lecce, 31 anni, un matrimonio alle spalle, ex programmatore di volo Alitalia fino alla crisi del 2008, entrato in Polizia seguendo l’attrazione familiare per le divise, il padre Pantaleo è un sottufficiale dell’aeronautica in pensione, era la miglior notizia possibile, in una gerarchia dettata dalla vicinanza al fuoco, perché il coraggio, l’altro giorno sotto quel viadotto, l’hanno avuto in tanti. A riprova del fatto che i miracoli sono spesso un’opera collettiva.

Il racconto

«Con il mio collega eravamo impegnati nel servizio di Volanti sulla via Emilia. Quando abbiamo visto cosa era successo, io ho solo capito la situazione, e quel che sarebbe successo. Sapevo di avere poco tempo, perché ero certo che ci sarebbe stata un’altra esplosione. Sono sceso dall’auto e proprio sotto il ponte, lungo la via, era pieno di persone che facevano foto e riprese. Erano all’altezza del viadotto, addirittura si sporgevano per inquadrare meglio il camion, che da sotto mandava già piccole fiamme, era evidente che stava per saltare in aria. Io mi sono limitato a urlare, a fargli paura, a strattonare per mandare lontano quelli che non mi ascoltavano, mentre il mio collega bloccava la via con la Volante, e anche quella è stata una cosa importante. Davvero, non ho meriti particolari, e neppure ricordi da offrire, perché rivivo tutta quella scena in adrenalina, ho frammenti che scorrono veloci e non riesco a isolarne nessuno. Credo solo di aver usato bene quei quattro minuti tra la prima esplosione e quella pazzesca che è arrivata dopo».


Le ferite

Se l’è presa sulla schiena, mentre si sbracciava come per mandare ancora più lontano la gente che stava facendo fuggire. «Ho sentito un vento bollente che mi sollevava. Sono caduto, e mentre mi rialzavo mi sono accorto che la polo della mia uniforme aveva preso fuoco, ho sentito un dolore pazzesco su tutta la schiena e le fiamme che mi avvolgevano. Ho cominciato a correre urlando a chi vedevo di seguirmi. Appena ho raggiunto la macchina il collega mi ha buttato addosso dell’acqua, sentivo che gridava “acqua, serve acqua”. Finché ce l’ho fatta ho dato una mano ai carabinieri che stavano prestando soccorsi ai feriti, eravamo tutti insieme. Poi ho ceduto, avevo troppo dolore».

Altri eroi

La Polizia chiama, l’Arma dei Carabinieri risponde, o viceversa. Ma questa non è una gara. L’unica competizione è quella solita, tra le nostre due istituzioni. Questi sono solo uomini, persone normali dalle vite normali, gente semplice che quasi si sorprende di essere mostrata in pubblico per aver fatto quello che molti, si spera, avrebbero fatto. Come i militari della caserma di Borgo Panigale, duecento metri in linea d’aria dalla zona dell’esplosione, tutti i vetri infranti. «Abbiamo fatto quel che dovevamo e volevamo, abbiamo dato l’anima» dice sovrappensiero il maresciallo maggiore Arturo Guidoni, che lunedì mattina era appena rientrato dalle ferie, mentre guarda la batteria di telecamere davanti a lui, ed è una frase bellissima. Ha la testa e altre parte del corpo fasciati da garze, ha un racconto diverso solo nei dettagli dagli altri, ma con lo stesso significato. «Abbiamo sgomberato la strada. In ogni modo possibile. Meno male. Perché davvero, è stato tremendo. A un passante davanti a me si sono anneriti gli zigomi all’improvviso. Il calore era intollerabile, mi stava per scoppiare la testa, così mi sono salvato sfondando la vetrata di un bar».


Il maresciallo ordinario Fabio D’Alessio, romano del quartiere Laurentino, padre di un bimbo di otto mesi, ha anche le orecchie coperte da medicazioni, che non riescono a coprire del tutto le piaghe. Il suo pari grado Emanuele Manieri si è bruciato anche i gomiti e appare intimidito da questa esposizione mediatica. «Nessuno poteva immaginare la violenza dell’esplosione». Il comandante della compagnia Elio Norino, con ustioni di secondo grado al cuoio capelluto, racconta come abbia aperto la caserma per dare riparo a chi fuggiva, poi si schermisce alla richiesta di informazioni personali. «Siamo tutti insieme, le singole storie non contano».

Intanto all’ospedale di Cesena l’agente Muci ha ricevuto la telefonata del padre. «Bravo» gli ha detto. E si sono commossi entrambi. La sua convalescenza sarà lunga. «Ma basta con questa cosa che siamo stati coraggiosi. Abbiamo fatto il nostro dovere. E avere paura non è certo un male. Anzi, la paura ci permette di tornare a casa»

di Marco Imarisio

7 agosto 2018

FONTE: Corriere.it

giovedì 30 ottobre 2014

C'è la crisi e i carabinieri fanno la spesa a una donna in difficoltà

ROVIGO - La paura che qualcosa di brutto potesse essere successo era tanta. Alcune amiche della donna, da qualche giorno, non riuscivano più a mettersi in contatto con lei. Proprio da quando era arrivata la comunicazione dello sfratto esecutivo. Ma quando i carabinieri sono andati a controllare, l’hanno trovata a casa, disperata per la situazione economica difficile in cui versa con il figlio. Così, da un lato hanno allertato l’amministrazione comunale, dall’altro, insieme alla Onlus e Motoclub ‘Fiamme del Polesine’, hanno fatto una grossa spesa di generi alimentari per la donna che la possa aiutare a superare il momento.

È una storia intrisa di solidarietà quella che arriva da Loreo e che, sabato, ha avuto il suo epilogo nella consegna della spesa alla signora. Qualche giorno fa le amiche della donna avevano lanciato l’allarme rivolgendosi al 112. Non riuscivano più a parlarle, né ad incontrarla. Così i militari si sono precipitati a casa sua, un’abitazione Erp del Comune dove vive con il figlio maggiorenne affetto da disabilità. La donna ha aperto le porte di casa ai militari, ma nel farlo ha dato libero accesso a un mondo — il suo — intriso di difficoltà economiche e di uno sfratto diventato esecutivo. Dopo quella visita, avvenuta ormai diversi giorni fa, i carabinieri hanno allertato i servizi sociali del Comune che già si stavano occupando del caso. Ma non è finita qui, perché i militari, insieme con le ‘Fiamme del Polesine’ (molti dei soci sono proprio carabinieri) hanno deciso di fare qualcosa di più: una sostanziosa spesa di generi di prima necessità e alimentari. In tutto un centinaio di euro di prodotti che sono stati consegnati alla donna.
«Fare il carabiniere vuol dire anche aiutare il prossimo al di là delle proprie competenze istituzionali e l’Arma, nei quasi due suoi secoli di vita, ogni giorno dà numerose testimonianze anche in tal senso», è il commento della compagnia di Adria.

«La situazione della signora ci è noto e da tempo ci stiamo occupando del caso — spiega il sindaco di Loreo Bartolomeo Amidei —. Purtroppo la donna ha accumulato un debito di 8mila euro con l’Ater. Infatti, nonostante l’affitto di 10 euro al mese, sono scattati 4mila euro di sanzioni per le mensilità non versate. Il regolamento prevede infatti che, a fronte di canoni così bassi, il mancato pagamento faccia scattare l’affitto massimo di 400 euro. Ho già preso contatti con l’Ater, ho chiesto di stralciare la parte sanzionatoria mentre all’affitto reale non pagato di 4mila euro farà fronte il Comune. E ben venga anche quest’iniziativa dei carabinieri».

c. d.

18 novembre 2013

FONTE: http://www.ilrestodelcarlino.it/rovigo/cronaca/2013/11/18/983906-crisi-carabinieri-spesa.shtml


Articolo un pò datato, di circa un anno fa, ma che ho voluto inserire tra le pagine di questo blog, per evidenziare lo squisito operato dell'Arma dei carabinieri, che oltre a svolgere il loro abituale servizio, si prestano anche ad opere di solidarietà spontanee e belle come questa. E vorrei ricordare che un carabiniere semplice, con l'opera che presta, A RISCHIO ANCHE DELLA PROPRIA VITA, guadagna appena 1300 euro netti al mese.
Onore e merito quindi a tutti i carabinieri, che per pochi soldi, svolgono veramente una mansione importantissima e rischiosa nella nostra società. Non dimentichiamocelo mai!
E per concludere, inserisco il video dove il Papa, il 6 giugno di quest'anno, tiene un toccante discorso dinanzi a una Piazza S. Pietro gremita di gente, in commemorazione del bicentenario della fondazione dell'Arma dei carabinieri. Un giusto tributo a questi Uomini valorosi, cui va sempre il mio più sentito ringraziamento.

Marco