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venerdì 10 settembre 2021

Questo bibliotecario legge per telefono storie agli anziani per farli sentire meno soli

Juan Sobrino è il bibliotecario di Madrid che, insieme ad altri volontari, una volta a settimana legge storie agli anziani per telefono in modo da alleviare la loro solitudine.

Siamo soliti pensare che siano soprattutto i bambini ad amare le storie e i racconti, in realtà anche adulti e anziani possono godere di una buona lettura ad alta voce, un modo non solo per svagarsi ma anche per sentirsi più vicini agli altri.

Durante la pandemia gli anziani hanno vissuto al massimo l’isolamento sociale e ancora adesso che non c’è più il lockdown spesso vivono comunque in solitudine.

Per cercare di alleviare in qualche modo la loro sofferenza, la biblioteca Soto del Real un
ha deciso di mettere a disposizione un servizio di lettura telefonica.

Il realtà il progetto non è nuovo, il piano di lettura residenziale di Soto esisteva già prima del coronavirus ma ora si è reso più che mai utile e necessario diventando un servizio telefonico.

"Biblioterapia per anziani" nasce nel 2013 e ogni mese porta i volontari presso le residenze per anziani dove vengono lette poesie, favole, indovinelli, racconti ma anche si canta con l’accompagnamento di una chitarra.

Ai tempi della pandemia, invece di andare una volta al mese nelle residenze, i volontari leggono agli anziani per telefono una volta alla settimana e i testi sono personalizzati, a seconda delle preferenze di ogni lettore.

A capo del progetto di lettura agli anziani e della biblioteca stessa vi è Juan Sobrino che per portare avanti il tutto si serve dell’aiuto di diversi volontari. Ognuno di loro chiama e legge sempre alla stessa persona, in modo che si crei un legame e possa conoscere i suoi gusti per scegliere le letture giuste. In teoria le sessioni di lettura sono di 20 minuti ma tendono ad essere più lunghe se l’ascoltatore è particolarmente interessato.

Il programma è rivolto soprattutto a chi vive nelle residenze e non può ricevere visite di familiari o amici:

Dobbiamo portare loro dei libri per combattere l’isolamento sociale, finché si potrà leggere di nuovo nelle residenze” ha dichiarato Juan Sobrino.

Al momento gli utenti che usufruiscono del servizio sono 8, dislocati in 3 diverse residenze per anziani. Tra di loro vi è Chus López, che ha 69 anni e vive in una casa di riposo di Madrid da tre anni. La donna ha raccontato a El País che le piacciono molto i libri d’amore e che si fida dei criteri di scelta del suo bibliotecario che, dice, “sceglie sempre bene”. Certo manca molto la possibilità di avere un contatto diretto:

è meglio perché li vediamo, applaudiamo e quando finisce la lettura beviamo con loro”.

Speriamo che presto questi anziani possano ritrovare la loro normalità fatta di contatti umani e anche di buone letture in presenza.


di Francesca Biagioli

2 settembre 2020

FONTE: Greenme

giovedì 5 agosto 2021

Emporio solidale "7 ceste", un aiuto importante per le famiglie in difficoltà

La Caritas Diocesana di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino, in collaborazione la Fondazione Assisi Caritas, gestisce l’emporio solidale diocesano “7 Ceste” di Santa Maria degli Angeli, dando una risposta concreta alle tante famiglie che, a causa della povertà e delle difficoltà sociali, non riuscirebbero ad accedere ai beni di prima necessità.

L’emporio è concepito come un vero e proprio piccolo mercato dove, in base alla possibilità concessa da un’apposita commissione, si procede con la spesa di prodotti freschi, surgelati e a lunga conservazione. Infatti si opera in stretto coordinamento con le Caritas Parrocchiali, i CVS locali e soprattutto con il Comune di Assisi, partner del progetto fin dall’apertura di aprile 2016, che mette a disposizione i locali. Nel tempo si sono aggiunti anche i Comuni di Bastia Umbra e Bettona.

A seguito della grave situazione economica e sociale che si è sviluppata con la diffusione del COVID-19, l’emporio solidale ha visto un incremento della richiesta di aiuto da parte di famiglie in difficoltà economica a causa della pandemia e contemporaneamente ha dovuto riorganizzare gli spazi in ottemperanza alle indicazioni dei DPCM.

Nei primi mesi della pandemia durante la primavera 2020 si è pensato di dare accesso all’emporio a tutte le famiglie che ne facevano richiesta, nessuno escluso. L’assortimento di prodotti di prima necessità si è reso necessario quasi con cadenza giornaliera, acquistando quanti più prodotti possibili per evitare di trovarsi con scarse quantità a fronte della richiesta sempre più numerosa di aiuti. Con l’obiettivo di potenziare l’approvvigionamento di derrate alimentari e forniture di beni di prima necessità, è stato attivato un servizio di consegna di beni a domicilio finalizzato a sostenere necessità sommerse e nuovi poveri.

Inoltre si è deciso di implementare il servizio di ascolto utilizzando la tecnologia informatica: si è attivato un ascolto in modalità da remoto che ha consentito ai volontari di raggiungere le persone difficoltà il più velocemente possibile e in maniera più completa rispetto alla semplice telefonata, mantenendo vive le relazioni con i più fragili.

Per contribuire invia un’offerta a

Fondazione Assisi Caritas

IBAN: IT32Y 02008 38278 000104548803

causale: EMPORIO 7 CESTE


FONTE: Caritas Diocesana

giovedì 29 luglio 2021

In 15mila a caccia di rifiuti inquinanti in provincia di Cuneo, raccolte 30 tonnellate

In 15mila a caccia di rifiuti inquinanti, grazie all’iniziativa “Spazzamondo”. In tutta la provincia di Cuneo gli abitanti ne hanno raccolte 30 tonnellate

Trenta tonnellate di rifiuti inquinanti abbandonati nell’ambiente, per le strade dei paesi, nei boschi, sentieri, ovunque, molto spesso purtroppo non ci accorgiamo di quanto inquinamento ci sia intorno a noi di bottiglie di plastica, involucri di gelati, cicche di sigarette, lattine, mascherine, tutti rifiuti che dovrebbero finire nei cestini, ma che per incuria vengono buttati per strada, oppure cadono e non vengono raccolti, e purtroppo finiscono per inquinare boschi, fiumi, laghi e spessissimo dai corsi d’acqua raggiungono i mari e gli oceani e mettono in pericolo flora e fauna marina.

Così più di 15.000 cittadini appartenenti a 163 diversi comuni della provincia di Cuneo, hanno deciso di prendere parte all’iniziativa di raccolta di rifiuti inquinanti da ovunque ce ne fossero intorno a loro, boschi, strade cittadine, campagne, corsi d’acqua, e sono arrivati a segnare un record assoluto di raccolta, arrivando in un solo giorno a 30 tonnellate!

C’erano nonni con i nipoti, giovani, coppie, famiglie, davvero persone di tutti i tipi e tutte le età accomunate dalla voglia di fare qualcosa per l’ambiente e per il proprio paese, abitanti delle più grandi città di Bra, Alba, Mondovì ma anche da comuni e paesi più piccoli, Bergolo, Pietraporzio, Ostana, che contano poche migliaia di abitanti ma in cui ognuno ha voluto fare la propria parte.

I consorzi della raccolta rifiuti hanno fornito a tutti i sacchetti e la Fondazione Crc, promotrice dell’iniziativa "Spazzamondo – Cittadini attivi per l’ambiente", ha consegnato dei Kit per la raccolta. L’iniziativa ha l’obiettivo di creare nella cittadinanza una partecipazione attiva e una cura condivisa dei bene e spazi comuni, per valorizzare e salvaguardare ambiente e paesaggio, generando anche una coscienza collettiva sul riuso, la riduzione e il riciclo dei materiali.

Ezio Raviola, vicepresidente di Fondazione Crc ha raccontato: «Spazzamondo costituisce un’occasione importante per promuovere la partecipazione attiva delle comunità e la salvaguardia dell’ambiente, temi che la Fondazione ha individuato come centrali nel proprio piano pluriennale 2021-2024 le cui parole chiave sono Sostenibilità, Comunità, Competenze»

Michele Pianetta, vicepresidente di Anci Piemonte commenta: «L’adesione così rilevante delle amministrazioni comunali testimonia l’attenzione al tema ambientale e rappresenta un incentivo alla partecipazione dei cittadini nella tutela e salvaguardia delle comunità locali».


24 giugno 2021

FONTE: Positizie

giovedì 22 luglio 2021

Aiuta concretamente un bambino africano

L'Uganda é uno dei paesi più belli dell'Africa. Alcuni luoghi sono stati dichiarati patrimonio dell'umanità e ha ben 9 parchi naturali con leoni, antilopi, elefanti, gorilla e molti altri animali. Le sue bellezze naturali comprendono la savana, il lago Victoria, l'imponente massiccio montuoso Ruwenrozi. Il paese ha 44 milioni di abitanti e più della metà sono adolescenti al di sotto dei 15 anni. Quasi il 90 % della popolazione é di fede cristiana.
L'Uganda, che nei secoli passati ha avuto importanti regni, venne raggiunta nel 1875 dall'esploratore inglese Stanley e nel 1894 divenne un protettorato britannico. Nel 1962 ottenne l'indipendenza dal Regno Unito e da allora ha attraversato varie situazioni storiche drammatiche tra cui due guerre.

Attualmente l'Uganda ha varie situazioni problematiche tra le quali l'emergenza Covid che nonostante le misure di sicurezza e i vaccini deve ancora essere debellato così come non é stato ancora debellato in Italia, la povertà che colpisce milioni di persone adulte e bambini, la diffusione dell'Aids: 25 milioni di persone sono sieropositive anche se c'é una campagna di informazioni per tentare di bloccare l'ulteriore espansione della malattia.
A causa di conflitti, Aids e povertà ci sono in Uganda molti bambini orfani. E proprio per dare un futuro sereno, educazione e protezione ai bambini orfani il signor Moses Omara, un maestro di Storia e materie letterarie, assistente sociale, con varie, importanti esperienze di lavoro in associazioni internazionali tra le quali la FAO, ha fondato SORD (Stanford Foundation for Orphans and Rural development) che tradotto in italiano vuol dire Fondazione Stanford per gli orfani e lo sviluppo rurale. L' associazione ha fondato due scuole, una scuola a Kawenze, un distretto di Kampala, la capitale dell'Uganda e un'altra ad Amotalar, nel nord del paese, per i bambini orfani. Con il signor Omara collaborano alcuni determinati volontari, uomini e donne, sia ugandesi, sia inglesi e canadesi. Moses Omara ci racconta anche dell'amicizia tra SORD e due associazioni di volontariato in Italia: Friends and Bikers for Africa Onlus di Napoli, fondata da Francesco Maglione, di cui hanno scritto varie riviste tra cui "Famiglia Cristiana", che ha supportato le attività scolastiche della scuola di Kawempe dal 2018 al 2020 e Twins & Moto Club sempre di Napoli di Davide Liccardo che ha collaborato a costruire un'aula scolastica sempre a Kawempe. Inoltre Moses Omara ha intenzione se ci saranno altri volontari e volontarie italiani nelle due scuole di inserire nel programma di studi anche la nostra lingua e la nostra cultura. Già alcuni bambini stanno imparando il francese.
Quindi SORD ha un ottimo rapporto con l'Italia che speriamo diventi sempre più stretto in futuro.
Un altro progetto di SORD é stato donare ai bambini una capra. Avere una capra é molto importante per i bambini che vivono in zone povere e rurali perché assicura una quantità giornaliera di latte, elemento fondamentale dell'alimentazione sana dei bambini. Un altro progetto che si é attuato é stato piantare alberi per preservare l'ambiente che purtroppo é molto inquinato.

Le scuole di SORD sono non solo luogo di studio, di apprendimento, di socializzazione per i bambini orfani ma anche le loro abitazioni dove sono trattati con umanità e affetto fraterno. Inoltre i bambini saranno aiutati anche quando saranno più adulti e seguiti per ottenere un lavoro da loro scelto che garantirà loro l'indipendenza economica. Le lezioni si svolgono solo in lingua inglese. L'inglese e lo swahili sono le lingue ufficiali parlate in Uganda dove ci sono anche numerose lingue locali. Conoscere molto bene l'inglese offre l'opportunità di poter ottenere in futuro lavori qualificati e di poter comunicare molto di più. Moses Omara e sua moglie sono devoti cristiani e hanno tre figli.
SORD ha una bella pagina FB pubblica e un bel sito online dove in inglese si racconta la storia dell'associazione, dei volontari, si forniscono chiare informazioni, si spiegano le finalità delle scuole.
Nella pagina fb ci sono anche le fotografie di alcuni bambini e si raccontano le le loro storie. Frequentano le scuole più di 200 bambini e bambine di varie fasce d'età, dai 3 ai 15 anni e di diverse classi scolastiche, come ad esempio Abi, una bambina di 5 anni, Natasha di 8 anni, Emmanuel di 15 anni di cui possiamo vediamo le foto, sorridenti.
La nuova scuola di Amotalar ha urgentemente bisogno di utensili essenziali come scrivanie per gli studenti per un costo totale di 2.300 euro, letti per un costo totale di 2.100 euro, materassi per un costo totale di 1.000 euro.
Ogni donazione sarà di grande aiuto, si può avere le informazioni su come farla scrivendo un email a: info@sorduganda.org

Aiutare concretamente un bambino secondo le proprie possibilità, sia con una piccola sia con una grande donazione (ad esempio una signora ha donato 7 tablet ai bambini per poter studiare qualche tempo fa) sarà un vero, aiuto concreto. I bambini hanno bisogno di molte cose ma come ha comunicato Moses Omara stesso, scrivanie, letti e materassi sono ora gli utensili più urgenti che la scuola deve acquistare.

Aiutare concretamente un bambino vuol dire andare a dormire con la coscienza serena, soddisfatti che se un bambino avrà un letto con un materasso per dormire e una scrivania per studiare questo sarà dipeso anche da noi. Si tratta di necessità vitali che la nostra umanità, coscienza e senso della giustizia reclamano per tutti i bambini del pianeta.
Aiutiamo oggi i bambini orfani delle scuole della Fondazione Stanford.


di Lavinia Capogna

22 luglio 2021

lunedì 21 giugno 2021

Treviso. Glory, grande sacrificio per la sua piccola Greta

La donna, di origini nigeriane, aveva 29 anni e ha scoperto di avere un tumore nelle prime settimane di gravidanza. Ha rifiutato le cure più invasive ed morta il 18 agosto, poco dopo il parto

«Nostra figlia deve venire al mondo». Non ha avuto dubbi Glory Obibo, 29 anni, quando i medici le dissero che la creatura che portava in grembo poteva salvarsi solo se lei, la mamma, avesse rinviato le cure più invasive per quel tumore al seno. Cure che avrebbe potuto riprendere, eventualmente, dopo la nascita della piccola. Glory, appunto, non ha avuto nessun tentennamento nello scegliere la vita di sua figlia.

Tre mesi fa la gioia per la nascita, domenica la morte della mamma. Il marito, Samuele Nascinben, è straziato. Confida agli amici che il male è stato ingiusto, ma ringrazia ancora una volta sua moglie «per avergli lasciato un diamante».

La storia sta commuovendo tutta Treviso, tutti gli amici della famiglia, ma anche il vasto mondo del volontariato, in particolare il Cav e l’Mpv, che hanno accompagnato Gloria e Samuele lungo questo doloroso itinerario, l’ospedale di Treviso e la comunità di “Casa dei gelsi”.

Glory era giunta in Italia nel 2000 su un barcone, insieme a tante altre nigeriane, per riscattarsi dalla miseria. A Treviso ha conosciuto Samuele, un bravissimo pizzaiolo: si sono incontrati sulla strada, davanti a un Mc Donalds: lei da terra chiedeva cibo e aiuto. Lui, dall'alto, porgeva a mano. Era stato amore a prima vista. Un anno fa, dopo il matrimonio, la ricerca di un figlio. Un primo tentativo. E poi un secondo. La gravidanza arriva e i sogni ricominciano, ma dopo poche settimane, ecco il dramma che non ti aspetti: un dolore al seno, i controlli e la decisione dei medici di operare. Ma proprio in sala operatoria il tumore si palesa in tutta la sua gravità. Si rendono necessarie terapie tra le più pesanti, ma la bimba? La bambina è sana e, quindi, deve nascere.

Per Glory non ci sono dubbi. Le cure possono aspettare; per il momento bastano quelle che frenano la malattia. «Glory ha protetto tutti, fino all’ultimo, tenendosi per sé le paure e le sofferenze. L’ha fatto per dare alla luce nostra figlia – ha confidato Samuel a “La Tribuna” -, ed ora io ho tra le mani un diamante che alleverò con tutta la forza e la tenacia che aveva lei. Io potevo solo sostenerla; la sua, credo, non sia mai stata davvero una scelta. Sapeva di volere nostra figlia, ed ha proseguito per quella strada come se fosse la cosa più giusta e normale. Anche immaginando quello che poteva succedere».

Samuele ricorda, tra le lacrime, quando sua moglie gli raccomandava di non avvertire della malattia la propria famiglia perché la madre sarebbe crollata. «Proteggere tutti, tranquillizzare tutti, questa era la volontà di Glory. Io l’ho sempre fatto». La prospettiva della morte? «Con lei era impossibile parlarne, aveva sempre lo sguardo al futuro, gli occhi alla bambina. E quando la piccola è nata siamo stati la coppia più felice del mondo».

Sì, anche quando la moglie è stata ricoverata prima in ospedale (dove ha ricevuto il massimo dell’accompagnamento) e negli ultimi giorni di vita all’hospice, la “Casa dei gelsi”. «In ospedale, come alla “Casa dei gelsi” - testimonia il marito - Glory si vantava di me con le infermiere: vedete che bravo che è? Diceva ridendo, vedete quanto fortunata sono?». Glory era sostenuta da una grande Fede; era cristiana evangelica. «Certo è – afferma oggi il marito – che con lei il male poteva essere più delicato, più tenue». «Abbiamo accolto Glory all’hospice con un abbraccio – affermano i dirigenti della Casa – seguendo la nostra mission di accompagnare le persone a vivere la parte più delicata della loro malattia in un ambiente familiare, anche con la vicinanza dei propri cari, controllando il dolore e gli altri sintomi ed affrontando le problematiche psicologiche, sociali e spirituali attraverso un percorso personalizzato di cura, nel rispetto della loro personalità».

Lungo questo percorso Glory ha trovato al suo fianco le volontarie di “Uniti per la vita”. «La sua scelta è stata grande – riconosce Lidia De Candia – perché Glory era consapevole di avere un brutto male. Probabilmente sapeva anche che un’eventuale gravidanza non si sarebbe conciliata con le cure, ma la maternità l’ha voluta con tutte le sue forze. Era davvero una persona bella, educata, gentile, piena di entusiasmo. Non finiva mai di ringraziare noi volontarie, ma anche il personale medico e infermieristico prima dell’ospedale e poi dell’hospice. Non voleva che ci affaticassimo per assisterla».

Cav e Mpv di Treviso accompagnano 300 mamme in difficoltà; numerose sono proprio quelle nigeriane. «Glory era di una riconoscenza eccezionale – ammette Lidia –. Quando uscì dall’ospedale, volle farsi portare, seppur gravemente ammalata, al Cav per ringraziare. E proprio una delle nostre volontarie l’ha accompagnata anche negli ultimi istanti di vita, accanto al marito e a sua figlia».


di Francesco Dal Mas

21 agosto 2019

FONTE: Avvenire

domenica 23 maggio 2021

Palermo: dall’idea di un cittadino, cibo gratis per i bisognosi, alla fermata del bus

Palermo: dall’idea di un cittadino, Marcello Fenoaltea, cibo gratis per i bisognosi, alla fermata del bus di via Uditore, accompagnato da un cartello "Prendi ciò di cui hai bisogno"

Marcello Fenoaltea ha 54 anni e due figli di 20 e 14 anni, quasi tutti gli abitanti del quartiere se lo ricordano come animatore della Città dei ragazzi, dove vestiva i panni di Fenfer lo gnomo.

Adesso però Marcello purtroppo non ha lavoro e percepisce il reddito di cittadinanza, e non si accontenta di attendere che qualcosa succeda, l’ex animatore vuole sentirsi utile, tentare di cambiare le cose e fare del bene al proprio quartiere, di cui è innamorato e di cui amante del suo quartiere di cui si prende cura con moltissime iniziative, dal ripulire dai rifiuti, al curare le aiuole, al riverniciare le panchine e dipingere le fermare dell’autobus.

Grazie alla sua voglia di fare contagiosa, ha da poco creato un altro bel progetto di solidarietà di quartiere: la banchina solidale, inserendo in una fermata Amat di via Uditore-via Cimabue una piccola dispensa con generi di prima necessità per chi ha più bisogno.

Anche Marcello che a causa del Covid ha perso da più di un anno il lavoro da animatore e pur essendo lui stesso in ristrettezze economiche, ma non manca mai, quando va a fare la spesa, di comprare qualcosa per chi ha più bisogno e lasciarlo sotto la banchina.

Adesso sembra un altro mondo da quando coordinava il lavoro di 50 animatori negli anni d’oro della Città dei Ragazzi, eppure Marcello si è velocemente riadattato ad usare il suo entusiasmo e la sua energia per far del bene a chi ha meno di lui e per occuparsi del suo quartiere.

La banchina dell’autobus in cui ha creato la piccola dispensa solidate era decorata da Marcello e altri volenterosi cittadini con pannelli colorati, disegni in stile Liberty e una scritta che recita "L’attesa non può essere solo una perdita di tempo, approfittane".
Partito da solo, altri cittadini, contagiati dalle sue iniziative si sono uniti ad aiutarlo nel rifornire la fermata di generi di prima necessità, da sacchetti di pane presi dal fornaio locale e dolcetti e tutto quello che può servire, mentre altre cittadini hanno contattato Marcello chiedendogli di creare altre dispense solidali in altre fermate del tram della zona.

Ormai in molti conoscono l’ex animatore e la sua voglia di fare e lo contattano per proporre diversi piccoli progetti per riqualificare la zona, un piccolo circolo virtuoso creato da una persona, che ne sta coinvolgendo altre, e che punta a non fermarsi di certo qui, intanto Marcello ha creato un comitato cittadino, con anche la propria pagina facebook, "Palermo è di più" un luogo virtuale di ritrovo per cittadini positivi e volenterosi.

Lo stesso Marcello, che ha tanti altri progetti in mente per il suo quartiere che vuole sviluppare nei prossimi mesi, racconta di volersi circondare di “vicini di casa che come lui non si arrendono, che vogliono di più per gli altri, per il loro quartiere e per la loro città”.


22 aprile 2021

FONTE: Positizie

mercoledì 14 aprile 2021

Antonello e i suoi 11 figli riempiono il carrello delle famiglie brianzole in difficoltà

Antonello Crucitti, super papà bresciano, ha fondato l'associazione "Fede, speranza e carità" che aiuta le persone in difficoltà. Non solo cibo, ma anche parole di incoraggiamento

In famiglia sono in 13, mamma e papà compresi. Ma nel carrello della spesa c’è sempre posto anche per il rifornimento alimentare di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Richieste di aiuto che arrivano da perfetti sconosciuti che la famiglia Crucitti aiuta. Così come è successo per quelle trentasei famiglie monzesi che nella settimana di Pasqua hanno ricevuto un graditissimo dono da papà Antonello e dalla sua grande famiglia.

Le parole d'ordine: organizzazione e solidarietà

Una storia controcorrente quella della famiglia Crucitti di Brescia: papà Antonello lavora in ospedale e con la moglie Angela che lavora come segretaria a scuola, ha 11 figli di età compresa tra i 24 e i 5 anni. Difficile gestire la quotidianità: da quando ci si sveglia a quando si va a letto tutto deve essere organizzato nei minimi particolari per evitare il caos. Scuola, lavoro, didattica a distanza, sport, catechismo, oratorio e poi le attenzioni particolari per l’ultimogenito nato con una malattia rara. Eppure in questa delicatissima catena di montaggio dove non è permesso il minimo inceppo, c’è tanto spazio anche per la solidarietà. Antonello ha dato vita all’associazione "Fede, speranza e carità" che opera a livello nazionale in aiuto delle persone in difficoltà, ispirandosi ai valori della fratellanza universale. Un modello di vita attento all’aiuto al prossimo – non solo materiale ma anche morale – che Antonello ha trasmesso ai suoi figli che oggi lo aiutano nell’associazione. E sono tantissime, soprattutto in questo anno di emergenza sanitaria, le famiglie che in tutta la Lombardia hanno ritrovato il sorriso grazie alla famiglia Crucitti.

Grandi pacchi alimentari per le famiglie bisognose di Monza

Nei giorni scorsi è stata la volta di 36 famiglie di Monza. La segnalazione è arrivata direttamente dalla dirigente Anna Cavenaghi dell’Istituto comprensivo di via Correggio che ha indicato a Davide Pacetta, volontario monzese dell’associazione e papà di 5 bambini che frequentano le scuole di Cederna, la necessità di aiutare alcune famiglie degli alunni del comprensivo. “Per noi è stata una grandissima gioia – spiega Antonello Crucitti a MonzaToday -. Abbiamo immediatamente riempito gli scatoloni con pasta, riso, passata di pomodoro, legumi, zucchero, olio, formaggio, latte, biscotti e brioche. Tutti prodotti di primissima qualità”. Insomma, un vero e proprio carrello della spesa dalla colazione alla cena per famiglie che, certamente meno numerose di quelle di Antonello, stanno attraversando un momento di difficoltà. A distribuire i grandi pacchi Davide, Daniele Crucitti e la sorella Annamaria. La giovane è anche vicepresidente dell’associazione "Fede, speranza e carità" e con un video ha ringraziato la preside monzese per la disponibilità e per aver permesso loro di regalare una Pasqua più serena a centinaia di monzesi. Negli ultimi tempi stiamo incrementando gli aiuti su Monza – prosegue Antonello -. Sono tante le famiglie in difficoltà”. Ma la vera sorpresa l’hanno ricevuta Davide e Annamaria quando hanno incrociato gli occhi commossi e sbalorditi delle famiglie. “Mamma e papà venivano con il sacchettino della spesa – prosegue Antonello -. Quando noi gli abbiamo consegnato uno scatolone stracolmo e pesante sono rimasti senza parole. Qualcuno non riusciva neppure a sorreggerlo. Ma vi assicuro che si riceve molto più nel dare che nell’avere”.

Un sostegno morale a chi si sente smarrito

L’aiuto per Antonello è fondamentale anche nella presenza. Una presenza che, oggi, purtroppo si deve limitare a una telefonata, per i più tecnologici a una videochiamata, ma che appena sarà possibile anche a un incontro. Antonello, fortificato dalla profonda fede che ha trasmesso ai suoi figli, non si è mai fermato di fronte alla fatica.Ricordo ancora di quella volta che telefonai a un uomo che vive in Brianza e che si era rivolto a noi per chiedere aiuto – aggiunge -. Non si sa perché ma quella sera decisi di chiamarlo per sentire come stava. Era a pezzi e pronto a farla finita. Ho preso di corsa la macchina e mi sono fiondato a casa sua evitando il peggio e dandogli quella forza che gli ha permesso di rimettersi in carreggiata”.

L'associazione per continuare a riempire la dispensa delle famiglie in difficoltà ha bisogno dell'aiuto di tutti.
Anche pochi euro sono fondamentali e preziosi, ricorda Antonello. Tutti i dettagli sull'associaizone e le modalità per sostenere l'operato di Antonello sul sito www.fedesperanzacarita.com o all'email info@fedesperanzacarita.com


di Barbara Apicella

7 aprile 2021

FONTE: Monza Today

giovedì 1 aprile 2021

Giorgio, il disabile che trova 70mila euro, li restituisce e rifiuta pure i 7mila euro di mancia

Giorgio Mancosu ha ritrovato la borsa su una panchina. Il volontario ha rifiutato la ricompensa di 7.000 euro.

Un volontario della protezione civile di Trento ha trovato su una panchina della città una borsa contenente 70 mila euro in contanti. L'uomo ha però deciso di restituire alla proprietaria il denaro perduto. Il protagonista di questa bella storia è Giorgio Mancosu, uno dei volti noti della protezione civile di Trento, disabile al 100%. Una grande lezione di civiltà se consideriamo che dopo aver restituito la borsa ha rifiutato la ricompensa prevista dal codice civile (10%). Infatti, la donna che aveva perso i suoi effetti personali aveva offerto a Mancosu 7.000 euro. Lui però ha detto di no; del resto è un gesto altruista da fare senza lucro. Proprio la proprietaria della borsa, che ha preferito restare anonima, ha resa nota la vicenda, chiedendo di ringraziare pubblicamente Giorgio Mancosu.

Come scritto da "L'Adige.it" il volontario della protezione civile ha raccontato la vicenda. “Ieri, verso le 11, dopo essere stato negli uffici degli assistenti sociali del Comune in via Alfieri, mi sono avviato verso via Belenzani. Lì, abbandonata su una panchina, ho trovato una borsa di cuoio marrone. Del proprietario non c'era traccia, così ho aperto la borsa. Dentro c'erano dei disegni di una casa, come quelli dei geometri, e una busta gialla. Al suo interno c'erano moltissime banconote da 50 e 100 euro, raccolte da un elastico per capelli. Mi sono agitato nel vedere tutti quei soldi perché non sai mai cosa può accadere, potrebbero anche accusarti di averli rubati”. Oltre all'ingente somma di denaro, Mancosu ha trovato nella borsa della signora anche un cellulare con il quale è riuscito a rintracciare la proprietaria della borsa che pallida e tremante ha raggiunto il volontario per riprendere la borsa perduta.


di Giuseppe Di Martino

31 ottobre 2017

FONTE: Fanpage

giovedì 25 marzo 2021

Pane appena sfornato in dono a chi ne ha bisogno. L'iniziativa di un panificio vittoriese

I vittoriesi continuano a dimostrare di avere un grande cuore e questa pandemia, che sta causando anche numerosi problemi economici, lo sta dimostrando ancora una volta (se mai ce ne fosse stato bisogno). A spendersi per gli altri c’è anche il panificio vittoriese “Il fornaio di casa” che ha deciso di donare, ogni giorno, pane alla Protezione Civile Caruano che lo distribuirà poi alle famiglie bisognose. A differenza di altre iniziative simili, il panificio in questione non dona il pane “avanzato”, quello cioè non venduto a fine giornata, ma prepara appositamente la quantità necessaria per le famiglie che ne hanno fatto richiesta o che sono già seguite dai volontari della CAPC Caruano di Vittoria. Ai titolari del panificio ed ai ragazzi della Protezione Civile un sincero grazie per quello che ogni giorno fanno a sostegno anche dei cosidetti “nuovi poveri”, ovvero quelle persone che hanno perso il lavoro o hanno ridotto all’osso i loro introiti a causa delle restrizioni imposte per il contenimento della pandemia.

26 novembre 2020

FONTE: Radio Sole

martedì 9 marzo 2021

Alla musica ha preferito anziani e disabili: Francesca e la sua vocazione da Oss

Dalle cover di Anna Tatangelo agli ospedali, il diploma al Conservatorio lasciato nel cassetto per dedicarsi a chi non è autosufficiente

«Ho soltanto la mia età. E fino a ieri mi teneva compagnia. E a volte sogno di toccare in faccia il sole. Mi sveglio piano e poi lascio fare e quello che sarà, sarà…». Cantava nelle piazze le cover di Anna Tatangelo, agognava il successo e per questo aveva studiato. Diplomata in pianoforte e canto. La sua – però – non è la storia di un sogno sfumato, ma di uno inseguito e, in parte, già realizzato. Francesca Carchidi ha trentraquattro anni, è sposata e vive a Monterosso, nell’entroterra vibonese. Non fa più la musicista, perché ha scelto la vita dell’operatrice socio-sanitaria, assecondando un’aspirazione che aveva sin da bambina. E così, Francesca, diventa testimone autentica del significato di un acronimo, quello di "Oss", che rappresenta un mondo ai più sconosciuto, o conosciuto solo in apparenza, in superficie.

«Avevo quattordici anni – racconta – ed in paese c’erano diverse persone anziane e sole. Mi recavo da loro per aiutarle a fare piccole cose di casa, la spesa o semplicemente per scambiare qualche parola. Col tempo hanno iniziato a regalarmi qualcosa, ma non era per questo che lo facevo. Rendermi utile, aiutare chi aveva bisogno, mi dava una profonda gratificazione». Insomma, un volontariato pressoché quotidiano, che viaggiava di pari passo allo studio, alla passione per il canto ed il piano, al sogno di diventare come Anna Tatangelo, una ragazza di periferia capace di conquistare lo star system.

La svolta della sua vita arriva nel 2008, quando il Comune di Monterosso attiva un progetto per l’assistenza domiciliare alle persone non autosufficienti. Poco più che ventenne, Francesca entra nella vita di due persone che saranno sempre speciali: una madre ed una figlia, entrambe affette da gravissime patologie degenerative. «Non è durato molto quel progetto – spiega – ma anche quando si è concluso, io ho continuato a lavorare per questa famiglia. Ci lavoro ancora adesso, dopo tredici anni. La mamma ora purtroppo non c’è più ed ha lasciato un grande vuoto. È rimasta la figlia, alla quale mi dedico più e meglio che posso. Non è volontariato, ormai, per me, ma è lavoro. E lo svolgo con la stessa passione che anima un volontario».
Dal 2018, Francesca si impegna affinché possa completare la sua formazione e possa essere formalmente riconosciuta con una qualifica ciò che, di fatto, fa sin da quando era un’adolescente. Ha così iniziato il corso da operatore socio-sanitario con l’associazione San Giuseppe Moscati di Vibo Valentia. «Mi sono trovata benissimo – racconta – ho imparato tante, tantissime cose. La più importante è che questo è un lavoro delicato, importante, che non è per tutti. È un lavoro che puoi fare davvero se e solo se ti senti pronto a dedicarti completamente agli altri, altrimenti, se pensi possa essere un impiego come un altro, beh, vuol dire che hai sbagliato strada».

Il corso prevede una parte teorica e una pratica. La pratica la vedrà impiegata per 200 ore in Utic e Cardiologia allo Jazzolino, poi altre 100 ore in Pediatria, 150 in Psichiatria, infine 100 di esercitazioni pratiche. «Ripeto – dice Francesca – questo percorso non si fa per avere un pezzo di carta, ma perché devi avere una vocazione». E allora, Francesca inizia con lo sfatare i luoghi comuni: «Non si è dei veri e propri infermieri, ma se non lo sei è con la professionalità di un infermiere che devi operare e a quelle competenze devi fare il possibile per avvicinarti. Ma un Oss non è neppure un badante, attenzione…». L’Oss, così, deve occuparsi dei bisogni primari del paziente e non solo: «Arrivi e sai che devi rifare il letto, sai che devi saper prenderti cura dell’igiene della persona. Questo, però, è solo un aspetto infinitesimale di questo lavoro, che si regge invece sull’empatia con il paziente. Sai che hai davanti una persona che non può prendersi cura di se stessa e della sua salute e, con il tuo lavoro e la tua presenza, la completi».

Francesca non sa dove il futuro la condurrà, ma se potesse scegliere – lei convinta che «il futuro è quello che ci costruiamo da soli» – vorrebbe poter continuare a prendersi cura di anziani e disabili: «Potrei finire in una scuola, stare in una struttura per tossicodipendenti, in una casa famiglia, ma io preferisco le persone anziane e quelle portatrici di disabilità. Perché sapere che fai qualcosa di importante per chi non può farcela da solo mi trasmette una gratificazione emotiva immensa. E quando in tv vedo dei maltrattamenti nelle Rsa o nelle case famiglia, giuro, sto davvero male». Così, la ragazza che cantava nelle piazze e sognava il palco dell’Ariston, oggi lancia un invito ai tanti giovani che ancora aspettano il destino: «Dico loro di guardarsi dentro e di trovare la propria strada. E se scegliete di prendervi cura degli altri, vorrà dire che avrete intrapreso la mia».


di P. C.

7 marzo 2021

FONTE: il Vibonese.it

giovedì 4 febbraio 2021

Inaugurato a Rimini Hotel per i senzatetto

La benedizione del Vescovo, gli interventi del sindaco Gnassi e del vicesindaco Lisi

È stato firmato un contratto d’affitto per tre anni con la famiglia Angeli, di Torre Pedrera. Caritas ha partecipato all’istruttoria pubblica del Comune di Rimini, in merito al Progetto PAA 2020 “Accoglienza h24 per persone in condizione di marginalità estrema e senza fissa dimora legato all’emergenza Covid-19”. L’Amministrazione mette a disposizione un contributo di circa 55.000 euro, fino al 30 giugno 2021. Caritas si è iscritta all’Aia (Associazione Italiana Albergatori).

Locanda 3 Angeli non è un hotel Caritas o un albergo dei poveri ma una ‘locanda della comunità’. - ha spiegato Mario Galasso, direttore della Caritas Diocesana – È la locanda del Buon Samaritano di cui si parla nel Vangelo, sono i tre angeli che – accolti da Abramo e Sara alle querce di Mamre – porteranno la lieta notizia della nascita miracolosa del figlio Isacco. Questo progetto – ha proseguito Galasso – è un sogno partito da lontano, e condiviso con associazioni e Comune di Rimini. L’emergenza sanitaria ha modificato le nostre vite, anche quelle delle persone che vivono sulla strada. Erano e restano sole e deboli, con il rischio – durante la pandemia – di diventare ancora più sole. Locanda 3 Angeli accoglie in sicurezza le persone senza dimora”.

Grazie a voi per aver pensato a noi” è stato il commosso saluto di Ada Pronti Angeli, pioniera dell’hotel nel 1962 insieme al marito Oreste. “Per la nostra famiglia è un dono avervi qui e inaugurare questo progetto. – ha rilanciato il figlio Giuseppe a nome di tutta la famiglia – Abbiamo ricevuto un’educazione cristiana, e non intendiamo rinnegare le nostre radici: per questo mettiamo oggi a disposizione questi 5 pani e 2 pesci rappresentati dall’hotel e dai suoi servizi”.

Il Comune di Rimini ha investito oltre 500.000 euro nel ‘Piano Freddo’ – fa notare il vicesindaco e assessore alla protezione sociale Gloria Lisima quando vediamo una persona senzatetto sul nostro territorio capiamo che c’è ancora tanto da fare. Questa Locanda è una risposta, tanto attesa e necessaria, per le persone più fragili. Come ha già insegnato la storia dell’albergo sociale Stella Maris, le persone possono riscattarsi quando c’è qualcuno che tende loro una mano”.

Grazie a tutti coloro che riempiono di senso le parole, come la signora Ada il cui grazie ha un valore immenso. – sono parole del sindaco di Rimini, Andrea GnassiSoprattutto in questo periodo di seconda e terza ondata di Covid-19 sono necessarie lucidità, rigore e verità. La Locanda inaugurata oggi è una scelta lucida a favore di chi nella vita è inciampato ed è rimasto indietro. Non so se ha ragione don Oreste quando dice che le cose belle prima si fanno e poi si pensano, ma l’importante è farle e non farle da soli bensì insieme. La Locanda sarà un valore aggiunto per le vacanze, non un intoppo estivo di cui vergognarsi: è un’opera che rende più ricco il lungomare di Torre Pedrera e il territorio”.

Alcuni operatori della ‘Capanna di Betlemme’ (Apg23) svolgeranno servizio volontario presso la Locanda 3 Angeli. Nicolò Capitani, della Capanna di Betlemme: “Don Oreste ci ha insegnato che la gratuità è amare l’altro incondizionatamente. È camminare a fianco dei più deboli, né davanti né dietro”.

Benedico il Signore per questa giornata” ha esordito nel suo intervento il Vescovo di Rimini. “Ai riferimenti biblici opportunamente citati dal direttore Caritas, ne aggiungo un terzo: l’albergo che non aveva posto per loro del Vangelo della Natività. – ha ricordato mons. Francesco LambiasiProprio per far posto a chi bussa, come Giuseppe, Maria e il Bambino, don Oreste ha pensato e voluto la ‘Capanna di Betlemme’. L’opera della Papa Giovanni XXIII ha fatto tanto in questi anni, come pure il dormitorio Caritas ma oggi non bastavano più: era necessaria una struttura come la Locanda, un’opera che abbisogna della collaborazione di popolo”.
Il Vescovo ha donato alla famiglia Angeli un dipinto di Maria con il braccio Gesù, realizzato dagli ospiti della Casa Madre del Perdono, in cui i carcerati vivono un’esperienza di recupero e riscatto. Il Bambino spezza le catene sotto gli occhi di sua Madre, in questo caso “le catene della solitudine e dell’isolamento” ha ricordato il vescovo prima di procedere alla benedizione della struttura e dei presenti.

Terminata l’emergenza freddo, ‘Locanda 3 Angeli’ non cesserà il suo servizio: si pensa già ad un successivo utilizzo di accoglienza temporanea per persone sfrattate e in cerca di alloggio, si pensa di utilizzare la struttura come albergo sociale per le vacanze estive, e come centro di iniziative ed eventi per Torre Pedrera e l’intera comunità.


30 dicembre 2020

FONTE: Altarimini.it

domenica 31 gennaio 2021

La storia di Giuseppe: clochard per 20 anni, ora ha una casa. I volontari gli fanno avere la pensione: «Era un suo diritto»

«Gli abbiamo chiesto che regalo volesse per la sua nuova casa e lui ci ha risposto: “Non lo vedete che ho già tutto?”». Il 68enne ha vissuto per due decenni tra le panchine e i marciapiedi di piazza Verga. Poi, con l'impegno di Arbor, la sua vita è cambiata

«Adesso non solo ha una casa, ma dentro quelle quattro mura si sente a casa. All'inizio, non è stato così». Ad accompagnare Giovanni (nome di fantasia) nel percorso degli ultimi mesi sono stati i volontari di Arbor, unione per gli invisibili. Dopo più di vent'anni tra le panchine, i marciapiede e i portici di piazza Verga a Catania, avere un'abitazione autonoma in cui cucinare, dormire, guardare la tv seduto sul divano, non era una situazione normale per il 68enne. Una vita di lavoro e famiglia fino a prima dei 50 anni; poi la separazione dalla moglie e la perdita dell'occupazione lo fanno finire per strada «dove, negli anni – spiega a MeridioNews Dario Gulisano, responsabile Politiche abitative della Cgil e tra i promotori di Arbor – è divenuto uno dei clochard più conosciuti della città».

Al netto di brevi periodi trascorsi in qualche struttura convenzionata per accogliere le persone senza fissa dimora, «ormai si era talmente tanto abituato che pensava davvero che piazza Verga fosse casa sua – riferisce Gulisano – Certe sere, però, vedevamo che il suo sguardo era più spento del solito». Anni fa, tra l'altro, Giuseppe ha pure subito una violenta aggressione in piazza Giovanni XXIII, nella zona della stazione centrale, che gli ha causato dei gravi problemi alla vista. «Una sera, guardando i suoi documenti, abbiamo visto che aveva raggiunto l'età pensionabile e, da quel momento, ci siamo impegnati per fare in modo che ottenesse quella indipendenza economica che gli spettava di diritto». Dopo interminabili file alla Posta e all'Inps i volontari riescono a sbloccare una situazione che, in effetti, era già stata avviata un anno prima. Salvo poi restare impantanata nella burocrazia della documentazione. «Addirittura – racconta – una parte della pensione gli era già stata erogata, pare senza che lui lo sapesse, e poi gli era stata revocata».

Risolta la trafila degli impedimenti burocratici, «abbiamo anche dovuto capire dove fare arrivare la carta». Ovvero, il problema della residenza di chi non ha casa. Per Giuseppe, sui documenti era rimasta in una struttura dove aveva vissuto per un breve periodo, prima che scadesse la convenzione con il Comune di Catania. Alla fine, i soldi sono arrivati – con tanto di arretrati – e della vita di Giuseppe è tornato a fare parte anche uno dei suoi fratelli. Un passo dopo l'altro. «Le prime notti le ha passate in un bed and breakfast racconta Gulisano – Adesso paga regolarmente un affitto e si sente a proprio agio in casa sua. Ma anche trovarla non è stato facile: non tutti sono disposti a concedere un immobile a una persona che ha vissuto gli ultimi vent'anni da clochard». Adesso Giuseppe comincia a muoversi nel suo nuovo quartiere «E, da credente, ha preso i primi contatti con le parrocchie della zona. Gli piace anche molto – aggiunge Gulisano – prendersi cura della casa che tiene pulita e in ordine». I volontari vanno a trovarlo almeno una volta a settimana e gli poratno ancora vestiti e qualcosa da cucinare. «L'ultima volta, gli abbiamo chiesto che regalo volesse per la sua nuova casa e lui ci ha risposto: “Non lo vedete che ho già tutto?”».


Di Marta Silvestre

10 gennaio 2021

FONTE: Meridionews edizione Catania

giovedì 31 dicembre 2020

Una scatola di regali per il Natale dei più bisognosi: e a Lecco la parrocchia si riempie con duemila pacchi

Una rete di volontari e il prevosto hanno chiesto ai cittadini di portare una scatola di regali con cose calde, utili, dolci e divertenti: la risposta è stata sorprendente. Don Davide Milani: "Da dove ripartire dopo il Covid? Dal dono di sè, e dalla generosità che ci fa bene"

Una cosa calda, una cosa utile, una cosa buona e una cosa divertente. Tutto in una scatola, anche da scarpe purché decorata, e con un biglietto di auguri destinato a chi riceverà il dono. Si chiama "Scatole di Natale" l'iniziativa di solidarietà importata dall'estero prima a Milano, grazie all'iniziativa di Marion Pizzato, e poi a Lecco, grazie ad Adriana Calvetti e al prevosto della città, don Davide Milani. Che, ieri, si è trovato la chiesa e la parrocchia invasa di pacchi: perché il cuore buono dei lecchesi è andato ben oltre le aspettative, le scatole arrivate sono state oltre 2 mila, e la strada che porta alla chiesa di San Niccolò è andata in tilt per le tante persone che, in processione, portavano i loro pacchi.

I volontari hanno lavorato tutto il giorno per riceverli e adesso parte la consegna alle famiglie bisognose della città e della provincia, grazie alla rete delle parrocchie, della Caritas e delle associazioni. La richiesta era quella di preparare scatole con un contenuto differenziato - uomo, donna, bambini - scegliendo appunto un oggetto per ogni categoria: un maglione caldo, per esempio, con un dolce, un gioco e prodotti di pulizia. Accompagnando la scatola con un biglietto indirizzato allo sconosciuto destinatario.
Pensavamo di arrivare a 500 pacchi, a un certo punto abbiamo smsso di contarli. In un tempo in cui molti reclamano il diritto alle vacanze, allo shopping, ai pranzi per garantirsi un "buon Natale" ho incontrato oggi famiglie per le quali il modo migliore per vivere il Natale è donare”, racconta don Davide Milani. Che riflette sul messaggio di questa iniziativa e della risposta che hanno dato i lecchesi. “Tutti ci stiamo chiedendo da dove avverrà la ripresa dopo il Covid: a vedere l'oratorio e la parrocchia pieni mi viene da rispondere dalla logica del dono, ma del dono di sé, prima di tutto”. E ancora, aggiunge don Davide: “Spero che in tutte queste persone che hanno fatto un gesto così bello maturi la convinzione che ogni giorno abbiamo una scatola da donare: piena di attenzioni, affetto, cura, vicinanza al prossimo”.

di Oriana Liso

11 dicembre 2020

FONTE: la Repubblica


Che bella iniziativa, e con quanta Generosità hanno risposto le persone lecchesi! I tempi saranno anche difficili, ma gli italiani dimostrano sempre di essere un popolo molto generoso.
E con questo articolo, bello e gioioso, l'ultimo di questo 2020, auguro a tutti quanti un FELICE ANNO NUOVO, ricco di Grazia, di Doni e di Amore!

AUGURI CON TUTTO IL CUORE !!!

Marco

mercoledì 18 novembre 2020

Covid: Piccola Casa della Misericordia, volontari e benefattori insieme per l’emergenza sociale

L’emergenza legata alla diffusione del Covid-19 oltre che sanitaria, sta diventando sempre di più sociale. Colpisce soprattutto chi già viveva situazioni di difficoltà o di fragilità, creando nuove situazioni di povertà.

Accanto al lavoro encomiabile di medici, infermieri, forze dell’ordine, associazioni di volontariato, la Piccola Casa della Misericordia, grazie all’inesausto impegno dei volontari, non ha cessato di garantire i propri servizi rimodulandoli alla situazione contingente, operando in condizioni via via più difficili sempre con le opportune precauzioni (mascherine, guanti, ingressi contingentati).

Dai singoli cittadini, imprenditori, professionisti, commercianti, giovani che hanno destinato il premio del Fantacalcio, dipendenti comunali, membri delle comunità ecclesiali di san Francesco d’Assisi, di Sant’Agostino, dei Volontari e degli Adoratori, alle varie realtà che operano nel nostro territorio: Cassa Edile, M.A Costruzioni, ISOLMEC Group, Caltaqua, Pintaudi noleggio pullman, Leo Club, Lions Club, Rotaract Club, OSJ Cavalieri Ospitalieri Sicilia, Commissariato della Polizia di Stato di Gela, Farmacia Pintaudi e altri ancora, tutti spinti dal desiderio di curarsi dell’altro e schierati per fronteggiare momenti di noto disagio.

Nei momenti peggiori – afferma don Pasqualino di Dio – è il senso dell’umanità che sa aprire uno spiraglio di luce su un futuro avvolto da incertezza con la consapevolezza che solo l’unità fa la forza; questo è il tempo dell’azione, il tempo dell’unità e della solidarietà verso coloro che vivono un disagio socio-economico che non può essere fatto di progetti, contese, pubblicità di ogni minimo atto di carità, non è un tempo per ostentare ma è il tempo di servire silenziosamente, natura stessa della Carità. Ancora una volta, dallo sguardo attento e non indifferente dei privati, emerge il volto più bello della nostra Città”.

Dal 9 marzo – ha continuato Don Lino - i nostri volontari sono a servizio quotidiano delle varie richieste accolte che arrivano attraverso il numero telefonico del Centro d’ascolto. In tanti, tra i quali in molti mai censiti, chiamano al numero destinato per una semplice parola di conforto, per richieste di beni di prima necessità, per manifestare situazioni di disagio per la difficoltà materiale di pagare i canoni di locazione, per servizi a domicilio agli anziani o a coloro che sono in quarantena, per chiedere mascherine, per richieste di preghiera, intenzioni presentate ogni giorno durante le dirette YouTube e Facebook della celebrazione e dell’adorazione Eucaristica”.

Desidero di cuore ringraziare i volontari e tutti i benefattori che fino ad ora ci hanno sostenuto nonché il Comune che, a giorni, inizierà a farci pervenire le derrate alimentari che ci consentiranno di continuare questo servizio. Vorrei aggiungere, in merito alle dispute confuse relative alla ripresa delle celebrazioni Eucaristiche nelle chiese le quali per disposizione del nostro Vescovo anche in questa fase emergenziale da sempre dovevano restare aperte, che la voce della Chiesa è quella di sollecitare il governo a trovare le modalità idonee per gestire tutto in sinergia; nessuno è in lotta e nemmeno pazzi untori irresponsabili”.

Attendiamo, con serenità, quello che il governo e i vescovi diranno, sperando di poter celebrare l’Eucarestia in sicurezza, magari fuori all’esterno, così come si farà prossimamente disponendo la riapertura di cinema, teatri, biblioteche. Questi ultimi spazi sono, come tutti, possibili luoghi di contagio e non più delle nostre chiese. Quando? Non tocca a noi deciderlo. Sicuramente dobbiamo ripartire convivendo con questo mostro invisibile e facendo i conti su come si evolverà il contagio. Anche se siamo stanchi, il 4 maggio non sarà "il libera tutti", bisognerà usare massima saggezza, prudenza e senso di responsabilità, ora più di prima”.


29 aprile 2020

FONTE: Accentonews

domenica 28 luglio 2019

Mario Cerciello Rega: il carabiniere ucciso a Roma aveva un cuore d'oro!


"Un cuore d'oro" lo definiscono tutti. Una vita spesa a servizio degli altri, fra tutela dell'ordine, pasti caldi ai senza tetto, barelliere a Lourdes e opere quotidiane di bene. Il "ragazzone" di Somma vesuviana cui tutti erano affezionati.

«Un ragazzo d’oro, che ha frequentato la nostra chiesa dal battesimo fino al Matrimonio». Sono le parole con cui Fra Casimiro Sedzimir, parroco della chiesa Santa Croce in Santa Maria del Pozzo a Somma Vesuviana, ricorda il vice brigadiere Mario Cerciello Rega. Proprio in questa chiesa, dove era stato celebrato anche il matrimonio, 43 giorni prima dell’assassinio, sarà dato anche l’ultimo saluto, lunedì, al carabiniere ucciso a Roma.
«Il giorno del matrimonio
», ricorda il frate, «Mario e Rosa Maria erano emozionatissimi, una bellissima giornata per loro. Avevano coronato il sogno d'amore. Mario, ogni volta che tornava da Roma frequentava la parrocchia». A Roma, invece, il carabiniere, 35 anni, faceva volontariato ed era amato da tutti, soprattutto nel quartiere di campo dei Fiori dove viveva.
Occhi azzurrissimi e buoni, appena tornato dal viaggio di nozze in Madagascar – non aveva ancora disfatto i bagagli, lascia la madre Silvia, un fratello di 31 anni e una sorella di 19 (il padre era morto 10 anni fa).
«Mario era un ragazzo d'oro, non si è mai risparmiato nel lavoro. Era un punto di riferimento per l'intero quartiere dove ha sempre aiutato tutti», ha dichiarato Sandro Ottaviani, il comandante della stazione di Piazza Farnese dove il vice brigadiere prestava servizio. Mario era anche barelliere per l'Ordine di Malta, avrebbe ricevuto la medaglia d’oro fra qualche mese, e accompagnava i malati a Lourdes. Il martedì sera, invece, distribuiva pasti ai senza dimora della Stazione Termini. Proprio a Lourdes, devoto della Madonna come sua moglie, aveva chiesto a Rosa Maria, nella grotta delle apparizioni, di sposarlo.
Tra i tanti ricordi della sua bontà anche quello di una notte di cinque anni fa quando una mamma, vedova, chiama la stazione dei carabinieri perché non sa come portare in ospedale la sua bambina. Mario la accompagna al Bambino Gesù e resta con lei fino alla mattina. Gesto che la donna racconta ai carabinieri e che vale, per Rega Cerciello, un encomio.


Tantissimi i biglietti, i fiori e gli attestati di vicinanza all’arma. Gli stessi carabinieri rendono noto una letterina di una bimba lasciata davanti al Comando generale dell’Arma: «Carissimi Carabinieri», scrive la piccola, «vi vorrei ringraziare per tutto ciò che fate ogni giorno per il nostro Paese. Sin da piccola vi guardo come un bambino guarda il suo supereroe preferito. I miei supereroi siete voi, avete un cuore nobile e puro».

E anche noi di Famiglia cristiana ci uniamo al cordoglio che è di tutto il Paese ricordando il vice brigaderie con le parole che l’Arma ha diffuso via facebook appena saputo dell'assassinio:

"Nella sua nuda essenza anche la tragedia più grande è fatta di numeri: il Vice Brigadiere Mario Cerciello Rega aveva 35 anni, era sposato da 43 giorni e 13 ne erano passati dal suo ultimo compleanno.
È morto stanotte a Roma per 8 coltellate, inferte per i 100 euro che i 2 autori di 1 furto pretendevano in cambio della restituzione di 1 borsello rubato. In gergo si chiama “cavallo di ritorno”. Ma quei numeri non sono freddi: sono il conto di un’esistenza consacrata agli altri e al dovere, di una dedizione incondizionata e coraggiosa, di un amore pieno di speranze e di promesse. E la tragedia reca la cifra più alta: l’infinito. Il più vivo dolore per una mancanza che affligge 110 mila Carabinieri. Il più vivo cordoglio ai Suoi cari, che stringiamo in un immenso, unico abbraccio
".

di Annachiara Valle

27 luglio 2019

FONTE: Famiglia Cristiana


Con grande dolore posto, tra le pagine di questo blog, questo toccante articolo tratto da Famiglia cristiana, sulla morte di questo generosissimo carabiniere dal grande cuore che ha lasciato questa vita appena due giorni fa, mentre adempiva al suo dovere di tutore della Legge e dell'ordine.
Mi unisco sentitamente al cordoglio di tutti per la prematura scomparsa di questo grande Uomo, e come tutti mi sento di ringraziare con il cuore in mano l'Arma dei Carabinieri, così come tutti coloro che si dedicano con Passione e Professionalità alla tutela dell'ordine, per il Bene comune di tutti. Non si potrà veramente mai ringraziarvi abbastanza!
Infine mi sento di elevare sentitamente una preghiera al nostro buon Dio, perchè le due persone che hanno ucciso questo bravissimo Uomo si possano pentire del loro male agire, possano chiedere Perdono, convertirsi e cambiare vita. Queste due persone non vanno odiate, assolutamente NO, ma aiutate con la nostra preghiera a cambiare, a lasciare la malsana "via vecchia" per quella "nuova", quella del rispetto e dell'Amore, perchè anche essi, non dimentichiamocelo mai, sono figli di Dio.

Marco

martedì 13 novembre 2018

A questi bambini ho donato una scuola


L'ITALIA CHE NON STA A GUARDARE: I “MIRACOLI” DI UN GIOVANE CREMONESE

Dopo la maturità Nicolò ha aiutato i poveri in India. Ora in Grecia ha costruito aule per i piccoli profughi: «anche loro hanno lavorato con me»

«Quando sono arrivato a Samo mi sono ripromesso che avrei cambiato le cose. Le ultime le ho cambiate ieri, con calce, mattoni e camion colmi di banchi e sedie».
Venticinque anni, originario di Cremona, aveva da poco finito il liceo quando è nata in lui la voglia di regalare sorrisi. Dopo la maturità la scelta di cambiare vita. Adesso l'ultimo dei tanti sogni umanitari di Nicolò Govoni si avvera. Sull'isola greca di Samo, in un campo profughi in cui la notte si confonde con il giorno e la felicità sembra spesso negata, adulti e bambini si trovano a vivere in tende in uno spazio che dovrebbe ospitare settecento persone, ma ne accoglie quasi tremila. Lì, però, il sogno di Nicolò ha portato un po' di allegria: una scuola costruita mattone dopo mattone grazie alle donazioni provenienti dall'Italia.
Ha aperto le porte a metà agosto, dopo mesi di intenso lavoro. Lì, ora, il diritto allo studio non è più un miraggio. «Mi sono posto l'obiettivo di costruire una scuola, sembrava una missione impossibile. Mi sono dato trenta giorni di tempo, ho raccolto fondi a sufficienza per affittare un edificio e iniziare a ristrutturarlo. Sono arrivati tanti fondi dal nostro Paese, da chi leggeva i miei racconti su Facebook e decideva di darci una mano, ma non erano sufficienti. Poi, quando stavamo per mollare, la svolta: un anonimo lettore di Bianco come Dio (il secondo libro di Govoni, uscito come e-book, prossimamente edito per Rizzoli, ndr) ha deciso di sponsorizzare la scuola per un anno intero». I lavori serratissimi, mentre i profughi sbarcavano e la necessità del diritto allo studio si faceva sempre più urgente. «In un mese», racconta Nicolò, «abbiamo costruito i muri, rifatto l'impianto elettrico, comprato banchi e sedie ad Atene, installato i condizionatori e procurato tutta la cancelleria di cui avevamo bisogno. In quattro parole, abbiamo costruito una scuola, insegnanti e bambini insieme. Ogni giorno prendevamo misure, pulivamo le stanze, facevamo gli imbianchini per dimenticare gli abusi del campo profughi e i maltrattamenti che vediamo intorno a noi».

La scelta di partire, per Nicolò, è arrivata dopo il liceo linguistico a Cremona. Prima il periodo in India come volontario in un orfanotrofio, poi il trasferimento sull'isola greca. «Sono arrivato qui a settembre, ho cominciato a occuparmi dei bambini rifugiati che provenivano da Siria, Afghanistan, Iraq, Palestina, Kurdistan, Iran, Algeria e Congo. Questa missione mi riempie di gioia, è il lavoro più importante della mia vita».
Un mondo difficile, quello di Samo. «Ho visto rifugiati dormire in mezzo ai topi, nello sporco e nel degrado. Mi sono detto che sarei rimasto lì fino a quando la situazione non fosse cambiata. A dicembre, poi, ho scoperto che uno dei miei bambini, un orfano arrivato a Samo con alcuni parenti, viveva una situazione di abuso domestico. Ho fatto di tutto per aiutarlo, mi sono appellato al sistema di protezione dell'infanzia, agli assistenti sociali, al governo, alle Nazioni Unite. Le ho provate tutte, mi sono persino offerto come padre in affido di questo bimbo. La mia denuncia e i miei tentativi di dare al ragazzo la felicità che merita sono stati ignorati. Quel giorno ho perso la prima vera battaglia della mia vita, e ancora mi si spezza il cuore».
In quel momento, però, alla porta di Nicolò ha bussato un'altra occasione. «La State University di New York mi ha offerto una borsa di studio per un prestigioso master. Quello da sempre è stato il sogno della mia vita, ma in quel contesto mi è parso quasi di secondo piano. I miei studenti sono fuggiti dalla guerra e hanno perso tutto, ma ora hanno qualcosa di prezioso, un mentore, e i loro occhi brillano di gratitudine ogni giorno. E poi c'era quel bambino vittima di abusi, se me ne fossi andato sarebbe rimasto solo. Ho rinunciato, sono rimasto con i miei ragazzi». E i risultati sono arrivati. La scuola è il primo passo in avanti per cambiare le cose. «Oggi, un mese dopo, quasi cento bambini e adolescenti hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, quella per cui sono sopravvissuti a una guerra, la vera alternativa alla prigione in cui vivono». Un progetto portato avanti tutti insieme.
Mentre lo racconta, a Nicolò si illuminano gli occhi. «Perché», spiega, «questo è il bello della mia missione: che insieme si può fare la differenza». Ha un nome la scuola, si chiama Mazi, è il primo istituto per bambini rifugiati a Samo. Rimpianti? «No», risponde convinto Nicolò. «Anzi, sono felice di essere qui e di imparare ogni giorno dai ragazzi. Un anno fa mi dicevano di tornare a casa, di riprendere in mano la mia vita. Lo ammetto, ci ho pensato. Ma poi sono rimasto, e non avrei potuto fare scelta migliore».

A Nicolò squilla il telefono, dall'altro capo dell'Europa è sua nonna Mariuccia. Vuole sapere come sta, da qualche giorno è in pensiero per lui. Nicolò la rassicura. «Sto bene», le dice. Entrambi avranno gli occhi lucidi a fine chiamata. «E' la nonna che mi ha cresciuto, che mi ha insegnato la compassione e l'importanza di aiutare il prossimo», spiega Nicolò, che nonostante tutto si commuove a sentire le voci della vita che ha abbandonato per rincorrere la sua lunga, vorticosa, missione per la felicità.

Di Enrico Galletti

FONTE: Gente N. 35
1-9-2018


Ecco una di quelle storie di Amore e Solidarietà che riporto sempre con molto piacere sul mio blog.
Per chi volesse conoscere la vicenda umana di Nicolò e seguire e sostenere l'evoluzione dei progetti da lui intrapresi, lo può fare attraverso la sua pagina Facebook.
E da parte mia posso solamente dire: “Grazie di tutto Nicolò!”.

Marco

mercoledì 17 ottobre 2018

“Io sono nessuno”: Annalena Tonelli

Quindici anni fa, per l'esattezza il 5 ottobre 2003, veniva uccisa da un colpo di fucile alla testa Annalena Tonelli, missionaria laica dal cuore grande come il mondo intero, figura meravigliosa di autentica Carità Cristiana, tutta dedita ai poveri e ai malati africani.
Si potrebbero utilizzare tantissime parole per descrivere Annalena, ma credo che nulla sarebbe mai abbastanza.... preferisco allora riportare sulle pagine di questo blog questo magnifico articolo incentrato sulla sua figura trovato sul web. Un mio piccolissimo omaggio ad una persona che ha tanto da dirci con il suo esempio, con la sua dedizione e con il suo Amore totale e incondizionato. Una figura stupenda che consiglio veramente a tutti di conoscere e approfondire. Da parte mia mi sento solamente di elevare un sentitissimo “Grazie” a Dio, per averci donato un anima così bella, il cui ricordo, ne sono certo, non verrà mai meno nel cuore delle persone.



"Io sono nessuno": Annalena Tonelli



Religiosa nell’intimo, senza vestire un abito. Medico e madre. Dolcissima e forte. Per chi ha vissuto con lei, queste contraddizioni, solo apparenti, si scioglievano in una quotidianità intessuta di gioia. E di passione, come emerge dalla sua prima biografia, pubblicata ad un anno dalla sua uccisione presso il suo ospedale per i malati di tubercolosi a Borama in Somaliland.
Annalena infatti è morta il 5 ottobre, il giorno prima di vedere completata la nuova ala dell’ospedale che lei aveva fatto costruire per uno di quei miracoli della buona volontà che sembra possano accadere solo grazie all’impegno di qualcuno che crede fino in fondo in quello che fa.
Lei che aveva inventato un particolare metodo di cura delle TBC, malattia endemica tra la popolazione somala, aveva dato vita, grazie agli aiuti che le venivano in gran parte dal Comitato contro la fame nel mondo di Forlì, a una piccola ma efficace struttura da 200 posti letto a cui facevano capo oltre 1000 malati. Ancora oggi l’ospedale continua a funzionare anche senza di lei. Proprio come desiderava questa grande donna che iniziava il suo testamento con queste parole: “Non parlate di me, non avrebbe senso”, e che non si stancava di ripetere di se stessa “Io sono nessuno”.
Non è stato facile per gli autori del libro ricostruire la sua complessa e avventurosa vita. Fuggiva le occasioni ufficiali, rifiutava tutte le interviste; prima di accettare il prestigioso Premio Nansen dell’UNHCR, c’era voluta tutta la pazienza degli amici per convincerla ad andare a Ginevra… Eppure in questa biografia, sembra che sia Annalena stessa a parlare di sé. Sono infatti raccolte in fondo alla biografia molte lettere inedite e una lunga dichiarazione da lei rilasciata nel 2002, in Vaticano, durante una delle rarissime occasioni pubbliche a cui aveva accettato di partecipare in occasione della Giornata internazionale per il volontariato.
Volevo seguire Gesù e scelsi di essere per i poveri. Da allora vivo al servizio dei poveri. Per Lui feci una scelta radicale, anche se povera come un vero povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamenti di contributi per quando sarò vecchia”.
Quella dell’"Ut unum sint" è stata ed è l’agonia d’amore di tutta la mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto per essere buona e veritiera, mai violenta, nei pensieri, nell’azione, nella parola. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola. Dobbiamo imparare a perdonare. Oh, com’è difficile il perdono. I miei musulmani fanno tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo nella loro vita… eppure la vita ha un senso solo se si ama. Nulla ha senso fuori dell’amore.
La mia vita ha conosciuto tanti e tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. E ne sono uscita con la convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Ed è allora che la vita diventa degna di essere vissuta. Perdo la testa per i brandelli di umanità ferita: più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia
”.
Si scherniva di non avere meriti speciali, di fare solo quello che la sua natura di donna giusta e appassionata le dettava. Però, spiegava che nei poveri non poteva fare a meno di vedere “Gesù l’Agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo”. E poi ringraziava Dio per il dono più grande che aveva ricevuto nella sua vita: “I miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico ma è rocciosa e arroccata in Dio. I miei nomadi mi hanno insegnato a fare tutto in nome di Dio”.

Sconvolge che al termine di questo suo lungo cammino d’amore, Annalena sia stata uccisa con un colpo d’arma da fuoco sparato a distanza ravvicinata, dopo avere terminato la visita serale ai suoi degenti. Aveva 60 anni, più di metà dei quali dedicati a servire i somali più poveri, i relitti di una società tanto particolare e dilaniata dalla guerra civile. Ma lei, missionaria laica, forlivese di nascita, somala per scelta, questo servizio l’aveva scelto per amore, e la preghiera la riconfermava ogni giorno in questa dimensione.
La chiamavano infatti la "Madre Teresa della Somalia" per la sua vita spesa ogni giorno al servizio degli ultimi, dei malati, dei poveri, nelle pieghe di un nascondimento da cui nemmeno il conferimento di importanti riconoscimenti era riuscita a tirarla fuori. La sua morte, come spesso avviene per i missionari che scelgono il silenzio della carità, ce l’ha svelata in tutta la sua dolcezza, in tutto il suo coraggio.
Annalena era preparata a morire, da molti anni. Qualche mese prima aveva scritto agli amici: “Vorrei che ciascuno di quelli che amo imparasse a vedere la morte con molta più semplicità. Morire è come vivere. Camminare consiste tanto nell’alzare il piede che nel posarlo. La mia morte, la mia malattia, il mio dolore non sono assolutamente diversi dalla morte, dalla malattia, dal dolore di uno di questi adulti e dei bambini che muoiono sotto i nostri occhi ogni giorno, sul gradino di casa nostra. La mia vita è per loro, per questi piccoli ammalati, per i feriti, per chi ha mutilazioni nel corpo e nello spirito, per gli oppressi, per gli sventurati senza averlo meritato. Potessi io vivere e morire d’amore. Mi sarà dato?”.
La preghiera di Annalena è stata ascoltata.
La sua biografia rivela il profilo di una donna straordinaria. Dormiva solo quattro ore per notte, il suo ritmo di lavoro era senza soste. Mangiava fagioli e riso a pranzo. Tornava raramente in Italia a trovare la famiglia, non ne aveva il tempo. Di suo non aveva che due tuniche, uno scialle, un paio di sandali regalati da qualcuno che l’aveva vista andare in giro scalza. Era una piccola donna tutta pelle e ossa ma piena di energia, infaticabile.
La sua giornata in ospedale cominciava alle 7,30 con la riunione con i medici con cui aveva ideato e attuava un progetto sanitario innovativo, il DOTS (Directly Observed Therapy), ovvero l’attenta osservazione dei malati di tubercolosi provenienti da tribù di nomadi o seminomadi. Poi si fermava con gli ammalati, accanto ai letti per parlare con ognuno. Una carezza speciale era sempre per i bambini che si specchiavano nei suoi grandi, disarmanti occhi azzurri cerchiati di occhiaie, arrossati dalla stanchezza di giornate interminabili di lavoro, fino a notte inoltrata. Eppure Annalena era felice. Diceva: “Nella mia vita non c’è rinuncia, non c’è sacrificio. Rido di chi la pensa così. La mia è pura felicità. Chi altro al mondo ha una vita così bella?”.
Oltre all’ospedale seguiva scuole di alfabetizzazione per bambini e adulti tubercolotici, corsi di istruzione sanitaria, una scuola per piccoli sordomuti e handicappati. Si batteva contro le pratiche di mutilazioni genitali femminili, e questo impegno in favore della donna le aveva attirato addosso minacce e persecuzioni. Forse perfino il colpo di pistola che l’ha uccisa.

Annalena era arrivata in Africa nel 1970 dopo avere conseguito una laurea in giurisprudenza. Si ritrova nel nord est del Kenya, presso la missione di Wajir tra tribù nomadi, rigidamente musulmane ad insegnare ai bambini e curare i malati. Si trova per la prima volta di fronte alle vittime della tubercolosi, allontanate dalle famiglie, abbandonate da tutti per la paura del contagio, condannate ad una fine lenta. “In quel momento mi sono innamorata di loro…” racconta Annalena, sempre sproporzionata nella sua grande capacità di amore. Li accoglie, li veste, regala loro piccole cose e la felicità di essere curati. Apre una piccola struttura di cura fatta di capanne: prima 40, poi 100, 200… Qui inizia a sperimentare un nuovo metodo di cura contro la TBC, poi adottato dall’Oms con la sigla Dots e ancora oggi applicato in tutto il mondo.
Viene espulsa dopo 17 anni di volontariato per avere denunciato l’eccidio dell’etnia dei Degodia, in cui in governo keniota era coinvolto: rientra in Italia in tempo per assistere suo padre malato sino alla fine. Ma nella sua città natale, Forlì, sente che l’Africa le manca, la chiama. L’anno dopo riparte per la Somalia. La gente è la stessa, anche la lingua e la religione, ma c’è la guerra civile dopo la cacciata del dittatore Siad Barre. Si stabilisce a Mogadiscio dove dà da mangiare agli sfollati, viene derubata, rapinata e sequestrata, la sua casa è bersaglio di raffiche di mitra. Mentre imperversano i combattimenti lei recupera i cadaveri dalle strade per seppellirli, cura i malati, nasconde i rifugiati. Poi si trasferisce a Merca, sull’Oceano Indiano, dove fa riattivare il porto in disuso da 25 anni per permettere l’arrivo di aiuti umanitari. Lavora come medico presso l’Ospedale della Caritas che ospita 500 malati: spende un milione di vecchie lire al giorno (una bella cifra per la fine degli anni ’80) che le arrivano da benefattori di tutto il mondo dopo che qualche coraggioso giornalista è riuscito a arrivare sino a lei…Malgrado il fisico minuto ha una grande forza fisica e una buona dose di coraggio che le permette di non piegarsi di fronte ai ricatti e alle prepotenze dei ras locali che cercano di impadronirsi degli aiuti scaricati dalle navi.
Lascia Merca nel 1995, a causa della situazione insostenibile creatasi in seguito ai sanguinosi conflitti tra clan rivali. Il medico italiano che la sostituisce nel servizio all’ospedale della Caritas è Graziella Fumagalli, uccisa solo pochi mesi dopo il suo arrivo.
L’ultima tappa del viaggio africano di Annalena è Borama, una cittadina vicina alla frontiera con l’Etiopia, nel Somaliland. Un centro di 100.000 persone, fatto di baracche di legno affacciate su strade polverose. Recupera una vecchia struttura e con i fondi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la trasforma in ospedale, che riesce a far funzionare grazie agli aiuti che riceve dall’Italia, in particolare dal "Comitato contro la lotta alla fame nel mondo" e dalla diocesi di Forlì. Grazie alla rete di solidarietà attivata da “doctor Tonelli”, i primi 30 malati diventano rapidamente 300, riescono finalmente ad avere un letto vero, medicinali e terapie sistematiche e continue come è necessario per combattere malattie come la tubercolosi e l’AIDS.
Quando nel giugno del 2002 le viene comunicata l’assegnazione del premio Nansen da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Annalena rimane stupita, perché di questo premio, confessa candidamente agli amici, non ne conosce nemmeno l’esistenza. Con il premio Nansen, si legge nella motivazione, le viene riconosciuto a livello internazionale "l’impegno eccezionale per migliorare la sorte di coloro che in Somalia non hanno alcuna protezione. Attraverso di voi, l’UNHCR vuole ricordare che i rifugiati… hanno diritto ad essere trattati con dignità, di essere nutriti, ospitati, curati. Grazie alla vostra opera, ricordate al mondo che i diritti hanno un’anima e che è nel quotidiano, concretamente, che i diritti dell’uomo devono essere rispettati e fatti vivere…".
Annalena è la dimostrazione vivente, ormai agli occhi di tanti, delle trasformazioni e dei cambiamenti che un solo individuo, anche sprovvisto di mezzi particolari, può costruire per migliorare la vita degli altri.


di Miela Fagiolo D’Attilia e Roberto Italo Zanini

FONTE: Note di pastorale giovanile