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mercoledì 11 dicembre 2024

Bidello di 60 anni riceve in regalo un camioncino dai suoi colleghi, per aiutarlo nel suo lavoro


Robert Reed è un uomo di 60 anni che fa di professione il bidello. Secondo le notizie in nostro possesso, Robert lavora nella scuola Farmington Elementary di Germantown, in Tennessee, negli Stati Uniti. E svolge il suo lavoro con molta professionalità e attenzione, è sempre amichevole con gli studenti ed è ben visto da tutti.

Nonostante il suo lavoro Robert non naviga certo nell'oro, e così ha cercato anche un occupazione extra oltre alla sua da bidello, da svolgere nel tempo libero. Lui pensava di poter iniziare un attività di giardiniere, ma senza un mezzo a sua disposizione, questo non è stato possibile farlo.

Non solo: i suoi colleghi di lavoro alla scuola hanno scoperto che Robert per arrivare sul posto di lavoro, deve prendere un autobus e poi fare più di un Km a piedi, sia all'andata che al ritorno, con conseguente dispendio di energie e perdita di molto tempo. Tra una cosa e l'altra infatti, Robert non riesce a rincasare prima delle otto di sera.

E allora ecco che i colleghi di lavoro di Robert hanno deciso di fare qualcosa di molto importante per lui, ovvero organizzare una raccolta fondi online, col fine di comprare un mezzo di trasporto che gli possa permettere di arrivare sul posto di lavoro in tempi più brevi e anche di permettergli di svolgere questa attività extra di giardiniere, da lui tanto desiderata.

E così è stato: in breve hanno raccolto 7000 dollari e hanno acquistato un piccolo camioncino.

Robert quando ha visto l'inaspettato regalo è rimasto senza parole.... e si è perfino inginocchiato per ringraziarli.

Sono storie belle come queste che fanno andare avanti il mondo. Gesti belli, di vera e genuina Solidarietà, che ci ricordano che la nostra società, se lo vogliamo, può essere resa molto migliore da tutti quanti noi. Dobbiamo soltanto volerlo e fare ciascuno la propria parte.


Marco

Gennaio 2022

Fonte: Web




lunedì 4 ottobre 2021

Una pineta in Africa per pagare l'università

Una cooperativa di donne pianta alberi e li fa crescere dando una mano all'ambiente e alle casse domestiche. Viaggio nel nord dell'Uganda dove il possesso di una quota di bosco può permettere di far studiare i figli

Una pineta in Africa non è cosa facile da incontrare. Dove non ci sono bisogna piantare gli alberi, ripararli dal caldo, aspettare che crescano. Nel distretto di Gulu, per anni teatro di una guerra che ha disboscato terreni e famiglie, c'è una pineta meravigliosa curata da sole donne.
Il posto si chiama Opok. Nel nord dell'Uganda il tarlo della deforestazione minaccia il bacino del fiume Pece che manda le sue acque (sempre più scarse) nel grande Nilo. Qui la Watemu Lapainat Agroforestery gestisce una piantagione di dieci ettari. E' una cooperativa di 37 donne. Per loro gli alberi hanno un valore molto concreto. Per esempio Angela Anyua, una delle fondatrici, con la sua quota di pineta ha mandato la figlia all'università. Ci vogliono dieci anni per poter tagliare un albero e venderlo come legname da costruzione. Intanto si mandano al mercato i rami secchi come legna da ardere. Le donne di Lapainat piantano e seminano, seminano e piantano. In questo modo, il bosco rimane ancora alla terra e viceversa. Trattenendo l'umidità, la pineta fa bene all'ambiente e al bacino del fiume Pece. I lavori pesanti sono appaltati agli uomini di ascia muniti, ma i cordoni della borsa e le redini della strategia restano in mani femminili. Questa avventura verde, partita con un progetto di microcredito, vede il sostegno finanziario dell'Unione Europea e della Fao. Da europeo è bello vedere (e sostenere) queste donne vestite con i costumi tradizionali all'ombra della pineta di Opok. Perché non ci sono uomini nella cooperativa? Perché preferiscono i guadagni facili (da consumare in alcool), rispondono le anziane, piuttosto che i tempi lunghi che una piantagione richiede. Perché non ci sono ragazze? Perché le figlie più giovani, secondo il costume locale, quando si sposeranno dovranno trasferirsi lontano, nel villaggio del marito. E dunque per loro non avrebbe senso entrare nella cooperativa. Fortuna che in un'altra parte della foresta incontri Stella Apiwo, trentenne sposata con figli, che da quando è giovanissima gestisce un pezzo di piantagione con la sua famiglia. Stella arriva a controllare lo stato degli alberi in moto. Si capisce che viene da un'altra classe sociale rispetto alle signore delle cooperative. Evidentemente i suoi guadagni sono anche maggiori. Non ancora al livello di Langoya Dickson, un altro inquilino (finalmente un uomo!) del bosco orizzontale che da quelle parti è comunque una rarità. Ha lavorato per il Dipartimento Forestale dal 1988 al 2004 prima di mettersi in proprio. Langoya ha studiato agraria a Kampala e ad Aberdeen, in Scozia. L'azienda che ha messo in piedi con la moglie conta 150000 alberi: pini, teak ed eucalipti. «Entro il 2024 ognuno varrà sul mercato 8mila scellini ugandesi: in tutto fanno quasi 5 milioni di euro (contro gli 80mila investiti)». Mica male. L'uomo degli alberi fa i conti in tasca anche alle sue vicine. «Per una famiglia media nel villaggio il costo della vita è pari a 3900 euro all'anno. Se anche una famiglia piantasse 5 ettari di mais, non riuscirebbe a far fronte alle spese. Ma se si devolvesse anche solo un ettaro alle piante da frutta, l'obiettivo è raggiunto».
Dall'agricoltura della sopravvivenza si può (si deve) passare all'agricoltura che ha permesso ad Angela Anyua di mandare la figlia all'università. E' chiaro che il fattore tempo è importante: che cosa si mangia, mentre le piante crescono? La differenziazione è più facile per Langoya Dickson che per le 37 donne della Watemu. Che infatti hanno altre piccole fonti di reddito (bancarelle) e il loro piccolo campetto di mais. Ma il segnale è importante, per un continente come l'Africa (che con il Sudamerica perde 5 milioni di ettari di foreste all'anno). I boschi fanno bene all'ambiente. E all'economia domestica.


2 gemmaio 2018

Corriere della Sera buone notizie

martedì 28 settembre 2021

Modena: i colleghi gli regalano un giorno di ferie a testa per assistere il padre malato

Una storia di solidarietà tra lavoratori alla vigilia della Festa del Primo maggio. Il figlio: "Mio padre è morto, ma vorrei che questi gesti si moltiplicassero anche per altri"

MODENA - Tutti i colleghi, anche il direttore dello stabilimento, hanno regalato un loro giorno di ferie per poter permettere a Davide Durante, 38 anni, operaio, di assistere il padre malato. Un dono collettivo nato in fabbrica, alla Stilma Acciai di San Cesario sul Panaro, nel modenese. Una storia di solidarietà tra lavoratori alla vigilia della Festa del Primo maggio.

Il papà di Davide, Giorgio, 65 anni che avrebbe compiuto a giugno, si è ammalato di tumore al polmone lo scorso anno. "Le cose sembravano migliorare, sembrava in ripresa sino a febbraio scorso quando le metastasi sono arrivate al cervello - racconta il figlio - Avevo usato in questo periodo i miei giorni di 104 e di ferie, ma quando ha cominciato a dover fare la radioterapia ogni giorno non sapevo come fare". Anche Giorgio era operaio alla Stilma Acciai, storica azienda emiliana nel settore siderurgico (porta nel marchio il tridente Maserati): era tra i più anziani, gli volevano bene tutti, i più giovani lo chiamavano zio. E cosi un giorno Davide si è trovato il regalo: "Usa le nostre ferie". Più di un mese. Sono una trentina i dipendenti, tutti hanno partecipato. "Sono rimasto senza parole. Purtroppo a situazione di mio padre è precipitata a fine marzo, non era previsto nemmeno dai medici. Quei giorni regalati dai colleghi mi hanno permesso di condividere con lui le ultime ore. Lui è morto. Rimane la mia gratitudine rispetto a questo gesto fatto con il cuore".

A distanza di alcune settimane Davide ha deciso di raccontare la sua storia alla Gazzetta di Modena. "Volevo ringraziare i miei colleghi e l'azienda pubblicamente e far sapere che si possono usare giorni in questo modo. Vorrei, con la mia testimonianza, che in altri contesti di lavoro possa nascere questa straordinaria e incredibile solidarietà".


29 aprile 2019

FONTE: Repubblica

giovedì 12 agosto 2021

Licenziati dormono in auto: imprenditore offre loro lavoro e un alloggio

L'imprenditore, un noto ristoratore di Velletri, è venuto a conoscenza della situazione e ha deciso di aiutare i tre che da mesi dormivano in auto

Finalmente, dopo due mesi, hanno un letto in cui dormire. Una storia commovente questa che arriva da Velletri. Protagonisti di questa vicenda a lieto fine sono tre persone rimaste disocuppate.

"Fino al 2015 ho lavorato come operaio edile per una ditta, poi venni licenziato e cominciò anche il declino del mio matrimonio. L’anno dopo ho divorziato e mi sono trovato a vivere ospite di amici dove capitava. Sono andato avanti con piccoli lavoretti saltuari, manutenzione, giardinaggio. Poi neanche più quello e si è aperto il baratro. Ho chiesto lavoro dovunque ma quando dico di avere 47 anni mi chiudono la porta in faccia", ha spiegato Massimo Solinas al Messaggero. L'auto in cui ha dormito insieme ad altri due è proprio la sua. Ora però, dopo due mesi di agonia, la situazione ha avuto una svolta insaspettata.

A tendere una mano ai tre caduti in disgrazia è stato un imprenditore consapevole della propria fortuna e intenzionato ad offrire una possibilità per rialzarsi. Si tratta di Daniele Santini, un ristoratore di Velletri titolare del ristorante Paradiso. L'uomo non ha esitato a rispondere alla loro richiesta di aiuto e ha deciso di offrire loro una sistemazione abitativa, il vitto e la speranza di un lavoro in una delle sue attività ristorative. "La decisione di intervenire per aiutare Antonella, Paolo e Massimo l’ho presa insieme a mio padre Francesco, mia madre Giuliana mio fratello Claudio e mia moglie Luisa - ha dichiarato Daniele Santini al Messaggero - Da sempre la mia famiglia non si è mai tirata indietro quando si è trattato di poter tendere una mano. L’ho fatto nella speranza che sia di buon esempio per altri ed anche per far riflettere coloro che si lamentano sempre, di quanto siano in realtà fortunati ad avere un lavoro ed una casa".


di Rachele Nenzi

6 giugno 2019

FONTE: il Giornale

martedì 27 luglio 2021

Operaio perde lavoro e casa: i suoi concittadini gliela ricomprano

La casa era stata pignorata dalla banca e messa all’asta dopo che Tomasino, un operaio di Tula (Sardegna), ha perso il lavoro e non è più riuscito a sostenere le spese del mutuo. I suoi concittadini hanno quindi deciso di aiutarlo ricomprando l’immobile e donandoglielo.

Si chiama Tomasino, è un operaio di 56 anni sposato e con due figli che vive a Tula, in provincia di Sassari, e la sua è una storia di solidarietà e amicizia bellissima: dopo aver perso il lavoro, e nell'impossibilità di sostenere il pagamento delle rate del mutuo, l'uomo è rimasto anche senza casa, il frutto di anni e anni di sacrifici. A quel punto però sono scesi in campo i suoi concittadini, che dopo aver fatto una "colletta" hanno ricomprato l'immobile e gliel'hanno restituito dopo il pignoramento da parte della banca erogatrice del finanziamento. La storia di Tomasino e della sua comunità è un esempio di solidarietà in tempi dominati dall'egoismo.

Le disavventure dell'operaio sono arrivate al culmine all'inizio del 2019. Dopo aver perso il lavoro l'uomo, in grande difficoltà, ha deciso di rivolgersi ai servizi sociali. Il sindaco di Tula Gino Satta è stato uno tra i primi a muoversi e si è rivolto direttamente ai cittadini e alle associazioni. "Facciamo tutti qualcosa per salvare la casa dell'operaio Tomasino". La risposta all'appello del primo cittadino è sorprendente e commovente: associazioni, chiesa e comitati dei festeggiamenti si sono subito attivati con determinazione nella raccolta dei fondi. L'ultima asta del tribunale era fissata al prezzo di 27.000 euro.

La somma di denaro è stata raccolta a tempo di record con lotterie, sottoscrizioni e grazie al ricavato delle sagre. La casa è stata ricomprata dai cittadini di Tula e donata al vecchio proprietario. Tomasino e la sua famiglia sono quindi potuti rientrare tra quelle mura, per cui hanno tanto sudato. Gino Satta, sindaco della cittadina sarda, è orgoglioso della sua comunità: "È stata una mobilitazione straordinaria, noi come amministratori abbiamo cercato, in maniera discreta, di sollevare il problema. Tutti si sono impegnati ed in pochi mesi si è raggiunta la cifra per salvare la casa di Tomasino".


di Davide Falcioni

7 settembre 2019

FONTE: Fanpage

sabato 17 luglio 2021

Dalla strada al ristorante

In Cambogia l'organizzazione Mith Samlanshi ha avviato programmi di assistenza e tirocinio professionale. Negli ultimi anni si è occupata di oltre 100 mila bimbi poverissimi abbandonati a se stessi che ora sono meccanici, elettricisti o (tantissimi di loro) cuochi e camerieri in locali di successo

Quando Sebastian Marot si fermò al passaggio a Phnom Penh durante un viaggio verso il Giappone, nel 1994, mai avrebbe pensato che quella tappa esotica avrebbe cambiato tanto la sua vita. Conosceva bene l'Asia, aveva servito a lungo presso l'ambasciata francese a Tokio, ma la miseria estrema della Cambogia sopravissuta al genocidio dei khmer rossi e poi all'autoritarismo della Repubblica popolare di Kampuchea lo scosse profondamente. Migliaia di orfani vagavano per la città, senza casa o parenti, abbandonati a se stessi, spesso vittime di abusi di ogni genere.

Tarantole al pepe nero

La vista dei bambini di strada che dormivano sui fogli di cartone vicino al Mercato Centrale gli fecero cambiare i piani”, ricorda il Cambodia Daily, riportando le sue parole. «Ricostruire un paese senza “ricostruire” i bambini non ha alcun senso per me; è uno spreco inaudito». E' partita così l'avventura cambogiana di questo espatriato francese e di un gruppo di suoi amici stranieri che decisero di aprire un rifugio per bambini e ragazzi di strada a Phnom Penh, offrendo loro rifugio e un'educazione di base.
La maggior parte non sapeva né leggere né scrivere. Nel primo anno l'organizzazione Mith Samlanh (“Amici stretti” in lingua khmer) cambiò la vita a 17 bambini. Ad oggi ne ha salvati dalla vita di strada oltre 100.000 attraverso svariati programmi di assistenza e di tirocinio professionale, alcuni rivolti anche ai genitori. Quello di maggior successo, sopratutto a livello di immagine, è il “vocational training” nella ristorazione.
L'idea di affiancare l'attività assistenziale tradizionale al social business è nata quasi per caso quando uno chef tedesco, Gustav Auer, arrivò nella capitale cambogiana per un periodo di volontariato diciassette anni fa. A quei tempi l'offerta gastronomica a Phnom Penh era ancora alquanto limitata e così Auer suggerì a Marot di aprire un ristorante con un'offerta più evoluta del consueto cibo di strada e al contempo di addestrare “in diretta” i ragazzi a diventare cuochi, camerieri, maitre di sala. Friends The Restaurant è stato subito un successo.
Oggi riuscire a mangiare ai tavolini affacciati sulla vivace Street 13, a pochi passi dal Museo Nazionale dove sono custodite alcune delle più belle sculture khmer, è un must per i visitatori più attenti: il menù è stuzzicante e raffinato (da provare le khmer style scotch eggs, uova d'anatra con carne di maiale, lime e salsa all'aglio), il conto un po' più alto della media cambogiana ma comunque ridicolo rispetto al prezzo di una cena europea. E l'incasso viene reinvestito nei progetti del gruppo, che oggi vanta un secondo ristorante a Phnom Penh – Romdeng, con menù “all-khmer” (per gli avventurosi, “tarantole striscianti con salsa di lime al pepe nero”) - e altri sei sparsi fra Cambogia, Laos e Myanmar.

Sette regole d'oro


A Siem Reap il ristorante Marum propone forse il menù più stravagante. I più audaci possono assaggiare mini-hamburger con carne di coccodrillo, formiche rosse di albero soffritte con lime e peperoncino, ma anche una deliziosa zuppa di pesce al tamarindo e bella di giorno.
I volontari di Friends raccontano che vendendo fiori e giornali, o peggio mendicando e spacciando droga, si fanno soldi facili in Cambogia. La sfida è riuscire a convincere i giovani che un tirocinio professionale di almeno un anno può portare a un futuro migliore. «Spesso quando sei povero puoi permetterti di pensare a quello che accadrà tra un anno», secondo Gustav Auer. La sfida però finora ha avuto successo.
«Ogni anno aiutiamo 1500 giovani a conquistare nuove competenze e ottenere un posto di lavoro», assicura Sebastien Merot. In fondo, sostiene il fondatore di Friends International (www.friends-international.org), non ci vuole molto: «Addestrare uno studente costa solo 50 dollari al mese».
Accanto ai ristoranti ha avviato programmi di addestramento per parrucchieri, barbieri, estetiste, meccanici, elettricisti, impiegati d'albergo, oltre ad offrire servizi d'assistenza a chi vive ai margini della società, come gli alcolisti, i tossicodipendenti, i malati di Hiv. Uno dei programmi più interessanti si rivolge direttamente ai turisti.
In quasi tutti gli hotel di Phnom Penh (e in diversi altri Paesi dove Friends già opera) gli ospiti trovano sul comodino un depliant con sette regole d'oro da rispettare.
La campagna “ChildSafe” ha un obbiettivo chiaro e la lista merita di essere riportata qui, perchè vale anche per molti altri Paesi in via di sviluppo.
1 – I bambini non sono un attrazione turistica, non trattarli come tali
2 – Fare volontariato con i bambini ci fa sentire bene ma per loro potrebbe essere dannoso (i bambini meritano maestri preparati ed esperti che conoscano la lingua e la cultura locale)
3 – I bambini pagano cara la vostra generosità; non dare nulla ai bambini che mendicano
4 – I professionisti sanno cosa fare, chiamali se un bambino ha bisogno di aiuto
5 – Il sesso con i bambini è un crimine, denuncia il turismo sessuale
6 – I bambini non dovrebbero lavorare invece di andare a scuola, denuncia il lavoro infantile
7 Child-Safe Traveller (per maggiori informazioni: www.thinkchildsafe.org).


di Sara Gandolfi

2 gennaio 2018

FONTE: Corriere della Sera buonenotizie

sabato 13 febbraio 2021

Riccardo e Barbara, coppia di sposi missionari che vive insieme ai più fragili

Riccardo Rossi e Barbara Occhipinti hanno scelto di impegnarsi per le oltre 1.100 persone accolte nella Missione Speranza e Carità fondata da Biagio Conte a Palermo, con un'attenzione particolare alla cura della comunicazione sociale. Con il progetto "Ponti di bene" aiutano i poveri a trovare occupazione

PALERMO - Sono impegnati e sensibili verso i bisogni delle oltre 1.100 persone accolte nella Missione Speranza e Carità fondata da Biagio Conte a Palermo e con un'attenzione particolare alla cura della comunicazione sociale. Sono Riccardo Rossi e Barbara Occhipinti, la prima coppia di sposi che ha scelto di vivere in spirito missionario lasciando alle spalle la vita precedente. Da poco sono tornati da un viaggio nel nord Italia per portare avanti il progetto "Ponti di bene", pensato per favorire lo scambio e il trasferimento delle persone con fragilità da Sud a Nord in altri luoghi di accoglienza per poter trovare anche una occupazione lavorativa.
"Siamo appena tornati dal viaggio 'Ponti di bene' che ci ha permesso di conoscere parecchie realtà dove i nostri fratelli in povertà potrebbero trovare per un determinato periodo accoglienza e lavoro - spiega Riccardo -. L'obiettivo è quello di favorire scambi di bene e nello stesso tempo di creare una rete di servizi nazionale tra le realtà missionarie. Grazie ai primi contatti è già partito dalla missione il nostro primo fratello per un centro della Toscana".
"Io e Barbara siamo la prima coppia, la prima famiglia missionaria che ha deciso di fare questo cammino terziario che è previsto dallo statuto della Missione - dice ancora Riccardo -. In Missione siamo continuamente a servizio per tutti. In particolare, organizziamo e stampiamo il periodico La Speranza, seguiamo anche una piccola squadra di calcio di giovani immigrati e poi siamo impegnati a promuovere tutte le iniziative sociali e di solidarietà che ci sono".

"Come coppia, per noi è importante lavorare insieme - aggiunge Barbara -. Siamo continuamente immersi nelle fragilità di ogni tipo dove muoversi non è facile perché ci sono persone che hanno vissuto drammi e sofferenze diverse. La prima cosa da fare è cercare di trasmettere quella fiducia e quella motivazione necessaria che porta la persona, in forte stato di fragilità, a rinascere a poco a poco. La fatica è tanta ma la possibilità di ridare loro la dignità che meritano ci dà tanta gioia, energia e coraggio di andare avanti. Con 'Ponti di bene', in particolare dopo un viaggio di 15 giorni, ci stiamo impegnando molto per riuscire a creare una rete che favorisca la mobilità dei poveri e lo scambio di esperienze di servizio e di lavoro da Sud a Nord".
Riccardo Rossi è di Napoli ha 50 anni e per 10 anni ha lavorato come giornalista per diverse realtà ambientaliste e politiche. Un mondo da cui a poco a poco si è allontanato. "Dopo una conversione ai Valori Cristiani non mi sono più riconosciuto in quello che facevo - racconta -. Sono entrato, infatti, in una crisi depressiva allontanandomi da un mondo che mi appariva troppo superficiale e non ancorato alla verità". "Purtroppo ho avuto problemi familiari molto seri legati soprattutto alla grande sofferenza di avere un fratello tossicodipendente. Dopo quindi un periodo di ricerca interiore, grazie ad alcune persone che mi hanno preso per mano, ho deciso di vivere da missionario nella casa famiglia 'Oasi la divina provvidenza' per disabili mentali e fisici di Pedara (Ct) dove sono stato 15 anni, di cui gli ultimi due anni con Barbara. Per lungo tempo sono stato le braccia e le gambe di tante persone sofferenti alcune delle quali con malattie terminali che ho accompagnato anche alla morte".

"Dopo 5 anni che vivevo nella comunità di Pedara ho conosciuto a Palermo Biagio Conte con cui è nata subito una grande sintonia di fede, di pensiero e di azione - racconta ancora -. Essendo un giornalista mi ha proposto di coordinare all'inizio a distanza il periodico della Missione 'La speranza'. In Missione ho conosciuto Barbara con cui è nata a poco a poco un'intesa di progetto di vita molto forte che oggi ci impegna insieme - tanto che le ho chiesto di sposarmi e di vivere insieme nella comunità di Pedara (Ct) con oltre 100 persone". "Poi, un anno fa, quando Biagio ha protestato digiunando e dormendo sotto i portici della Posta centrale di Palermo, ho deciso di stargli a fianco dormendo anch'io in strada per 10 giorni con lui. Dopo questa esperienza straordinaria confrontandomi con Barbara è nato il desidero di fare insieme il grande salto di andare a vivere in Missione. Oggi siamo riusciti ad avere una stanza presso la Casa del Vangelo a Chiavelli fondata padre Palcido Rivilli molto vicino al beato Pino Puglisi".

Barbara Occhipinti, 48 anni, originaria di Ragusa, ha vissuto, invece, per molti anni da sola a Palermo dove ha studiato architettura e lavorato come arredatrice. "Nella mia vita ho sempre sentito il bisogno forte di mettermi a servizio di chi era più fragile - racconta -. Dopo la morte prematura del mio caro amico Toti che è andato via senza avere vicino i suoi amici più cari, ho riflettuto molto sul senso pieno e più profondo che dovevamo dare alla nostra vita che non poteva essere soddisfatta soltanto dal lavoro e dai piaceri personali". Anche a lei la conoscenza del missionario Biagio Conte ha cambiato completamente la vita. "Dopo avere conosciuto Biagio, a poco a poco è cresciuto sempre di più il desiderio di spendermi come volontaria per i tanti bisogni della Missione. Per lungo tempo ho partecipato all'unità di strada notturna per l'assistenza di chi vive in strada, toccando con mano la fragilità e povertà più disperata".

"La conoscenza poi di Riccardo mi ha fatto capire che proprio la Missione sarebbe stata l'anello di congiunzione della nostra vita insieme. Così con fede e con coraggio, dopo avere perso il lavoro, non ne ho cercato un altro ma mi sono lanciata nella scelta di camminare insieme a Riccardo dedicandomi alla casa dei più fragili dove già viveva. In questo nostra scelta di vivere insieme a Pedara Biagio ci ha benedetto e sempre sostenuto. Ci siamo sposati il 12 febbraio di tre anni fa per il compleanno proprio del mio amico Toti. Quasi un anno fa, poi, dopo l'ultima protesta in strada di fratello Biagio, che abbiamo sostenuto in vario modo con tutte le nostre forze umane e spirituali, abbiamo deciso di trasferirci a Palermo per vivere a servizio dei poveri della Missione". (set)


20 febbraio 2019

FONTE: La difesa del popolo

martedì 12 marzo 2019

Aiutiamo Serena, l'appello di suo papà Abramo: “Ho bisogno di lavorare per curare mia figlia”


Caivano – Ancora senza un lavoro, Abramo Zampella, cittadino caivanese che dopo diversi appelli e manifestazioni ha più volte spiegato il suo problema, non ultima la sua intervista la settimana scorsa a Tv Luna scrive una lettera ai giornali locali. Nè il sindaco Monopoli, nè l’assistenza sociale si sono interessati al suo caso, e il tempo passa…

Gentile direttore,

le scrivo sperando che questa lettera, pubblicata, smuova le acque. Ci sto provando da tre anni e nessuno mi ascolta. Ma io sto ancora qui!

Spero che accettiate di pubblicare la mia storia: una vera e propria richiesta di aiuto in modo da far conoscere ancora di più e ad un numero maggiore di persone la nostra vicenda, nella speranza che qualcosa migliori.

Di "speranza", specialmente dopo determinati episodi che si sentono e si vedono sempre più frequentemente, dopo che le persone grazie a questo Stato che non ci aiuta preferiscono togliersi la vita, ne abbiamo tanto bisogno, in questi tempi che appaiono oscuri, in cui a volte ci sentiamo smarriti davanti al male e alla violenza che ci circondano, in questi tempi dove davanti al dolore, alla sofferenza, ci sentiamo persi e anche un po’ scoraggiati, perché ci troviamo impotenti e ci sembra che… questo buio non debba mai finire.

E non si tratta solo delle discriminazioni in cui ci troviamo a vivere ogni giorno noi famiglie "disabili": molte di queste le risolviamo con il nostro ingegno. Ma purtroppo non tutti gli ostacoli possono essere superati con la buona volontà ed è per questo che chiedo il vostro interessamento.

Anzitutto ringrazio Dio per tutto quello che ho: Serena è la cosa più bella che mi ha donato.

A volte può succedere che la malattia, soprattutto quella grave, quella che non ha soluzioni, metta in crisi e porti con se interrogativi che scavano in profondità. Il primo istinto può essere quello della ribellione, perché a me è capitato! Ma bisogna avere fede mi dico, andando avanti.

Serena ha una malattia che la mortifica, la limita nei movimenti: ha la Distrofia Muscolare tipo Becker (DMB). (Attualmente non esiste alcuna possibilità di cura che conduca alla guarigione ma solo terapie che permettono di prevenire le contratture, di migliorare la postura e di contenere asimmetrie, lordosi e scoliosi, ndr).

E’ una malattia che ho definito scostumata, senza educazione, che non ti avverte quando viene a trovarti, ma che fino ad oggi fa la visita di cortesia e se ne va dandoti appuntamento alla prossima volta. Ma dobbiamo conviverci per forza, non abbiamo alternative. Anzi più lei è aggressiva e cattiva più noi la combattiamo con forza. Perché la malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di capire che la persona vale molto di più del fare. Insomma la sofferenza ci ha reso più forti, il non volersi arrendere è diventato un valore aggiunto nel nostro percorso di vita. Questo fino al dicembre 2013, quando sono incominciati i nostri problemi: fino a quel momento non ci potevamo rimproverare di niente e neanche la malattia ci faceva paura.

Ma dall’oggi al domani mi sono trovato senza lavoro e a capire piano piano che a 43 anni il mondo può anche finire e che per me sta diventando un problema anche portarla all’ Antares a Caserta per fare le terapie.

Ho cercato di parlare col sindaco di Caivano e anche di Napoli, ho lanciato una petizione a mio nome su change.org, ho inviato curriculum, richieste di aiuto a tutti gli imprenditori caivanesi, televisione: ma ad oggi nessun risultato. Ho parlato con l’assistente sociale del mio Comune, con la responsabile dei lavori socialmente utili, agenzie di lavoro interinali ma ho ricevuto solo non risposte che sono sinonimo di una indifferenza che fa paura. “Vi faremo sapere, non vi preoccupate, al più presto vedremo, i tempi sono maturi, mi invii il suo curriculum”.

E allora mi sono domandato cosa posso fare per cercare di scuotere la coscienza di qualche brava persona che in qualche modo comprenda il problema e mi dia la possibilità di tornare a fare quello che ho sempre fatto? Tornare a lavorare e a pensare a fare, ogni giorno, qualche cosa in più per Serena. Per arrivare a non dovermi rimproverare un giorno che lo potevo fare e che per mentalità non l’ho fatto.

Cerco insomma qualche anima buona che ci aiuti a non arrenderci
”.

Abramo Zampella

Via Turati, 30 Caivano (Na)
tel. 333.8007822 , 3343839902


di Pasquale Gallo

6 febbraio 2017

FONTE: Il Giornale di Caivano


Pubblico sulle pagine di questo blog l'accorato appello di papà Abramo che cerca urgentemente un lavoro per poter assicurare tutte le cure e l'assistenza necessaria alla sua amata figlia Serena, colpita da una malattia rara. Chiunque potesse aiutare papà Abramo e trovargli un lavoro, lo faccia senza indugio, perchè la sua situazione lo richiede veramente!
Grazie di cuore a tutti!

Marco

venerdì 1 marzo 2019

“Non morirò con i soldi in banca”. L’imprenditore Vinicio Bulla paga le scuole ai figli dei suoi dipendenti


Vinicio Bulla, l’imprenditore cattolico che paga le scuole ai figli dei propri dipendenti: dal Veneto, l’incredibile storia della Rivit di Asiago “non morirò con i soldi in banca”

In un giornale come spesso accade anche nella vita di tutti i giorni, a far molto rumore sono le storie truci, le azioni ignobili e i gravi soprusi: ora non siamo certo qui a fare la retorica “moralista” delle “buone notizie” eppure ogni tanto parlare di un imprenditore che pensa al bene dei propri lavoratori (e al loro futuro) fa semplicemente bene alla nostra umanità, altro che “moralismo”. Si chiama Vinicio Bulla, è un imprenditore veneto che crede non solo nel sacro valore del lavoro ma anche nella sacralità della vita umana e nella famiglia: e per questo ha deciso di pagare le scuole ai figli dei propri dipendenti, affermando anche provocatoriamente «non morirò certo con i soldi in banca».
Sembra una fake news e invece è tutto vero, si tratta del patron della Rivit di Asiago: producono ed esportano in tutto il mondo dei tubi di acciaio inox e leghe speciali destinate alle aziende di estrazione petrolio e gas. «Non voglio morire con i soldi in banca, voglio aiutare il territorio», spiega il Bulla, imprenditore di Caltrano, vicinissimo all’Altopiano di Asiago. Occupa 150 dipendenti nello stabilimento ed esporta in tutto il mondo: la cosa di cui va maggiormente fiero è di non aver mai portato i suoi operai alla cassa integrazione, anche se da qualche mese ha deciso di fare un surplus del tutto non richiesto alla propria azienda. Nello scorso ottobre ha sottoscritto un “contratto di welfare” che prevede per i figli dei lavoratori «il rimborso delle quote di iscrizione, rette, servizi mensa e scolastici per la frequenza di asili nido e materne, fino ad un massimale fissato in 6.600 euro annui per figlio in caso di asilo nido e in tremila per la scuola materna», riporta l’Avvenire dopo il servizio andato in onda sul Tg1 negli scorsi giorni.

UN IMPRENDITORE CATTOLICO CHE “DONA” GRATUITÀ

Nel caso poi di nuove nascite o di adozioni di figli oltre il primo, i dipendenti della Rivit hanno diritto secondo quanto stabilito dal signor Vinicio ad una cifra una tantum di 2mila euro per il secondo figlio, o di 3mila per il terzo figlio e così via che si aggiungono ai 550 euro al mese per il nido e ai 250 euro per la materna. Altro che reddito di cittadinanza, per il patron della Rivit il miglior modo per “far crescere l’economia” è scommettere sul futuro e la famiglia dei propri operai, continuando a dar loro un lavoro e non risparmiandosi mai nel sostenere che un bene reale è presente sempre, anche se si parla di tubi e acciai inox.
«La vita, anzi la nuova vita è o no un valore non negoziabile? Io, da imprenditore cattolico, che crede ancora nei valori che non sono trattabili, mi sono posto ripetutamente il problema e ho deciso di destinare i miei risparmi alla promozione della natalità, anziché a qualche banca, col rischio magari di perdere tutto», spiega il 79enne ai colleghi di Avvenire dopo aver firmato il progetto di welfare per i prossimi 7 anni, con rimborsi annui di 200mila euro. Attenzione però, non siamo mica di fronte ad un “benefattore” che in maniera un po’ casuale vuole lavarsi la coscienza con un bene “una tantum”: il Bulla il suo progetto l’ha studiato per bene in modo che fosse adattabile e sostenibile per tutti, la sua famiglia compresa. «L’accordo rientra nello spirito sperimentale ed innovativo», conferma la Spa in cui partecipano i tre figli eredi della Rivit. Così tanto studiato che, seppur perfezionabile nei prossimi anni, Vinicio Bulla si è affidato alla Confindustria Vicenza per poter portare l’esempio anche in altre industrie: «questi sono i Veneti! Vinicio Bulla, fondatore della Rivit di Caltrano (VI), azienda diventata un colosso mondiale, ha “congelato” i suoi risparmi in banca per pagare le scuole ai figli dei dipendenti, invece di concedersi vacanze e benefit», spiega soddisfatto e stupefatto il Governatore del Veneto, Luca Zaia.

di Niccolò Magnani

6 febbraio 2019

FONTE: Il Sussidiario.net


Bella storia, che ci insegna che si può essere imprenditori di successo anche nel più vero e genuino spirito Cattolico, investendo sulle persone e sul loro futuro. Un bellissimo insegnamento e un esempio per ogni imprenditore che volesse seguire la stessa strada.
Grazie Vinicio

Marco