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mercoledì 14 aprile 2021

Antonello e i suoi 11 figli riempiono il carrello delle famiglie brianzole in difficoltà

Antonello Crucitti, super papà bresciano, ha fondato l'associazione "Fede, speranza e carità" che aiuta le persone in difficoltà. Non solo cibo, ma anche parole di incoraggiamento

In famiglia sono in 13, mamma e papà compresi. Ma nel carrello della spesa c’è sempre posto anche per il rifornimento alimentare di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Richieste di aiuto che arrivano da perfetti sconosciuti che la famiglia Crucitti aiuta. Così come è successo per quelle trentasei famiglie monzesi che nella settimana di Pasqua hanno ricevuto un graditissimo dono da papà Antonello e dalla sua grande famiglia.

Le parole d'ordine: organizzazione e solidarietà

Una storia controcorrente quella della famiglia Crucitti di Brescia: papà Antonello lavora in ospedale e con la moglie Angela che lavora come segretaria a scuola, ha 11 figli di età compresa tra i 24 e i 5 anni. Difficile gestire la quotidianità: da quando ci si sveglia a quando si va a letto tutto deve essere organizzato nei minimi particolari per evitare il caos. Scuola, lavoro, didattica a distanza, sport, catechismo, oratorio e poi le attenzioni particolari per l’ultimogenito nato con una malattia rara. Eppure in questa delicatissima catena di montaggio dove non è permesso il minimo inceppo, c’è tanto spazio anche per la solidarietà. Antonello ha dato vita all’associazione "Fede, speranza e carità" che opera a livello nazionale in aiuto delle persone in difficoltà, ispirandosi ai valori della fratellanza universale. Un modello di vita attento all’aiuto al prossimo – non solo materiale ma anche morale – che Antonello ha trasmesso ai suoi figli che oggi lo aiutano nell’associazione. E sono tantissime, soprattutto in questo anno di emergenza sanitaria, le famiglie che in tutta la Lombardia hanno ritrovato il sorriso grazie alla famiglia Crucitti.

Grandi pacchi alimentari per le famiglie bisognose di Monza

Nei giorni scorsi è stata la volta di 36 famiglie di Monza. La segnalazione è arrivata direttamente dalla dirigente Anna Cavenaghi dell’Istituto comprensivo di via Correggio che ha indicato a Davide Pacetta, volontario monzese dell’associazione e papà di 5 bambini che frequentano le scuole di Cederna, la necessità di aiutare alcune famiglie degli alunni del comprensivo. “Per noi è stata una grandissima gioia – spiega Antonello Crucitti a MonzaToday -. Abbiamo immediatamente riempito gli scatoloni con pasta, riso, passata di pomodoro, legumi, zucchero, olio, formaggio, latte, biscotti e brioche. Tutti prodotti di primissima qualità”. Insomma, un vero e proprio carrello della spesa dalla colazione alla cena per famiglie che, certamente meno numerose di quelle di Antonello, stanno attraversando un momento di difficoltà. A distribuire i grandi pacchi Davide, Daniele Crucitti e la sorella Annamaria. La giovane è anche vicepresidente dell’associazione "Fede, speranza e carità" e con un video ha ringraziato la preside monzese per la disponibilità e per aver permesso loro di regalare una Pasqua più serena a centinaia di monzesi. Negli ultimi tempi stiamo incrementando gli aiuti su Monza – prosegue Antonello -. Sono tante le famiglie in difficoltà”. Ma la vera sorpresa l’hanno ricevuta Davide e Annamaria quando hanno incrociato gli occhi commossi e sbalorditi delle famiglie. “Mamma e papà venivano con il sacchettino della spesa – prosegue Antonello -. Quando noi gli abbiamo consegnato uno scatolone stracolmo e pesante sono rimasti senza parole. Qualcuno non riusciva neppure a sorreggerlo. Ma vi assicuro che si riceve molto più nel dare che nell’avere”.

Un sostegno morale a chi si sente smarrito

L’aiuto per Antonello è fondamentale anche nella presenza. Una presenza che, oggi, purtroppo si deve limitare a una telefonata, per i più tecnologici a una videochiamata, ma che appena sarà possibile anche a un incontro. Antonello, fortificato dalla profonda fede che ha trasmesso ai suoi figli, non si è mai fermato di fronte alla fatica.Ricordo ancora di quella volta che telefonai a un uomo che vive in Brianza e che si era rivolto a noi per chiedere aiuto – aggiunge -. Non si sa perché ma quella sera decisi di chiamarlo per sentire come stava. Era a pezzi e pronto a farla finita. Ho preso di corsa la macchina e mi sono fiondato a casa sua evitando il peggio e dandogli quella forza che gli ha permesso di rimettersi in carreggiata”.

L'associazione per continuare a riempire la dispensa delle famiglie in difficoltà ha bisogno dell'aiuto di tutti.
Anche pochi euro sono fondamentali e preziosi, ricorda Antonello. Tutti i dettagli sull'associaizone e le modalità per sostenere l'operato di Antonello sul sito www.fedesperanzacarita.com o all'email info@fedesperanzacarita.com


di Barbara Apicella

7 aprile 2021

FONTE: Monza Today

lunedì 17 febbraio 2020

Nasce la bambina e la mamma muore, l’infermiera appoggia la neonata sul cuore della mamma che ricomincia a battere


Una donna di soli 23 anni, Shelly Cawley aveva appena dato alla luce la sua bambina con un cesareo d’urgenza quando, per un coagulo di sangue che ha bloccato le arterie, la donna è entrata in coma.

Il marito e neo papà era disperato e racconta così i momenti in cui i medici gli dicevano che per la donna non c’era più nulla da fare: “Sei così felice quando nasce tuo figlio, e il momento dopo pensi che dovrai dire addio per sempre a tua moglie. Era come se fossi anestetizzato”.

Ma un’infermiera, Ashley Manus, ha avuto un’idea dopo aver pensato e ha raccontato così: “Sappiamo che per un neonato il contatto con la pelle della madre può essere molto utile, e allora perché non poteva funzionare anche il contrario?

Allora è stata presa la bambina e messa sul petto della mamma e lì lasciata per dieci minuti e, dopo ancora un po’, la donna ha lanciato un urlo e il marito racconta così: “Abbiamo visto il monitor cardiaco mostrare un segno di vita. Era inspiegabile, ma Shelly era tornata. Mia moglie era tornata da noi

La donna dopo qualche giorno si è ripresa completamente e ha raccontato così: “Ho guardato il viso di Rylan e ho visto la bambina più bella del mondo… So che tutte le madri lo dicono, ma noi due dopo tutto quello che è successo abbiamo un rapporto speciale”.

Sono passati due anni da quel giorno e ora mamma e bimba stanno benissimo e Shelly ha detto:Quando crescerà le dirò che mi ha salvato la vita.

De.15:9-10 Guàrdati dall’accogliere nel tuo cuore un cattivo pensiero che ti faccia dire: «Il settimo anno, l’anno di remissione, è vicino!», e ti spinga ad essere spietato verso il tuo fratello bisognoso, così che non gli darai nulla; poiché egli griderebbe al SIGNORE contro di te, e un peccato sarebbe su di te.

Dagli generosamente; e quando gli darai, non te ne dolga il cuore; perché, a motivo di questo, il SIGNORE, il tuo Dio, ti benedirà in ogni opera tua e in ogni cosa a cui porrai mano.



22 gennaio 2020

FONTE: Notiziecristiane

lunedì 23 dicembre 2019

Paola Senatore, una vita tormentata: dai film erotici al carcere fino alla conversione


Attrice popolarissima per tutti gli anni’70, musa di una generazione di italiani, finì in carcere nel 1985 per droga: da lì un lungo percorso di rinascita attraverso la Fede

Di film ambientati in un carcere femminile ne girò parecchi. Ma un giorno in cella ci si trovò per davvero. Era il 13 settembre 1985: una data spartiacque nella vita dell’ex attrice Paola Senatore, uno dei sogni erotici ventennali per migliaia di italiani (musa di Brass, D’Amato, Lenzi e fra le regine indiscusse della commedia di genere). Ma chi pensa che da lì sia iniziato il baratro, forse si sbaglia. È la stessa Paola a tirale le somme di un’esistenza piena che oggi, da quello sfregio d’immagine in pieni anni Ottanta, può definire “una vera vita”. Che piano piano, e soprattutto nel silenzio, in questi anni ha rimontato con Fede, ordine e riavvicinamento ai propri affetti.

Come si definisce, oggi, Paola Senatore?

«Felice, serena, gioiosa ma con la testa sul collo».

Che infanzia ha avuto?

«Difficile. Mia madre mi raccontava continuamente della sua vita e della sua influente famiglia. Ero una bambina ansiosa con tutti quei racconti che ascoltavo, anche se piccola! Lei doveva sposare un barone molto più grande di lei come deciso dalla famiglia. Erano tempi difficili. Anni difficili. La guerra finì nel 45: lei proprio sotto i bombardamenti conobbe un ragazzo e si innamorarono, fu un colpo di fulmine: la mia vita iniziò lì, concepita sotto quelle bombe. Ma in quel momento iniziarono anche le complicazioni: mia madre si era ribellata ai piani matrimoniali che i nonni avevano per lei. Si rifiutò di entrare in convento e di darmi in affido, come si conveniva».

Come andò a finire?

«Fu mandata da lontani parenti romani che in effetti si presero cura di lei. Ma volle staccarsi ad un certo punto. E per essere più libera mi mise in un collegio. Il distacco fu atroce».

Che ricordi ha di quegli anni?

«Parliamo di un collegio della Roma bene. Eppure i miei ricordi sono ombrosi: mi raccontavano di strani riti, di storie misteriose che accadevano lì dentro, mi sentivo impaurita. Stiamo comunque parlando di esperienze e suggestioni vissute con gli occhi dell’infanzia. Ricordo un bimbo di cinque anni, ma che si dimostrava già un ometto, che un giorno arrivò a dirmi: “Ti proteggerò io”. Stavamo sempre insieme, mi dava forza. Finalmente a sei anni uscii: ero felicissima, era la Pasqua del 1952. Conobbi finalmente zie e nonni e la mia vita prese una piega diversa, morbida e dolce».

Cosa sognava di fare da grande? È riuscita a realizzarsi, secondo lei?

«Si, ci sono riuscita. Io sognavo soprattutto di viaggiare ed ho realizzato il mio sogno. Il viaggio era dentro di me, mi apparteneva. Sarei diventata pilota se il brevetto fosse costato di meno. Volevo scalare monti, attraversare deserti, scandagliare mari, attraversare cieli, di tutto e di più. Ci riuscii. Volevo incontrare il sole questo desiderio mi spaccava in due. Mi mancava molto mio padre: mia madre mi diceva che era morto, ma sapevo che non era vero. Lo capivo dal tono che usava. I vicini di casa dicevano che somigliavo a lui ogni giorno di più: lì mi si bloccava il respiro dall’emozione. Purtroppo non riuscivo mai a chiedere nulla, ma sapere che gli somigliavo per me era qualcosa di stra-mega galattico. Ricominciavo a respirare dopo un quarto d’ora quando ci pensavo. Lo cercavo ovunque. Ecco, per questo amavo il viaggio».

Il suo primo provino?

«Lo ricordo benissimo, dovevo interpretare un film a Parigi, “L’amore quotidiano”, del 1973. Mi fecero fare delle foto da un bravo fotografo: piacquero tantissimo, e così andai in Francia, a Parigi. Avevo 21 anni, fu un’esperienza fantastica. Ricordo che rimasi davanti al quadro di Adamo ed Eva non so quanto. Tanto. Mi colpì, mi avvolse, e quel giorno finii lì il mio peregrinare nei musei. Stordita dalle bellezze che vedevo».

C’è un aneddoto divertente che si ricorda durante gli anni del cinema?

«Ce ne sono tanti, soprattutto legato ai cavalli. Allora: li amavo tanto da adolescente, una mia cugina mi insegnò a cavalcare a 16 anni. Ero affascinata dal galoppo, come dalle corse in auto, faceva parte sempre della mia “inclinazione al viaggio”. A 18 anni andai a Indianapolis, in Florida, per vedere la Formula Uno con degli amici. Fantastico. Ho ancora nelle orecchie il grido dei motori».

Nel 1975 fu diretta da Tinto Brass: lo ha più sentito?

«No. Lavorai un po’ con Tinto, con “Salon Kitty” e “Action”. Poi smisi perché il mio compagno era molto geloso. Ricordo che non sapevo l’inglese, doveva doppiarmi sempre. Mi dispiace che Tinto ora non stia molto bene, non ero aggiornata su questo. Un messaggio per lui? Caro Tinto, posso dirti che pregherò per te per una pronta guarigione e una ripresa. Tu e la tua famiglia siete stati tutti affettuosi con me. Grazie ancora per quello che hai fatto per me, ti voglio bene».

Con che colleghi strinse amicizia in quegli anni?

«Helmut Berger: bellissimo ragazzo, con una grande sensibilità, tenerezza, un bel cuore. Capiva il mio imbarazzo in certe scene. Si era creato un bel rapporto sul set. E anch’io capivo lui, sentivo dei vuoti e alcune sofferenze che mi trasmetteva. Anche se tutti si fermavano sulla nostra bellezza esteriore».

Ha mai subito molestie sul set?

«No, mai subito molestie o subito maltrattamenti. Ero chiara e trasparente. Il marito me lo sceglievo io. Non amavo richieste di matrimonio né tantomeno altri escamotage per arrivare a me. Dicevo: “tu mi paghi, e io ti dò la mia immagine e il mio lavoro, ok. Poi se mi innamoro ti telefono io”. A quel punto qualcuno si infuriava. E il ricatto era sempre lo stesso: ti taglio il ruolo. A me non importava nulla, se accadeva. E poi a volte facevo finta di non capire: mi riusciva bene la parte della ritardata».

Arriviamo al giorno dell’arresto: 13 settembre 1985

«Ricordo dolente. Ero appena tornata da Riccione, mio figlio aveva 11 mesi. Avevamo trascorso una vacanza serena. Ero finalmente una mamma felice. Alle 21 qualcuno suonò il campanello di casa con tale veemenza che non ci volle molto per capire chi fosse. Il mio compagno era uscito verso le 16 e non vedendolo arrivare pensai a un incidente automobilistico. Invece fu trovato qualcosa in auto: pochi grammi di stupefacenti. L’auto era intestata a me e vennero a cercare me. Mi portarono in caserma: per interrogarmi, dicevano. Invece mi ingannarono e iniziarono già tutte le pratiche per l’arresto. Fortuna che prima di andare con loro passai da mia madre e le lasciai in custodia mio figlio: di questo la ringrazierò per sempre».

La sua carriera, poi, subì un tracollo: di lei non si seppe più nulla. L’impressione è che sparì di proposito, anche dopo essere rilasciata e dopo aver scontato i domiciliari. È così?

«Il mio lavoro e il successo diventarono l’ultimo pensiero per me. Mio figlio era al primo posto, solo lui, era molto più importante di ogni cosa per me. Anche se sulla sottoscritta leggevo e sentivo cose pazzesche».

Cosa la ferì, di più, di quello che si diceva di lei in quel periodo?

«Che ero una spacciatrice internazionale, che facevo servizi osè per pagarmi la droga: per due, tre grammi di stupefacente trovati in auto, messi non so da chi ancora. Comunque, decisi di troncare io la carriera. anche se mi offrirono cifre da capogiro, negli anni successivi alla mia disavventura. Dissi sempre no. Sempre e solo no».

Finì anche in cella di isolamento, giusto?

«Sì. Quando mi arrestarono soffrii molto. Pensavo a mio figlio e all’assurdità della situazione che stavo vivendo. Era tutto così insensato. Non sapevo come fosse un carcere, né come funzionava, come comunicare, come chiamare il personale in caso di bisogno, se poteva venire mia madre a trovarmi, se potevo vedere la famiglia. Avevo un groviglio nella testa, un cuore lacerato. Non potevo continuare senza sapere niente. Appena arrivata mi affacciai dallo spioncino blindato per chiedere se ci fosse qualcuno. Silenzio. Non sapevo cosa pensare, cosa fare. Ebbi subito una crisi di nervi. Cominciai ad urlare a piangere, ma non vidi comunque nessuno. Passai attimi che non auguro a nessuno».

Poi cosa successe?

«Dopo aver pianto, mi girai. Vidi un volto amico nella cella. Subito pensai: “Sarà entrato mentre urlavo”. Lui mi guardava e non parlava, pensai che gli facevo pena. Non mi ricordavo dove l’avevo conosciuto. Aveva capelli lunghi, barba, baffi, una tunica bianca con un mantello rosso. Allora per non fare una brutta figura cominciai a riflettere su dove l’avessi mai visto. Pensai “è venuto dall’India” basandomi sul suo l’abbigliamento. O forse dall’Inghilterra. Non riuscii a ricordarlo. Ad un certo punto sentii una voce potente che diceva questo: “Non tutto il male viene per nuocere. Di lì a poco sentii tremare tutto, poi un gran senso di pace».

Un “tipo” che poi ha rivisto spesso

«Una settimana dopo l’interrogatorio col giudice, lasciai la cella d’isolamento per andare al terzo piano con tutte le altre detenute. Appesa sul muro scorsi l’immagine di quel tipo che era venuto a trovarmi. Allora chiesi chi fosse. “E’ Gesù”, mi fu risposto in coro. Scusate, dissi io, ma “Gesù non era un bimbo piccolo in braccio alla Madonna?”. “Sì, certo ma poi è cresciuto” mi risposero le detenute, mettendosi tutte e ridere. Lì mi prese uno sgomento. Volli andare dalla psichiatra per chiederle se fossi impazzita, magari con il trauma dell’arresto. Parlammo tre ore, mi fece sentire normale. E mi diede delle pillole».

Fu quello l’inizio della sua conversione?

«Ripensando intensamente all’incontro fatto in cella d’isolamento, capii che quel tipo era davvero Gesù. E a volte quella che può sembrare una disgrazia è una salvezza. Da quel giorno mi trovai sempre al posto giusto, con la persona giusta. E alla fine pensai che l’arresto era stata, la fortuna più grande che mi era mai capitata perché da lì iniziò la mia vita. Quella vita finalmente dal senso profondo. Lasciai definitivamente lo spettacolo e iniziai il mio cammino spirituale. Dissi addio a tutto: ricchezze, gioielli, firme, feste, festini, saloni di bellezza, vita sregolata, follie, false luci, discoteche, palestre e un miliardo di altre cose per incontrare spiritualmente colui che mi aveva consolato quando ne ebbi bisogno. Oggi sono 35 anni che lo seguo. Insomma, sì, la mia Fede è iniziata in un carcere femminile e in un momento inaspettato e atroce della mia vita. Dal 1985 sono cattolica praticante».

Che progetti ha, oggi, Paola Senatore?

«Vorrei tradurre la mia esperienza in qualcosa da far vedere agli altri. Vorrei dargli voce attraverso un film, curandone la regia. Una storia di vita dentro un piano celeste. Le testimonianze arricchiscono ogni persona e quando c’è una vera conversione vuoi solo raccontarla a tutti perché vuoi che tutti siano felici. Vorrei che altri si confrontassero con quello che ho vissuto io. E sa perché? Perché il mio vissuto, la mia conversione, possono essere di tutti».



di Silvia Maria Dubois

5 novembre 2019

FONTE: Corriere della Sera


E' sempre bello raccontare storie di Conversione, e questa mi è capitata sotto lo sguardo quasi per caso.
E' bello constatare come Gesù possa divenire il "centro" della nostra vita da un momento all'altro, anche se fino ad allora si era vissuta una vita lontano da Lui. E' quello che è successo a Paola Senatore, ed è quello che succede a una moltitudine di persone in ogni momento ed in ogni parte del mondo. Perchè, come la stessa Paola dice: "La conversione, può essere di tutti".
E con questa bella storia di Conversione, auguro a tutti un sereno e felice S. Natale con Gesù Cristo al centro del proprio cuore.

Marco

venerdì 1 marzo 2019

“Non morirò con i soldi in banca”. L’imprenditore Vinicio Bulla paga le scuole ai figli dei suoi dipendenti


Vinicio Bulla, l’imprenditore cattolico che paga le scuole ai figli dei propri dipendenti: dal Veneto, l’incredibile storia della Rivit di Asiago “non morirò con i soldi in banca”

In un giornale come spesso accade anche nella vita di tutti i giorni, a far molto rumore sono le storie truci, le azioni ignobili e i gravi soprusi: ora non siamo certo qui a fare la retorica “moralista” delle “buone notizie” eppure ogni tanto parlare di un imprenditore che pensa al bene dei propri lavoratori (e al loro futuro) fa semplicemente bene alla nostra umanità, altro che “moralismo”. Si chiama Vinicio Bulla, è un imprenditore veneto che crede non solo nel sacro valore del lavoro ma anche nella sacralità della vita umana e nella famiglia: e per questo ha deciso di pagare le scuole ai figli dei propri dipendenti, affermando anche provocatoriamente «non morirò certo con i soldi in banca».
Sembra una fake news e invece è tutto vero, si tratta del patron della Rivit di Asiago: producono ed esportano in tutto il mondo dei tubi di acciaio inox e leghe speciali destinate alle aziende di estrazione petrolio e gas. «Non voglio morire con i soldi in banca, voglio aiutare il territorio», spiega il Bulla, imprenditore di Caltrano, vicinissimo all’Altopiano di Asiago. Occupa 150 dipendenti nello stabilimento ed esporta in tutto il mondo: la cosa di cui va maggiormente fiero è di non aver mai portato i suoi operai alla cassa integrazione, anche se da qualche mese ha deciso di fare un surplus del tutto non richiesto alla propria azienda. Nello scorso ottobre ha sottoscritto un “contratto di welfare” che prevede per i figli dei lavoratori «il rimborso delle quote di iscrizione, rette, servizi mensa e scolastici per la frequenza di asili nido e materne, fino ad un massimale fissato in 6.600 euro annui per figlio in caso di asilo nido e in tremila per la scuola materna», riporta l’Avvenire dopo il servizio andato in onda sul Tg1 negli scorsi giorni.

UN IMPRENDITORE CATTOLICO CHE “DONA” GRATUITÀ

Nel caso poi di nuove nascite o di adozioni di figli oltre il primo, i dipendenti della Rivit hanno diritto secondo quanto stabilito dal signor Vinicio ad una cifra una tantum di 2mila euro per il secondo figlio, o di 3mila per il terzo figlio e così via che si aggiungono ai 550 euro al mese per il nido e ai 250 euro per la materna. Altro che reddito di cittadinanza, per il patron della Rivit il miglior modo per “far crescere l’economia” è scommettere sul futuro e la famiglia dei propri operai, continuando a dar loro un lavoro e non risparmiandosi mai nel sostenere che un bene reale è presente sempre, anche se si parla di tubi e acciai inox.
«La vita, anzi la nuova vita è o no un valore non negoziabile? Io, da imprenditore cattolico, che crede ancora nei valori che non sono trattabili, mi sono posto ripetutamente il problema e ho deciso di destinare i miei risparmi alla promozione della natalità, anziché a qualche banca, col rischio magari di perdere tutto», spiega il 79enne ai colleghi di Avvenire dopo aver firmato il progetto di welfare per i prossimi 7 anni, con rimborsi annui di 200mila euro. Attenzione però, non siamo mica di fronte ad un “benefattore” che in maniera un po’ casuale vuole lavarsi la coscienza con un bene “una tantum”: il Bulla il suo progetto l’ha studiato per bene in modo che fosse adattabile e sostenibile per tutti, la sua famiglia compresa. «L’accordo rientra nello spirito sperimentale ed innovativo», conferma la Spa in cui partecipano i tre figli eredi della Rivit. Così tanto studiato che, seppur perfezionabile nei prossimi anni, Vinicio Bulla si è affidato alla Confindustria Vicenza per poter portare l’esempio anche in altre industrie: «questi sono i Veneti! Vinicio Bulla, fondatore della Rivit di Caltrano (VI), azienda diventata un colosso mondiale, ha “congelato” i suoi risparmi in banca per pagare le scuole ai figli dei dipendenti, invece di concedersi vacanze e benefit», spiega soddisfatto e stupefatto il Governatore del Veneto, Luca Zaia.

di Niccolò Magnani

6 febbraio 2019

FONTE: Il Sussidiario.net


Bella storia, che ci insegna che si può essere imprenditori di successo anche nel più vero e genuino spirito Cattolico, investendo sulle persone e sul loro futuro. Un bellissimo insegnamento e un esempio per ogni imprenditore che volesse seguire la stessa strada.
Grazie Vinicio

Marco

giovedì 6 settembre 2018

La storia di suor Jacinta, in Italia per aiutare chi è in difficoltà


Sono venuta in Italia solo per seguire Gesù Cristo. Il buon Dio ha voluto che venissi a Palermo, nel quartiere Brancaccio, per mettermi al servizio del Centro Padre Nostro per aiutare chi è in difficoltà”. A parlare è suor Jacinta delle Maestre Pie Venerini, originaria dell'Uganda ma da tanti anni in Italia. Nella Cittadella del povero e della speranza in via Decollati, a Palermo, ha raccontato perché ha deciso di arrivare in Italia e cosa l'ha spinta a dedicarsi a chi ha bisogno in uno dei quartiere più difficili della città. “Vengo da una famiglia unita, con genitori santi, che mi hanno trasmesso grandi valori - dice -. E’ importante avere una famiglia che ti formi con amore, ci sono tanti figli che hanno avuto solo schiaffi e mai una carezza. Quando avevo 15 anni ho detto a mio padre che volevo diventare suora, che mi ha risposto dicendomi di finire gli studi e se dopo avessi avuto ancora quel desiderio potevo seguirlo”.

Da diplomata in lingua inglese suor Jacinta va a insegnare subito, ma dopo un anno sente forte il desiderio di venire in Italia per diventare suora. “Amo moltissimo i miei genitori e loro amano me, amo l’Uganda e amo insegnare ai miei studenti, ma seguire Dio è un amore ancora più grande - spiega -. Ho detto che sarei partita per l’Italia solo per tre mesi per dare loro una speranza, in realtà sono rimasta 6 anni in Italia per prendere i voti e solo allora sono tornata in Africa”. E’ stata una grande festa quando suor Jacinta è tornata nella sua città Foct-Portal. Quando è rientrata a Roma il suo provinciale le ha chiesto di andare a Palermo e suor Jacinta ha subito accettato. “Ho messo tutto nelle mani del Signore - racconta -, io conoscevo la mafia, la storia di Palermo e per non fare preoccupare la mia famiglia non ho detto che sarei andata a Brancaccio”.


Tante suore mi hanno chiamata preoccupate per il mio trasferimento - dice ancora -. Circa un anno fa, il 17 settembre 2017, ho messo piede a Brancaccio, al servizio del Centro Padre Nostro voluto dal beato Padre Pino Puglisi. All’inizio gli abitanti del quartiere non mi davano confidenza, ora invece sono molto accoglienti, si confidano sui loro figli per avere un consiglio, un sostegno, sanno che possono contare su di me e io su di loro”. Suor Jacinta è sempre sorridente e presta il suo servizio alla casa per anziani del Centro Padre Nostro dove sono accolte 80 persone. Tante le attività insieme: gite, pranzi fuori porta, lavori in ceramica, danza, preghiere ed esperienze di condivisione.

Nel Centro si occupa anche di recupero scolastico per bimbi delle scuole elementari e per ragazzi delle scuole superiori. Li aiuta ad imparare l'inglese. Nella casa museo Padre Pino Puglisi accoglie tanti visitatori a cui racconta la vita del beato ed è anche una volontaria della parrocchia San Gaetano, dove insegna catechismo e canta nel coro. “La sera sono stanca perché ogni giorno mi muovo solo con la macchina di San Francesco (a piedi) - dice -. In Africa siamo liberi di lasciare le porte aperte delle nostre case e possiamo andare a trovare ogni persona senza preavviso. Tra gli africani c’è molta solidarietà, ci sentiamo tutti fratelli e qui in Europa tra di noi ci aiutiamo. Qui in Italia, invece, non potete lasciare la porta aperta e per andare a mangiare a casa di qualcuno avvisate con diverso anticipo, non esiste presentarci all’improvviso come facciamo noi in Africa” conclude.

L'incontro testimonianza è stato il terzo appuntamento nella Missione di Speranza e Carità di Biagio Conte in vista della visita pastorale di Papa Francesco che a metà settembre si recherà alla Cittadella del povero e della speranza per condividere il pranzo con immigrati e carcerati.

29 agosto 2018

FONTE: Adnkronos

giovedì 23 novembre 2017

"Non si smette mai di essere mamma": a 98 anni va in casa di cura per assistere il figlio 80enne


Un rapporto davvero speciale: a Liverpool Ada Keating ha deciso di seguire Tom nell'istituto per anziani. I due trascorrono il tempo giocando e guardando la tv

INSEPARABILI, uniti da quel legame speciale che esiste solo tra madre e figlio. Ada Keating ha 98 anni e ha sempre vissuto con il figlio Tom, che di anni ne ha 80 e che non si è mai sposato.

Nel 2016 Tom è stato ricoverato nella casa di cura di Moss View Care di Liverpool, per motivi di salute. Così, un anno dopo la madre ha deciso di trasferirsi nello stesso istituto per stargli vicino.

I due, racconta Liverpool Echo, trascorrono il tempo giocando o guardando serie tv. "Auguro a Tom buona notte e buongiorno - racconta Ada - e quando vado dal parrucchiere so che lui aspetta il mio ritorno a braccia aperte. Non si smette mai di essere mamma".

"Sono contento di vedere più spesso mia madre - ha detto Tom -. Lei è molto brava a prendersi cura di me e a volte mi dice ancora: 'Comportati bene!'". Un amore immenso, che ha commosso anche il personale della struttura: "Non è così frequente vedere madre e figlio nella casa di cura insieme - ha detto il responsabile Philip Daniels -. Vogliamo che restino insieme il più possibile", si legge sul Liverpool Echo.

Ada e suo marito Harry avevano quattro figli: Tom, Barbara, Margi e Janet morto all'età di 13 anni. Prima di andare in pensione, Tom era un pittore e decoratore, mentre Ada era un'infermiera ausiliaria presso il Mill Road Hospital.

Nella casa di cura, Ada e Tom ricevono spesso la visita della nipote dell'anziana, Debi Higham, e degli altri membri della famiglia. "È rassicurante per noi sapere che si prendono cura di loro a vicenda 24 ore su 24".



di Piera Matteucci

30 ottobre 2017

FONTE: Repubblica.it


Eh, l'immenso Amore delle madri! Vogliamo sempre bene alle nostre care mamme, perchè l'Amore che loro hanno per noi figli è incommensurabile. Vogliamogli sempre bene e dimostriamoglielo ogni volta che possiamo!

Marco

giovedì 2 marzo 2017

A Bari la Solidarietà è virale

Spesa già pagata e dentista a costo zero, abiti da sposa in prestito e pasti gratis. «Vale tutto», spiega l’assessore Bottalico. «Basta che la Carità diventi contagiosa»

Alla Salumeria Fello, due vetrine su Bari Vecchia, mezzo chilo d’orecchiette fanno 3 euro: con 6 ne lascia un altro mezzo chilo per chi è meno fortunato. Ma è ben accetta qualunque cifra, per la quale il titolare Andrea batte uno scontrino che imbuca nel colorato salvadanaio di Social Network, progetto solidale promosso dall’assessorato al Welfare del Comune, in attesa di far su un gruzzolo da “convertire” in beni di prima necessità. Pasta, taralli e olio che sono destinati a famiglie bisognose.
«L’iniziativa è partita solo da un paio di settimane, ma piace già a cittadini ed esercenti», ci spiega l’assessore Francesca Bottalico mentre ci guida per i negozi che hanno aderito alla rete. C’è Peter Pan, il punto vendita di detersivi della “pioniera” Antonella Capriati che ha già fatto la sua prima consegna di bagnoschiuma e detersivi. Poi i panifici, i negozi di giocattoli, quelli di sanitari. Pure La ciclatera sotto il mare, locale della movida arroccata sulla Muraglia con vista mare. E se chi sorseggia uno spritz non fa caso al salvadanaio, ci pensa il titolare Roberto de Benedictis a spiegare che il loro contributo servirà ad aiutare chi un aperitivo non può permetterselo.
«La spesa viene fatta partendo dai bisogni delle persone», precisa la Bottalico, 41 anni, di cui 25 passati a lavorare nel sociale, «perché il metodo è importante e serve a ridare dignità alle persone. Chi è in difficoltà spesso non accede ai servizi sociali perché si vergogna, così invece si fa inclusione sociale». Per questo nella rete è appena entrato anche il parrucchiere Nico Foggetti che nel suo salone donerà due ore alla settimana di tagli e pieghe solidali a chi non può pagarli.

«Aumentano le povertà economiche», prosegue l’assessore, «ma ancora di più quelle in termini di legami sociali, anche perché le separazioni crescono e le reti familiari cominciano a vacillare. Quel che si denuncia sono solitudine e isolamento». Un circolo vizioso di cui spesso sono vittime anche gli utenti dei circuiti solidali più tradizionali. «Non si tratta di riempire la pancia e basta, perché se avessero bisogno solo di mangiare troverebbero un piatto di pasta nel retro di qualunque ristorante della città: noi cerchiamo di dare una famiglia a chi non l’ha», ci dice Decio Minunno, coordinatore delle mense della Caritas diocesana mentre si aprono le porte di quella di Santa Chiara, a pochi passi dalla cattedrale. Entrano giovani extracomunitari, anziani spaesati, gente che ha perso casa e lavoro. Un padre separato appena uscito dall’ufficio che tra alimenti e mutuo non ce la fa, una signora con scarpe e borsa firmate che da dietro gli occhiali da sole avverte: «Niente foto, nessuno sa che vengo qui, è solo un brutto momento, ora passa».

Non c’è solo la rete, precisa don Vito Piccinonna, responsabile della Caritas Diocesana di Bari Bitonto, 126 parrocchie e 700 mila abitanti: «C’è una dimensione educativa della carità, perché aiutare i poveri significa anche cambiare la propria vita, e il contributo delle parrocchie in termini di ascolto e accoglienza è fondamentale». Alle mense diffuse su tutto il territorio vanno aggiunti il dormitorio Don Vito Diana, dietro la stazione, 48 letti occupati ogni notte, l’Opera Padri separati a Modugno, per sei papà in difficoltà. «In questo periodo cerchiamo di dar loro anche un supporto psicologico e favorire il ricongiungimento», precisa don Vito Piccinonna, cui fa capo anche il nuovo centro di orientamento sanitario attiguo alla parrocchia Sacro Cuore. Nato per gli extracomunitari che non hanno ancora documenti regolari, e dunque neppure accesso alla sanità pubblica, è aperto il sabato mattina e il mercoledì pomeriggio. «Qui trovano sempre un medico», ci spiega la dottoressa Stefania Sabatini, «per una prima visita, un farmaco urgente, o per fissare una visita successiva con uno dei 50 specialisti della rete». O per un rinvio a una struttura di pronto soccorso. «Gli italiani? Non avrebbero ragione di venire qui, ma capita: per procurarsi farmaci per i quali comunque dovrebbero pagare un ticket o per quelli da banco, che dovrebbero pagare interamente». La salute è il tallone d’Achille dei più vulnerabili, e anche le istituzioni tengono la guardia alta. «Da alcuni mesi abbiamo fatto partire l’odontoiatria sociale», spiega l’assessore Bottalico. «Controlli gratuiti per tutti i bambini, e un protocollo per cure successive con dieci studi odontoiatrici. Ora stiamo lavorando a un accordo per le cure alle donne in gravidanza e ai bimbi fino a tre anni e abbiamo fatto un bando per un centro polifunzionale per la prima infanzia di contrasto alla povertà di cui ci sarà l’aggiudicazione a breve».

Semi che cominciano a dare i frutti, se è vero che un poliambulatorio low cost, che fa visite specialistiche a prezzo calmierato di 30 euro a visita, ha chiesto di poter entrare nella rete di solidarietà del Comune lanciando le “visite sospese”: una pagata per sé e una per chi ne avrà necessità.
«E’ questo il nostro obiettivo», dice l’assessore, «attivare la società civile in una cultura di solidarietà, che si tratti dell’adottare una famiglia del vicinato cui donare un pacco di viveri regolarmente o di far funzionare “Le spose di pace”, emporio di abiti da cerimonia prestati gratuitamente».

Tutto serve, perfino un gelato “sospeso”, come quello che si può lasciare già pagato da “Che gusto c’è?”, la gelateria in via De Rossi. Alla parete il titolare Francesco Gennaccaro ha attaccato la lista dei coni donati, lunghissima, e un biglietto scritto con la matita rosa: “Grazie, Chiara”.



di Rossana Linguini

14 giugno 2016

Fonte: Gente N. 23


Articolo molto, molto bello che riporto con grande piacere tra le pagine di questo blog.
Penso che quello che sta facendo la città di Bari per venire incontro alle fasce di popolazioni più povere (purtroppo in crescita), con questo magnifico proliferare di attività socialmente utili, dovrebbe essere preso d'esempio da ogni città d'Italia. Alle volte basta molto poco per fare tanto di buono: un cono gelato regalato, un pacco spesa donato, cure e visite mediche gratuite, qualche ora della propria attività messa a disposizione dei meno abbienti.... tutto questo contribuisce a rendere visibilmente migliore la nostra società e a creare un clima di Solidarietà, Inclusione e Amore di cui c'è tanto, ma proprio tanto bisogno!

Marco

giovedì 26 gennaio 2017

La forza rigenerante del perdono


Un matrimonio felice, poi l’abbandono improvviso del marito, l’attesa, il ritorno. Carla ha sperimentato “una resa incondizionata al Mistero che rifà nuove tutte le cose”

Dopo ventiquattro anni di matrimonio apparentemente sereno – racconta Carla Bonifati – l’unione con mio marito è arrivata a un drammatico capolinea. Dire di vederti il mondo crollarti addosso è poca cosa, quando il senso di appartenenza ti ha segnato in modo definitivo e pensi di aver dato tutto perché il tuo nucleo familiare fosse felice e quieto. E lentamente, nel dolore, cominci ad interrogarti: ma sei veramente tu che costruisci, sei veramente tu che custodisci?

Bambino dai capelli rossi

La storia di Carla e suo marito Pio Barletta sembra trovare inizio nel tempo lontano dei primi ricordi d’infanzia. “E’ impressa dentro di me l’immagine di un bambino dai capelli rossi che all’asilo mi aveva protetta da altri bambini. Ricordo che quando, dopo tanti anni, ho rivisto Pio a Castrovillari durante le vacanze estive, il pensiero è tornato a quel bambino buono che mi aveva difesa”. Pio durante l’adolescenza si trasferisce a Milano, ma torna a Castrovillari per le vacanze. E’ in questi mesi spensierati che inizia a conoscere Carla e a condividere con lei incontri e caritative con il gruppo di Comunione e Liberazione.Ci siamo legati sempre di più e quando è stato il momento di scegliere cosa fare all’università abbiamo deciso di andare entrambi a Roma. Volevamo far crescere il nostro rapporto stando finalmente vicini”.

Richiamo della terra

Carla si iscrive a Psicologia, Pio a Scienze politiche. “Lui voleva laurearsi ma allo stesso tempo sentiva che ci stava stretto in un lavoro che ignorasse la sua creatività e manualità. Così se ne è letteralmente inventato uno. Io nel frattempo mi sono laureata. Dopo solo due settimane ci siamo sposati e trasferiti in Calabria da me”. Pio sente forte il richiamo delle sue radici, di quella terra lasciata troppo presto e che non ha vissuto in profondità. “In un certo senso lui ha sconvolto la sua vita trasferendosi da Milano a Castrovillari, ma lo stesso è successo per me che avevo rifiutato una proposta di dottorato per stare con lui. Ero certa che la mia strada fosse un’altra, e insieme a Pio”.

Senza alcun dubbio

Il matrimonio è cercato da Carla e Pio con convinzione: “Non ci interessava cosa pensassero gli altri, noi ne eravamo certi. L’abbiamo voluto fino in fondo questo matrimonio. Non ci importava dell’aspetto economico, non ci importava dei soldi che non c’erano. Abbiamo organizzato tutto con semplicità e ci siamo affidati tanto anche alla fantasia, all’aiuto degli amici. I primi anni di matrimonio sono stati senza figli. E’ stato un grande dolore, un problema mio. Solo dopo otto anni è arrivato finalmente Giulio”.

Una vita in frantumi

Passano gli anni, la vita di Carla e Pio si cristallizza nella routine quotidiana, fatta anche di silenzi, distanze, incomprensioni. “Ho iniziato a dare tutto per scontato, come se tutto fosse ormai così e non potesse più cambiare. Era la nostra vita, cosa poteva succedere? Avevamo una storia di fede condivisa, amici, nostro figlio. E invece…”. E invece per Pio le cose cambiano interiormente, si fanno confuse, contrastanti, poi sempre più chiare. Una sera le dice che lui ha un’altra donna. E’ un mondo che va in frantumi. L’imprevedibile si fa largo in una storia che sembrava già a lieto fine. Carla non sa cosa fare: “Mi ero fatta scudo della dottrina, ma ho finito con il considerare l’altro al pari di un soprammobile, la cui esistenza scontata non mi richiamava più realmente al destino di felicità al quale entrambi eravamo stati chiamati. Era venuto meno il donarci l’un l’altro, ogni giorno.

La libertà è di chi ama

Pio va via di casa, cerca una nuova felicità altrove. Carla lotta con sentimenti che non le appartengono. E’ ferita, arrabbiata, si ammala.In mezzo a tanto male ho cominciato a dirigere il mio sguardo al cuore di Gesù, a chiedergli di perdonare il male, che per il nostro egoismo finiva con il coinvolgere anche nostro figlio, e a confermargli la certezza che avevo che Lui era presente. Non nascondo i sentimenti di rabbia, di frustrazione, di rifiuto attraverso cui sono passata, ma ogni volta una voce più grande mi ripeteva di non avere paura della libertà, anche se questa implicava soffrire, capire, perderlo e lasciarlo andare. Perché al fondo di questa libertà che Pio stava cercando con tutto sé stesso, anche se del tutto mondana, c’era sicuramente Cristo ad attenderlo, fonte della vera vita e della vera gioia”.

Anime gemelle

Non ho mai pensato che quell’uomo non fosse più mio marito, che non fosse degno del mio amore gratuito. Mi tornavano spesso in mente le parole di una lettera di Tolkien al figlio Michael: "Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non siano che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)". La mia anima gemella era davvero quella che avevo sposato e in qualche modo, Lui, ci avrebbe fatto rincontrare con i suoi strumenti”.

La grazia del perdono

Per Carla, dopo la lunga notte, inizia l’alba dell’anima. L’Amore di Dio le avvolge il cuore, si scopre cambiata davanti a Lui.Mi sono ritrovata a pregare per la sua felicità, appassionata al suo destino come il giorno in cui gli avevo detto sì davanti a Dio. E io avrei atteso. Mi dicevo "Tu puoi andare dove vuoi e io non ti trattengo, ma se vuoi tornare io sono qui, perché un Altro mi consente di comprendere veramente cosa sia una casa, un luogo: non una costruzione delle nostre mani, ma l’avvenimento di una Grazia, di una scelta da parte sua, di un privilegio di sguardo". Mai mi sono sentita così amata. E miracolosamente è accaduto che anche Pio abbia avuto il cuore toccato da questo fiume di Grazia e abbia riconosciuto l’errore, trovando la forza di chiedermi perdono e di tornare là dove la sua esperienza di uomo era realmente riconosciuta e compiuta”.

Rigenerati in Cristo

Abbiamo fatto festa. Il mio rancore è misteriosamente scomparso, lasciando il posto a una nuova accoglienza e a una nuova pagina della nostra storia. Dove il vero punto non è moltiplicare parole, ma camminare alla sua presenza”. Carla e Pio hanno difeso la loro famiglia senza arrendersi, cadendo e poi rialzandosi. Oggi vivono una nuova vita insieme, rigenerata da quel perdono reciproco che rende nuove tutte le cose. (m.l.r.)


Il racconto del marito Pio

Riassumere il mio cammino è davvero arduo”, racconta Pio. “Sicuramente è stato un percorso di ricerca della mia felicità riposta più nella superficialità, fidandomi di falsi sorrisi e false promesse, piuttosto che nella realtà che mi stava davanti. Dopo diverse difficoltà lavorative e le incomprensioni sistematiche con Carla, ho creduto che la felicità stesse nel bruciare le situazioni quotidiane senza progetto e senza futuro. Mi sembrava così… ma non ero contento. Con questa nuova donna non mi sentivo veramente accolto, si parlavano lingue diverse (non solo culturalmente), avevamo età differenti. La costante e sempre rispettosa vicinanza di Carla, attenta ai miei tempi anche se rigorosamente distante, mi ha dato la scossa del risveglio e ha fatto scaturire in me l’umile richiesta di perdono, perché come il figliol prodigo ho capito finalmente che la felicità non dovevo cercarla altrove, era già dentro di me, bastava solo riconoscerla. Ed era nella misericordia, nella riconoscenza, in uno sguardo diverso che trafigge la nostra stupida corsa e la qualifica, la colora, la rende desiderabile, rispettosa dei propri tempi”.

FONTE: A Sua Immagine N. 128
20 giugno 2015



In un blog come questo, che parla di Amore (quello Vero, fatto di autentica, genuina donazione di sé stessi), ho pensato che prima o poi dovessi postare qualcosa incentrato sul Perdono, di questa Altissima forma di Amore, tra le più belle, meravigliose e sublimi che esistano. E lo spunto di fare ciò me lo ha dato quella magnifica rivista che è “A Sua Immagine” (rivista collegata direttamente all’altrettanto splendido programma di Rai 1 che va in onda tutti i sabati pomeriggio e che consiglio a tutti di vedere).
Questa storia è veramente bella anche perché si intreccia con quella della propria Conversione personale. Al centro di tutto infatti c’è Lui, Dio, al quale sia Carla che Pio si sono affidati durante il periodo della propria momentanea separazione. Questo tempo ha permesso loro di capire i propri sbagli, di rinnovarsi interiormente e di acquisire quella forza e quella volontà per riavvicinarsi nuovamente e ricominciare tutto daccapo. Ricominciare sì, ma questa volta in un unione che non avesse solamente loro due come soli ed unici protagonisti, ma con la presenza di una terza Persona, Gesù Cristo, nostro Signore e Redentore, vero e proprio “collante” di ogni unione matrimoniale che si vuole fondare sui più veri e autentici Valori Cristiani. E così la storia matrimoniale di Carla e Pio è ricominciata, ma stavolta con uno slancio, una gioia e un Amore del tutto diversi rispetto al passato, quell’Amore che può venire solamente da Dio.


Marco

domenica 11 ottobre 2015

Manager e madre di 9 figli. La vita al primo posto.

Classe 1960, nazionalità francese, bionda, occhi azzurri, fasciata in un elegante abito di pizzo bianco, Clara Lejeune è amministratore delegato unico e presidente della General Electrice France un’azienda che conta 10mila dipendenti, sposata con Hervè Gaymard, ex ministro dell’economia francese, e madre nove figli di età compresa tra 4 e 18 anni. «Ma come fa a far tutto?» è una domanda che le rivolgono molto spesso.

«A dire il vero me lo chiede spesso proprio mio marito – risponde divertita – ma non credo di avere un trucco da svelare. Semplicemente ad un certo punto ho abbandonato l’idea di dover fare tutto in modo perfetto e ho capito che l’importante è esserci. Amo mio marito e amo i miei ragazzi, cerco di fare quello che posso, non sempre ci riesco, ci sono giornate in cui tutto fila liscio e altre che sono un disastro, in quel caso semplicemente mi scuso, non sono una super mamma e i ragazzi lo capiscono. Sul lavoro ho imparato a delegare, se ho un appuntamento importante in famiglia esco prima. Non c’è riunione d’emergenza che tenga, non c’è invito di manager, politici e imprenditori importanti che mi trattenga, semplicemente esco. Certo mi sono giocata delle opportunità, ma la mia famiglia viene prima e questo non ha penalizzato in maniera determinante la mia carriera».

Clara Gaymard dice tutto questo con la naturalezza di chi vive una dimensione di normalità simile a tante altre e intuisce che per chi ascolta non sia così. «Noi donne abbiamo la tendenza a voler far tutto, tutto per noi e tutto per i nostri figli. Io mi sono aiutata con poche semplici regole, una è questa: niente cene fuori. Sono i momenti più belli in cui siamo tutti insieme attorno allo stesso tavolo e non me ne priverei mai. Non accetto inviti fuori, non esistono cene di lavoro. Se decidiamo di vedere degli amici li invitiamo a casa oppure andiamo noi da loro, tutti e undici naturalmente. Anche i ragazzi hanno una regola: possono svolgere un’attività extrascolastica e che sia raggiungibile a piedi da casa, non posso accompagnarli tutti e nove a canto, pallavolo, musica, pattinaggio. Per qualcuno questa può essere una scelta penalizzante, io invece cerco di far scegliere ai miei figli quello che li appassiona davvero: una cosa, oltre la scuola, è sufficiente».

Quindi conciliare carriera e famiglia è possibile? «Mi dispiace che si parli di conciliare. Noi donne siamo innanzitutto madri, questo non significa che se c’è la possibilità, non dobbiamo lavorare. Per me è importante che ogni donna abbia la possibilità di scegliere, che se desidera stare accanto ai figli lo possa fare, che se torna al lavoro non venga relegata a fare fotocopie, vorrei che ogni madre potesse vivere la gravidanza, ma anche la propria maternità nel modo più sereno possibile. La mia vita è complicata, ma mi chiedo "chi non ha una vita complicata?"; anche con due figli è complesso, anche stando a casa a curare i figli ci sono le difficoltà. Ecco, io dico che una donna dovrebbe poter scegliere serenamente, perché la serenità nella scelta sarà poi la forza di affrontare le difficoltà. Sento tante madri che si lamentano anche per cose piccole, io mi sforzo e cerco di non farlo. Mi dico "I miei figli hanno diritto ad avere una madre contenta". Per questo il mio dovere è fare il meglio, il resto lo affido serenamente a Dio».

Nello sguardo sicuro di Clara Gaymard sembrano fondersi la serenità e l’umiltà di suo padre Jérôme Lejeune (1926-1994), medico, ricercatore e scopritore della sindrome di Down. Lejeune fu il primo grande oppositore delle pratiche eugenetiche e accanito difensore della dignità della vita. Grande amico di Giovanni Paolo II, fu il primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e nel 2007 è iniziato il processo per la sua beatificazione.

«Ho avuto la fortuna, o forse sarebbe meglio dire la grazia di essere sua figlia, di vivere con lui. Un medico e un ricercatore, che però riusciva sempre ad ascoltarci. Aveva poco tempo, ma ogni giorno veniva a casa per pranzare insieme e allora era tutto per noi bambini, ci ascoltava e stava con noi. Il pranzo era anche il momento in cui papà raccontava quello che faceva sul lavoro. Ancora ricordo di quando ci descrisse questi bambini, con il viso un po’ cicciottello, dallo sguardo particolare, ci raccontava che nessuno li voleva, e che i genitori si vergognavano e lui diceva "Io voglio aiutare questi bambini, sono bellissimi". Era felice di fare questo. Io non sono un medico, sono diversa in tante cose da mio padre, ma nel cuore ho la stessa felicità».

«La vita è felicità» è anche il libro scritto da Clara Gaymard ed uscito in Francia nella quale racconta la sua vita e quella di suo padre. Il segreto per la felicità dunque non è riuscire a fare tutto? «Ci sono cose importanti, e altre urgenti. E molte cose urgenti non sono importanti. Quelle importanti, poi, spesso non possono essere risolte rapidamente, perciò, non vanno fissate come urgenti. La serenità è prenderne atto e fare al meglio quello che si può fare, la felicità è sapere che c’è qualcuno che, per fortuna, ha progetti diversi e più grandi dei nostri».

di Raffaella Frullone

FONTE: http://www.amicidilazzaro.it/it/testimonianze24.htm


Non conoscevo prima d'ora Clara Lejeune, ma devo dire che sono stato ben felice di conoscere un poco della sua storia e di imbattermi in questa bellissima intervista, così ricca di spunti e di insegnamenti, che riporto con grande piacere sulle pagine di questo blog. Più di tutto mi vorrei soffermare su una cosa: sul fatto che Clara, nonostante la posizione socialmente elevata che occupa e il lavoro prestigioso che possiede, ha ben chiaro ciò che nella vita è veramente importante e prioritario: e cioè la Fede e la famiglia su tutto. Valori questi che gli sono stati certamente inculcati da suo padre (altra persona eccezionale), e che lei ha saputo adattare splendidamente nella sua vita. Mi piace molto sottolineare anche la sua umiltà, che trapela chiaramente dalle sue parole, splendida Virtù propria delle persone ricche di spiritualità. 
Fa bene al cuore leggere queste testimonianze.... e lasciatemi dire che è un bene mostrarle e farle conoscere, in una società come quella di oggi dove invece si tende a far vedere quasi unicamente (con le dovute eccezioni) ciò che di non buono c'è attorno a noi. Ma il Bene e le belle persone esistono ed esisteranno sempre.... ed è grazie a loro, all'Amore che ogni persona di buona volontà dona ogni giorno, che si regge e si fonda il mondo intero.

Marco