mercoledì 31 marzo 2021

Dalla Polizia di Stato al Sacerdozio – La storia di Don Ernesto Piraino

Questa è la storia di un giovane di 37 anni che per 18 lunghi anni era un poliziotto della polizia di Stato, aveva una ragazza e tanti sogni nel cassetto. Poi Gesù eucarestia gli rapisce il cuore e l’11 febbraio scorso, è stato ordinato sacerdote.

Cosa ti ricordi della tua vita da poliziotto?

E’ stata un esperienza meravigliosa in cui il Signore ha fatto passare tanta grazia. Fare il poliziotto non è un mestiere facile ed io l’ho svolto, in territori segnati da fenomeni criminosi importanti come in Sicilia e Reggio Calabria. Tutti questi anni in polizia mi hanno permesso di accumulare un bagaglio esperenziale, ed oggi, grazie a Dio riesco ad utilizzare in un altro settore diverso anche se l’umanità non è cambiata; quella rimane uguale con le sue fragilità e i suoi limiti ma anche con le sue bellezze e i suoi pregi.
Aver conosciuto l’umanità dal punto di vista della giustizia umana, oggi è un punto a mio favore.

Perché avevi scelto di fare il poliziotto?

Perché amavo l’idea di poter servire la mia patria di poter servire la gente che mi circondava indossando una divisa, e pensavo di poterlo fare nel migliore dei modi. Così feci un paio di concorsi nella polizia di stato e nei vigili del fuoco e li vinsi entrambi, ma avendo fatto per prima il concorso in polizia, ebbe la meglio sull’altro.
Il desiderio che si nascondeva dietro questa scelta era di poter essere utile all’altro.
Dobbiamo non sottovalutare anche il fatto che in quegli anni, non era semplice trovare un posto di lavoro che potesse diventare a tempo indeterminato, per cui vincere un concorso per un ragazzo di 19 anni, era un grande traguardo.

Tu eri anche fidanzato, quindi sognavi una famiglia e ti sentivi chiamato al matrimonio?

Assolutamente si, non solo sognavo il matrimonio ma l’avevamo addirittura progettato. Avevo acquistato casa e avevamo già programmato qualcosina per la cerimonia ma evidentemente, avevo fatto i conti senza l’oste.

Quando ti accorgesti che il Signore ti stava chiamando a lasciare tutto e a seguirlo?

Era il 2006 e nella parrocchia dove prestavo servizio di educatore dei giovani nell’azione cattolica, nacque l’Adorazione Eucaristica perpetua. Era la prima Adorazione Eucaristica perpetua della Calabria. Proprio in quell’occasione iniziai a trascorrere del tempo davanti a Gesù, prima iniziai con mezz’ora, poi un’ora e poi diventarono due… insomma era diventata una calamita, dalla quale mi restava difficile staccarmi. L’attrazione era tanta che a volte facevo compagnia a Gesù per tutta la notte. Pian piano Gesù, mi ha fatto comprendere che l’amore che percepivo e sperimentavo con Lui ed insieme a Lui, non era minimamente paragonabile da quello che vivevo dal punto di vista degli affetti umani e delle soddisfazioni professionali. Così ho iniziato a chiedermi se era il caso di iniziare un percorso di discernimento più profondo. E così nel 2011 entro in seminario.

La tua famiglia e la tua ragazza avevano già capito che c’era qualcosa di diverso in te?

La mia famiglia aveva cominciato a sospettare qualcosa, nel momento in cui la mia frequentazione in chiesa era diventata un momento molto importante mentre la mia ragazza dopo due anni di fidanzamento faceva qualche battuta del tipo “Se vuoi farti prete dimmelo chiaro” ma allora, in me non c’era nessuna intenzione di discernimento per diventare sacerdote.

E poi come hanno reagito alla tua decisione vocazionale?

Intorno a me c’è stata un’accoglienza abbastanza serena nell’accettare la mia decisione di entrare in seminario. Non ho avuto ostacoli o impedimenti ma molto affetto e molta preghiera. La mia ragazza ovviamente quando ha compreso che la lasciavo per il Signore, ha gioito perché ha capito che il rivale non era un’altra persona.

Invece i tuoi colleghi che ti hanno detto?

All’inizio hanno fatto qualche battuta affettuosa, però l’accoglienza del dono nel giorno dell’ordinazione sacerdotale, è stata straordinaria. Mi hanno dimostrato un tale affetto e una tale amicizia da lasciarmi veramente stupito. La Polizia di Stato insieme alla mia famiglia di origine mi hanno accompagnato a ricevere il dono sacerdotale.

Immagino che anche da poliziotto avevi una sensibilità molto sviluppata nei confronti di coloro che avevano intrapreso strade sbagliate come ad esempio uno spacciatore, un tossicodipendente. Se ti capitava di arrestarli, qual era la tua reazione nei loro confronti?

I primi anni di servizio vivevo molto di più la dimensione legata al senso della giustizia umana, mentre negli ultimi anni quando avevo in me chiara l’idea di diventare sacerdote, cercavo di unire il senso della giustizia umana con l’occhio misericordioso di Dio.
Vi racconto un aneddoto: molti anni fa mi ritrovai a fare ordine pubblico, durante una partita di calcio e ad un certo punto dovemmo alleggerire la folla perché i tifosi cominciarono a lanciarci pietre. Oggi uno di quelli che mi tirava le pietre è diventato frate, ed io che ero poliziotto dall’altra parte della barricata, sono diventato sacerdote.

Secondo te cosa si potrebbe fare per migliorare la società e dare un futuro ai giovani?

Potrebbe sembrare banale ma credo che bisognerebbe riscoprire l’amore di Dio che ci ama in una maniera unica. Tutti siamo figli di Dio. Questa scoperta potrebbe dare una svolta decisiva all’andazzo di questa nostra società. E’ una società dove l’amore sta scomparendo sempre più e viene relegato ad un posto minore di quello che dovrebbe realmente ricoprire. Lentamente l’uomo si va raffreddando e sta perdendo i valori realmente importanti della vita. Secondo me comprendere che Lassù c’è un Padre che ci ama, potrebbe contribuire alla felicità di ciascuno anche paradossalmente a quella stabilità, data da un posto di lavoro o dalla famiglia ma se manca l’amore nulla ci può rendere realmente felici.

Cosa vuol dire oggi per te, essere sacerdote?

E’ una gioia difficilmente descrivibile a parole. E’ una sensazione totale di pienezza ed è difficile renderla con un concetto che possa essere comprensibile però, se dovessi riassumerla a parole direi che diventare prete è veramente bello, poter servire il Signore soprattutto e le sue creature. Ogni giorno mi rendo conto di quanto questo dono sacerdotale, sia ben più grande perché l’amore del Signore ci supera abbondantemente.

Che messaggio vuoi dare ai giovani che sono in crisi vocazionale e non sanno quale sia la vocazione che Dio ha scelto per loro?

Direi di lasciare la porta del cuore spalancata, senza avere nessuna paura perché il Signore vuole soltanto la nostra felicità per mezzo della vocazione personale. L’importante è diventare Santi. Si può essere santi sacerdoti e santi genitori ma l’importante è vivere il nostro battesimo e camminare verso la santità, senza paura. Permettiamo a Gesù di entrare e portare il suo annuncio di pace e di salvezza ed una volta fatto questo non si ci volterà più indietro, una volta messi le mani all’aratro si andrà sempre avanti.


di Rita Sberna

12 gennaio 2021

FONTE: Cristiani Today

sabato 27 marzo 2021

Silvio Irilli, coloro gli ospedali per aiutare a vincere la paura

Stanze grigie e anonime possono trasformarsi in una cascata di colori ed emozioni capaci di far tornare il sorriso ai bambini che devono effettuare il prelievo o una radioterapia. La sua professione la vive un po' come una missione Silvio Irilli, artista che dipinge gli ospedali per aiutare a vincere la paura.

Dal Fazzi di Lecce e il Monaldi di Napoli all'Istituto Nazionale Tumori di Milano, 15 ospedali diversi, per un totale di 3000 metri quadri sono stati dipinti in 9 anni da nord a sud Italia. “Con i colori, le emozioni e la fantasia, riporto l'umanità in ospedale”, racconta all'ANSA.
Originario di Chieri, in provincia di Torino, Silvio dipinge da trent'anni. “Ho iniziato da bambino a disegnare, a 21 anni ho iniziato a lavorare come illustratore nel settore dell'editoria, nel 2008 fui chiamato a dipingere 350 metri quadri del soffitto dell'ingesso dell'aquario di Atlanta, negli Stati Uniti, visitato da 3 milioni di persone ogni anno”. E' nato così il tema marino che lo ha fatto conoscere nel mondo, ma la svolta professionale è stata nel 2011, quando è stato chiamato dal Policlinico Gemelli per dipingere un corridoio di radioterapia oncologica.I medici - ricorda Silvio - mi chiesero di provare a dare un'accoglienza diversa ai piccoli malati oncologici. L'obiettivo era creare interazione tra ambiente e paziente, in un luogo normalmente associato a ansia o tristezza”. Di qui è iniziato un lavoro per dipingere 300 metri quadri di soffitto e pareti con onde, stelle marine, delfini e tartarughe sorridenti. E i risultati sono stati incredibili. “I bambini si trovano in un ambiente a loro misura e quando tornano a casa dicono ai genitori che non vedono l'ora di tornare nel sottomarino del Gemelli”.
Questo è diventato un supporto anche per i medici. “I dottori mi hanno spiegato di esser risusciti ad acquisire la fiducia dei pazienti, in alcuni casi non è stato necessario addormentare i bimbi per effettuare la radioterapia, andando oltre ogni aspettativa”.

Da qui, nel 2012, è nato il progetto "Ospedali dipinti", che in questi anni ha permesso di trasformare in un bosco incantato il corridoio dell'Ospedale Regina Margherita di Torino o ambientare in un acquario il pronto Soccorso di Novara, ancora, portare Villa Adriana dentro la sala bunker di radioterapia del Gemelli.
I temi da rappresentare nelle creazioni nascono da un colloquio realizzato con dottori e associazioni che prendono in carico il progetto. Le immagini vengono dipinte in studio e stampate su carta da parati o pellicola adesiva lavabile e certificata per l'uso ospedaliero. “Questo - spiega - consente una grande velocità nel trasformare i reparti, cosa impossibile se fosse tutto dipinto in loco, perché il reparto diventerebbe un cantiere per settimane. Invece nel giro di un weekend riusciamo magicamente a rivoluzionare un ambiente. Poi i dipinti vengono rifiniti a mano”.

A rendere possibile tutto questo è l'aiuto di onlus, fondazioni e privati che vogliono donare reparti dipinti a strutture ospedaliere. In questo modo, sottolinea, “le strutture pubbliche non debbono spendere soldi per la decorazione dei reparti”. E i progetti non mancano. A febbraio Irilli sarà all'Ospedale di Messina per realizzare l'Isola del Sorriso nel reparto di Neuropsichiatria, in collaborazione con l'associazione ABC Amici dei Bimbi in Corsia e con il contributo di Msd Italia. Quindi a Taranto, per terminare le stanze di degenza del reparto di Oncoematologia, che sarà intitolato a Nadia Toffa. “Il mio obiettivo - conclude - è aiutare più bambini possibili a vincere le paure e farli continuare a sognare anche in ospedale. Magari, in futuro, rendendo le mie opere anche interattive”.

10 dicembre 2019

FONTE: Ansa Salute&Benessere

giovedì 25 marzo 2021

Mavì a 8 anni, dona i suoi capelli alle donne malate di tumore

Erano lunghi 70 centimetri. Mavì non li aveva mai tagliati

Crevalcore (Bologna), 19 marzo 2019– Mavì. È il nome di una bambina di 8 anni di Crevalcore che non si era mai tagliata i capelli dalla nascita, ma che ha deciso di donare settanta centimetri dei suoi lunghi e bei capelli rossicci alla Banca dei capelli. Associazione che crea parrucche con capelli veri da donare ai malati oncologici di ogni età. L’altro giorno, assieme alla mamma Frida e al papà Giorgio, Mavì Borrelli è andata dal parrucchiere Fabio Federici per farsi tagliare i capelli.

«Da quando Mavì è nata – racconta la mamma –, non si è mai tagliata i capelli per farli crescere lunghissimi e bellissimi. Recentemente Mavì ha però scoperto di poterli donare grazie alla serie televisiva "Braccialetti rossi". Mavì si chiedeva come mai i protagonisti delle volte avevano i capelli e altre volte no. Così le ho così spiegato l’uso delle parrucche, dicendole anche come le realizzano. Il resto è venuto da sé».

La serie racconta le vicende dei "Braccialetti Rossi". Vale a dire di un gruppo di ragazzi ricoverati in ospedale per vari motivi, che fanno amicizia tra di loro e creano un gruppo per farsi coraggio a vicenda. Leo, leader e fondatore del gruppo, dona a ogni aderente un braccialetto di colore rosso – da cui deriva il nome della serie – che aveva ricevuto come segno di riconoscimento per i suoi interventi chirurgici. E questo braccialetto diventa il simbolo del gruppo. «I capelli di Mavì – continua la signora Frida – avevano raggiunto la misura di 80 centimetri (70 i centimetri tagliati, ndr), quando mia figlia ha deciso, di sua iniziativa, di volerli donare a chi soffre. Quindi, con mio marito Giorgio abbiamo preso contatto con l’associazione onlus Prometeus che gestisce il Progetto Smile in stretta collaborazione con la Banca dei capelli, e con Fabio Federici per eseguire il taglio». La bambina ha scritto in una lettera i motivi del suo gesto: veder sorridere chi soffre.
La parola al parrucchiere: «Smile – spiega Federici – è un progetto di solidarietà attraverso cui le donne possono donare i propri capelli a un’altra donna, che li potrà indossare nella parrucca realizzata appositamente per lei. Per l’occasione Mavì ha scelto di rivolgersi a noi che per queste iniziative eseguiamo gratuitamente la nostra opera». E aggiunge: «Sempre il giorno in cui Mavì ha donato i suoi capelli, ha fatto lo stesso gesto anche Michela, impiegata quarantenne di San Giovanni in Persiceto. La signora ha deciso di donare i suoi capelli biondi lunghissimi: di 70 centimetri. Un gesto d’amore, quello di Mavì e di Michela, per regalare un sorriso a chi soffre e allo stesso tempo per far riacquistare la propria immagine segnata dalle cure».

di Pierluigi Trombetta

19 marzo 2019

FONTE: il Resto del Carlino


E' sempre bello poter pubblicare storie come queste! A completamento di questo bellissimo articolo, va detto che Mavì Borrelli, per questo suo gesto di grande Generosità, è stata insignita del titolo di Alfiere della Repubblica 2020 dal presidente Mattarella assieme ad altri 24 giovani, per essersi “distinti come costruttori di comunità, attraverso la loro testimonianza, il loro impegno, le loro azioni coraggiose e solidali”.
Continua così Mavì!

Marco

Pane appena sfornato in dono a chi ne ha bisogno. L'iniziativa di un panificio vittoriese

I vittoriesi continuano a dimostrare di avere un grande cuore e questa pandemia, che sta causando anche numerosi problemi economici, lo sta dimostrando ancora una volta (se mai ce ne fosse stato bisogno). A spendersi per gli altri c’è anche il panificio vittoriese “Il fornaio di casa” che ha deciso di donare, ogni giorno, pane alla Protezione Civile Caruano che lo distribuirà poi alle famiglie bisognose. A differenza di altre iniziative simili, il panificio in questione non dona il pane “avanzato”, quello cioè non venduto a fine giornata, ma prepara appositamente la quantità necessaria per le famiglie che ne hanno fatto richiesta o che sono già seguite dai volontari della CAPC Caruano di Vittoria. Ai titolari del panificio ed ai ragazzi della Protezione Civile un sincero grazie per quello che ogni giorno fanno a sostegno anche dei cosidetti “nuovi poveri”, ovvero quelle persone che hanno perso il lavoro o hanno ridotto all’osso i loro introiti a causa delle restrizioni imposte per il contenimento della pandemia.

26 novembre 2020

FONTE: Radio Sole

domenica 21 marzo 2021

Bar mette al bando le slot: al loro posto una libreria

L'iniziativa del "Why Not" di via Aurelia e della sua titolare, Azzurra Cerri, che ha lottato due anni con il gestore delle macchinette per riuscire a liberarsene

VIAREGGIO. Quell’angolo buio all’interno del suo bar proprio non le piaceva più. E così Azzurra Cerri, titolare del "Why Not? Cafè" (lato mare di via Aurelia Nord, di fronte all’Esselunga) ha detto basta. Una mini-libreria al posto delle slot machine. Quando pochi giorni fa gli addetti della Sisal hanno portato via le macchinette, la ragazza ha tirato un sospiro di sollievo. Il lieto fine di una storia che si trascinava da oltre due anni, dal momento in cui Azzurra chiuse un accordo con la Sisal per piazzare due slot machine dentro il suo bar. Salvo poi pentirsi dopo poco tempo. Non sapeva che disfarsi di quelle macchinette non sarebbe stato facile come bere un bicchiere d’acqua.

Quando mi rivolsi al concessionario – racconta Azzurra – mi fu spiegato chiaramente che se avessi chiesto la rimozione delle slot in anticipo rispetto alla scadenza del contratto, avrei dovuto pagare una penale di mille euro per ogni anno che mancava al termine naturale del rapporto (gli accordi vengono stipulati su base quinquennale)”. La ragazza non aveva assolutamente intenzione di sborsare quella cifra, ma pure gli enti preposti a cui si era rivolta per porre fine al suo calvario, non le avevano prospettato altra via d’uscita. E allora, la scorsa estate, ha spento le macchinette. A quel punto, poche settimane fa, è stata la Sisal a contattarla, “perché era stato riscontrato che negli ultimi mesi le slot non avevano generato traffico e di conseguenza incassi”. E’ a questo punto che Azzurra intravede uno spiraglio: “Mi dissero che se avessi continuato a tenere inattive le slot sarebbero stati costretti a portarle via”. Proprio questo voleva la ragazza. Dopo svariati tentativi, sino a quel momento tutti falliti, aveva raggiunto il suo scopo.

Adesso, l’occhio dei clienti cade inevitabilmente su quell’angolo luminoso, con un tavolo e sopra di esso una candela, qualche sedia ed uno scaffale con i libri. Tanti libri. Che chiunque desidera potrà leggersi comodamente bevendo un caffè o mangiando un panino o una brioche. Questa la cronologia degli eventi. Secca. Fredda. Ma sono le motivazioni che hanno un peso specifico rilevante in tutta questa vicenda. Quelle di una giovane imprenditrice che si è messa in gioco e che proprio, per colpa del gioco, aveva perso la pazienza. Stufa di assistere impotente, di fatto, a quel flusso continuo di persone attirate come calamite dalle slot machine dentro il suo bar. “Diversi anni fa erano remunerative (prima della Sisal aveva stipulato un accordo con un gestore viareggino, ndr), poi sono cominciati i problemi. Col passare del tempo era diventata una rimessa. Entrava gente poco raccomandabile, si piazzava davanti alle macchinette e spesso capitava che qualcuno mi chiedesse soldi in prestito per giocare, magari poi senza saldare il debito. Una situazione insostenibile”. Anche perché il "Why Not? Cafè" è stato preso di mira (più di una volta) dai ladri, che infrangendo i vetri e forzando la porta laterale, avevano tentato di portare via soldi. “Ora che mi sono liberata delle slot, sono felice. Il bar è di nuovo tranquillo, così come i clienti che lo frequentano (principalmente i dipendenti dell’Esselunga, ndr). L’idea di creare un angolo dedicato alla lettura l’avevo in mente da tanto tempo. Finalmente sono riuscita a realizzare il mio piccolo desiderio”.


di Gabriele Noli

3 gennaio 2015

FONTE: Il Tirreno

venerdì 19 marzo 2021

Joao Stanganelli, il nonno brasiliano che realizza all’uncinetto bambole con la vitiligine

Scoprire la passione per l’uncinetto in pensione e realizzare delle bambole speciali che possono fare davvero bene al cuore (e all’autostima). Joao Stanganelli ha inventato Vitilinda, la prima bambola con la vitiligine. Ha quasi 10mila follower sul suo profilo Instagram e riceve ormai ordini da tutto il mondo.

C’è chi va in pensione e inizia a giocare a carte con gli amici. Chi fa del volontariato. Chi fa il nonno e va prendere i nipoti a scuola. Joao Stanganelli ha imparato a fare l’uncinetto. E lo ha fatto per una buona causa. Questo intraprendente nonno brasiliano, infatti, ha creato Vitilinda, una bambola molto speciale, che ha una missione precisa: aumentare l’autostima nei bambini che soffrono di vitiligine.

La vitiligine è una malattia che colpisce le cellule della pelle che producono melanina, vale a dire il pigmento responsabile della colorazione della pelle. Non è una patologia contagiosa, ma porta alla formazione di alcune macchie bianche sull'epidermide. Anche Joao soffre di vitiligine da quando aveva 38 anni e sa quanto chi ne soffre possa sentirsi a disagio in pubblico, anche a causa della reazione spropositata e ingiustificata che gran parte delle persone hanno nel momento in cui si imbattono in una persona affetta da questa patologia.

Così, una volta in pensione, Joao ha pensato di realizzare una bambola con tanto di vitiligine e, per farlo, ha chiesto alla moglie Marilena di insegnargli a lavorare all'uncinetto. Se all'inizio le cose non sono proprio andate per il meglio, con il tempo Joao ha preso sempre più dimestichezza con filo e uncinetto, fino ad arrivare a creare delle bambole davvero bellissime.

Bambola dopo bambola, Joao ha creato anche una bambola con l'alopecia e un'altra ancora sulla sedia a rotelle. Un modo per superare un taboo tra i bambini, e magari anche tra gli adulti, ma soprattutto per far capire ai bambini affetti da qualsiasi malattia che non sono meno belli rispetto agli altri.

di Gaia Cortese

26 settembre 2019

FONTE: ohga!

martedì 16 marzo 2021

Giappone, in due anni pianta migliaia di fiori per la moglie cieca: "Così è tornata a sorridere"

Lo chiamano il "giardino dell'amore" e durante la fioritura attira oltre settemila visitatori al giorno. Una distesa di petali rosa che raccontano la storia dei signori Kuroki. Quando lei perse la vista, lui decise che se non avesse più potuto vedere il mondo, almeno ne avrebbe sentito il profumo, e ascoltato le voci

TOKYO - Se regalare una rosa è un gesto d'amore, donare un intero giardino di fiori dopo averlo coltivato per anni, è il livello superiore. Il signor Kuroki l'ha fatto per la moglie, che è cieca. Perché il buon profumo potesse darle gioia.

Sposi dal 1956, la coppia ha vissuto tutta la vita nella propria fattoria a Shintomi, in Giappone, la stessa dove era stata celebrata trent'anni prima la semplice cerimonia di nozze. Dopo aver avuto due figli e aver lavorato duramente nei campi, a un passo dalla pensione e dai viaggi che da sempre sognavano, la signora Kuroki ha perso la vista a causa del diabete. A 52 anni si è chiusa dentro casa, depressa, spaventata.

Kuroki ha deciso che avrebbe combattuto contro la sua tristezza. L'idea gli è venuta dopo aver notato che alcune persone si fermavano per guardare il suo piccolo giardino di fiori rosa shibazakura, petali di muschio rosa. Se sua moglie non poteva vedere più il mondo, allora ne avrebbe sentito il profumo. Di fiori ne ha piantati altri, migliaia. Li ha innaffiati per anni, con cura, ogni giorno.
Il Giappone è famoso per la fioritura dei ciliegi in primavera ma nella prefettura di Miyazaki ora le persone accorrono per assistere a uno spettacolo floreale diverso, anche grazie alla storia d'amore che si nasconde dietro i petali. In due anni i visitatori sono aumentati, le loro voci, le visite, le domande. Gli odori si sono mischiati e la fattoria è diventata una delle attrazioni turistiche più frequentate della zona.

Come riporta anche il Telegraph il giardino dei signori Kuroki attira circa settemila persone al giorno, soprattutto nel periodo delle fioriture di marzo e aprile. Nella stalla, che una volta ospitava 60 mucche, ora scorrono le foto e i messaggi che raccontano la loro storia d'amore. Ma la cosa più importante è che la signora Kuroki ama parlare e intrattenersi con le persone che arrivano da ogni zona del Giappone e dall'estero. Passeggia sempre nel giardino, e sorride.


24 luglio 2019

FONTE: La Repubblica

lunedì 15 marzo 2021

«WonderLAD», la casa che permette ai piccoli malati di restare bambini

Una piccola città dell’infanzia, che si animerà a partire da gennaio 2020, con vari laboratori creativi, attività d’arte e di sostegno secondo il modello «Cure & Care»

È diritto di ogni bambino potere godere appieno della propria età. Anche - anzi, soprattutto - se si trova a combattere con una grave malattia. Una circostanza eccezionale, a volte violenta, che lo astrae dalla sua vita di ogni giorno, in particolare dalla dimensione del gioco e della creatività proprie del suo essere bambino, di cui invece avrebbe particolare bisogno per affrontare dolore, solitudine, incertezza, isolamento. Per di più in un ambiente estraneo come l’ospedale. In nome di questo diritto fondamentale dei bambini, due visionari come Cinzia Favara, psicoterapeuta e arteterapeuta, e il marito Emilio Randazzo, "architetto-terapeuta", come lui stesso si definisce scherzosamente, hanno messo in moto un progetto all’avanguardia per ribaltare gli elementi di una situazione negativa extra-ordinaria come è appunto la malattia oncologica pediatrica.

Tecnologie all’avanguardia

Forti ciascuno della propria professione e, insieme, dell’esperienza più che ventennale della loro LAD Onlus, operativa presso il reparto di Oncologia Pediatrica del Policlinico di Catania, Cinzia ed Emilio hanno pensato quindi a una grande "casa" dove i bambini malati non ospedalizzati possano vivere esperienze positivamente eccezionali durante la malattia. Per combatterla non solo con le medicine, ma anche con lo stupore e la meraviglia, magari scoprendo potenzialità, passioni e persino talenti. Non a caso hanno scelto di chiamarla WonderLAD e di costruirla con materiali e tecnologie all’avanguardia nel campo della bio-architettura, «per ottenere - come spiega Emilio, direttore di LAD - comfort, salubrità degli ambienti e prestazioni energetiche di massimo livello, sublimando lo scopo sociale dell’architettura». Che si mette così al servizio dei piccoli ospiti della struttura, rendendo WonderLAD «un luogo di opportunità e scoperta attraverso l’arte e la creatività, che - come spiega Cinzia, presidente di LAD - permettono ai piccoli pazienti di restare in contatto con le parti sane e belle della loro identità di bambini».

La quotidianità che cura

Inaugurata il 21 novembre 2019, proprio in coincidenza con il trentesimo anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, WonderLAD è un modello unico a livello internazionale e una delle più importanti opere di Terzo settore in Italia. Diventata realtà grazie a una rete internazionale di eccellenze e un esercito di sostenitori privati, tra fondazioni, aziende e sponsor secondo l’idea della "solidarietà diffusa" su tutto il tessuto sociale, con un contributo del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali. La struttura di 1.870 mq comprende anche un auditorium avveniristico, una biblioteca e sei monovani dotati di quattro posti letto, bagno privato e cucina, per accogliere le famiglie dei piccoli pazienti, e si estende tra giardini, parco giochi e posteggi, su un terreno di 17.500 mq concesso dal Comune di Catania in comodato d’uso, un po’ fuori dal centro cittadino. Una piccola città dell’infanzia, che si animerà a partire da gennaio 2020, con vari laboratori creativi, attività d’arte e di sostegno e altre attività ludico-ricreative secondo la metodologia del "Cure & Care", reinterpretando l’esperienza torinese di una "quotidianità che cura" di CasaOz, da cui è nata l’idea iniziale di WonderLAD, sviluppata poi nel connubio tra bio-architettura e arteterapia.

Un ambiente armonioso

Come è proprio del mondo LAD, edificato da Cinzia ed Emilio sulla consapevolezza di quanto anche un ambiente circostante armonioso possa incidere positivamente sullo stato psicologico ed emotivo dell’essere umano. Soprattutto di un bambino. Arte, psicologia, architettura e solidarietà sono, dunque, le colonne portanti di questo luogo, voluto peraltro non solo per i bimbi malati non ospedalizzati, ma anche per le loro famiglie, fratellini e sorelline compresi, affinché il percorso della malattia - già a partire dalla delicata fase diagnostica - non prenda del tutto il sopravvento sulle loro vite. Allentato da un altro caposaldo di WonderLAD: l’incontro. Anche con i bambini del territorio, in particolare delle scuole, per mantenere vivo il rapporto con il mondo esterno attraverso la relazione quotidiana, attenuando quel senso di isolamento che spesso la malattia oncologica porta con sé. E raggiungere così un unico, significativo obiettivo: salvaguardare l’infanzia attraverso "l’arte che cura".


di Ornella Sgroi

21 marzo 2020

FONTE: Corriere della Sera

venerdì 12 marzo 2021

Dalla parte di Nice, la donna che lotta contro le mutilazioni genitali femminili

A 25 anni Nice Nailantei Leng’ete è ambasciatrice Amref contro le mutilazioni genitali femminili. Nel 2018 la rivista Time l’ha inserita tra le cento personalità più influenti al mondo.

Quando ha detto no al ‘taglio’ ed è scappata dal suo villaggio, in Kenya, Nice aveva solo 9 anni. La prima volta, lei e sua sorella maggiore rimasero tutta la notte su un albero. Quando i parenti le trovarono, le picchiarono. La seconda volta, la sorella si rifiutò di nascondersi e si lasciò tagliare. “Mi disse che era giusto che a sacrificarsi fosse lei che era la più grande. Che così forse, mi avrebbero lasciata in pace”, racconta. La incontriamo a Milano, in occasione della Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (mgf). Indossa un abito tradizionale e collane masai, lo sguardo deciso e il sorriso dolce.

Per le famiglie masai, la mutilazione genitale femminile è un rito – che non ha nulla a che vedere con la religione – che trasforma le ragazze in donne e le rende pronte al matrimonio. “Avevo paura di morire. Qualcuno era morto a causa del taglio. E temevo che, se anche non fossi, morta, non mi avrebbero più mandato a scuola e mi avrebbero costretto a sposarmi” spiega, e aggiunge: “un’insegnante che avevo avuto mi aveva aperto gli occhi sulle mutilazioni. Proveniva da una comunità in cui non erano praticate e mi spiegò perché era una cosa bruttissima e sbagliata. Così decisi di sfidare la tradizione”.

Cosa sono le mutilazioni genitali femminili

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce le mutilazioni genitali femminili come "qualunque procedura che includa la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili, o qualsiasi altra ferita agli organi genitali femminili, inferta senza alcuna ragione medica". Nel 2016, seppur fuorilegge in molti paesi, le mgf interessano almeno 200 milioni di donne e bambine, 70 milioni in più di quelli stimati nel 2014. In alcuni stati dell’Africa Orientale (Kenya, Sudan, Etiopia, Somalia) l’incidenza del fenomeno tocca punte del 98 per cento nella popolazione femminile. Alla pratica sono strettamente correlati fenomeni come i matrimoni precoci e l’abbandono scolastico.
I riti di passaggio alternativi

Nel 2008, grazie a un programma di Amref sulla salute femminile, Nice diventa educatrice della comunità. “Vennero a dirci che servivano un ragazzo e una ragazza che sapessero leggere e scrivere. Anche se la mia scelta mi aveva messo in cattiva luce nella comunità, fui scelta perché ero una delle poche ragazze ad aver studiato. Le altre, dopo il taglio, si erano sposate ed avevano avuto figli”. Da quel momento inizia la vera battaglia.

Nice va di villaggio in villaggio, per sensibilizzare le donne sulle mutilazioni e sulla necessità di sostituire la pratica con dei riti di passaggio alternativi. Attraverso questi riti, il passaggio delle donne dall’infanzia all’età adulta non è più legato ad una lametta, ma a libri scolastici, istruzione e al coinvolgimento attivo delle comunità. La sua caparbietà alla fine ottiene i risultati sperati. Al punto che i maschi della comunità le riconoscono una leadership naturale. Riceve l’Esiere, "il bastone nero" che viene concesso solo ai saggi Masai.

Con Amref per il futuro delle bambine

Non è facile far capire, a chi proviene da mondi diversi dal mio, perché è così complicato estirpare questa odiosa tradizione. I genitori delle bambine e tutte le comunità coinvolte, sono convinte di agire nel loro interesse. Se una bambina non è ‘tagliata’ non troverà marito e dovrà portare lo stigma della sua condizione. È una mentalità che va cambiata, con l’educazione e l’informazione consapevole”.
Da allora, la sua battaglia al fianco di Amref le ha permesso di salvare più di 16mila donne.

Le Nazioni Unite hanno fissato la messa al bando totale delle mgf entro il 2030”, osserva Nice. “Io continuerò a fare la mia parte, perché le bambine diventino adulte senza essere sottoposte ad alcun taglio. E perché ciascuna di loro sappia, in Kenya e altrove, che può diventare la donna dei suoi sogni”.


6 febbraio 2019

di Alessia de Luca Tupputi

FONTE: Lifegate

martedì 9 marzo 2021

Alla musica ha preferito anziani e disabili: Francesca e la sua vocazione da Oss

Dalle cover di Anna Tatangelo agli ospedali, il diploma al Conservatorio lasciato nel cassetto per dedicarsi a chi non è autosufficiente

«Ho soltanto la mia età. E fino a ieri mi teneva compagnia. E a volte sogno di toccare in faccia il sole. Mi sveglio piano e poi lascio fare e quello che sarà, sarà…». Cantava nelle piazze le cover di Anna Tatangelo, agognava il successo e per questo aveva studiato. Diplomata in pianoforte e canto. La sua – però – non è la storia di un sogno sfumato, ma di uno inseguito e, in parte, già realizzato. Francesca Carchidi ha trentraquattro anni, è sposata e vive a Monterosso, nell’entroterra vibonese. Non fa più la musicista, perché ha scelto la vita dell’operatrice socio-sanitaria, assecondando un’aspirazione che aveva sin da bambina. E così, Francesca, diventa testimone autentica del significato di un acronimo, quello di "Oss", che rappresenta un mondo ai più sconosciuto, o conosciuto solo in apparenza, in superficie.

«Avevo quattordici anni – racconta – ed in paese c’erano diverse persone anziane e sole. Mi recavo da loro per aiutarle a fare piccole cose di casa, la spesa o semplicemente per scambiare qualche parola. Col tempo hanno iniziato a regalarmi qualcosa, ma non era per questo che lo facevo. Rendermi utile, aiutare chi aveva bisogno, mi dava una profonda gratificazione». Insomma, un volontariato pressoché quotidiano, che viaggiava di pari passo allo studio, alla passione per il canto ed il piano, al sogno di diventare come Anna Tatangelo, una ragazza di periferia capace di conquistare lo star system.

La svolta della sua vita arriva nel 2008, quando il Comune di Monterosso attiva un progetto per l’assistenza domiciliare alle persone non autosufficienti. Poco più che ventenne, Francesca entra nella vita di due persone che saranno sempre speciali: una madre ed una figlia, entrambe affette da gravissime patologie degenerative. «Non è durato molto quel progetto – spiega – ma anche quando si è concluso, io ho continuato a lavorare per questa famiglia. Ci lavoro ancora adesso, dopo tredici anni. La mamma ora purtroppo non c’è più ed ha lasciato un grande vuoto. È rimasta la figlia, alla quale mi dedico più e meglio che posso. Non è volontariato, ormai, per me, ma è lavoro. E lo svolgo con la stessa passione che anima un volontario».
Dal 2018, Francesca si impegna affinché possa completare la sua formazione e possa essere formalmente riconosciuta con una qualifica ciò che, di fatto, fa sin da quando era un’adolescente. Ha così iniziato il corso da operatore socio-sanitario con l’associazione San Giuseppe Moscati di Vibo Valentia. «Mi sono trovata benissimo – racconta – ho imparato tante, tantissime cose. La più importante è che questo è un lavoro delicato, importante, che non è per tutti. È un lavoro che puoi fare davvero se e solo se ti senti pronto a dedicarti completamente agli altri, altrimenti, se pensi possa essere un impiego come un altro, beh, vuol dire che hai sbagliato strada».

Il corso prevede una parte teorica e una pratica. La pratica la vedrà impiegata per 200 ore in Utic e Cardiologia allo Jazzolino, poi altre 100 ore in Pediatria, 150 in Psichiatria, infine 100 di esercitazioni pratiche. «Ripeto – dice Francesca – questo percorso non si fa per avere un pezzo di carta, ma perché devi avere una vocazione». E allora, Francesca inizia con lo sfatare i luoghi comuni: «Non si è dei veri e propri infermieri, ma se non lo sei è con la professionalità di un infermiere che devi operare e a quelle competenze devi fare il possibile per avvicinarti. Ma un Oss non è neppure un badante, attenzione…». L’Oss, così, deve occuparsi dei bisogni primari del paziente e non solo: «Arrivi e sai che devi rifare il letto, sai che devi saper prenderti cura dell’igiene della persona. Questo, però, è solo un aspetto infinitesimale di questo lavoro, che si regge invece sull’empatia con il paziente. Sai che hai davanti una persona che non può prendersi cura di se stessa e della sua salute e, con il tuo lavoro e la tua presenza, la completi».

Francesca non sa dove il futuro la condurrà, ma se potesse scegliere – lei convinta che «il futuro è quello che ci costruiamo da soli» – vorrebbe poter continuare a prendersi cura di anziani e disabili: «Potrei finire in una scuola, stare in una struttura per tossicodipendenti, in una casa famiglia, ma io preferisco le persone anziane e quelle portatrici di disabilità. Perché sapere che fai qualcosa di importante per chi non può farcela da solo mi trasmette una gratificazione emotiva immensa. E quando in tv vedo dei maltrattamenti nelle Rsa o nelle case famiglia, giuro, sto davvero male». Così, la ragazza che cantava nelle piazze e sognava il palco dell’Ariston, oggi lancia un invito ai tanti giovani che ancora aspettano il destino: «Dico loro di guardarsi dentro e di trovare la propria strada. E se scegliete di prendervi cura degli altri, vorrà dire che avrete intrapreso la mia».


di P. C.

7 marzo 2021

FONTE: il Vibonese.it

lunedì 8 marzo 2021

L’ospedale gioiello che cura i bambini nel paese che non c’è, il Somaliland

Nel pacifico Somaliland, non riconosciuto dalla comunità internazionale, funziona il Mas Children Hospital di Hargeisa. È l’unico del Corno orientale che cura bambini altrimenti destinati a morire. Un gioiello africano gestito da africani

E se non c’è l’incubatrice? «Usiamo il metodo di mamma canguro». Ogni tanto succede, racconta la dottoressa Khadra: arrivano i neonati prematuri in apnea, «non pesano neanche un chilo», ma in ospedale non c’è un apparecchiatura dove metterli. «Allora ricorriamo al metodo più naturale ed efficace: li avvolgiamo in un marsupio di pezze e li lasciamo tutto il giorno sul petto della madre, pelle a pelle…». Funziona? «Deve funzionare. Perché fare il medico qui è una questione d’energia e di fantasia».

Qui è il Mas Children Hospital di Hargeisa, capitale del Somaliland. Un gioiello africano, gestito da medici africani. L’unico del Corno Orientale in grado di ricoverare bambini destinati, altrimenti, a morte sicura. Sei pediatri diretti da Khadra Ibrahimi, 45 anni, studi a Roma e specialistica al Sant’Anna di Torino, tornata a casa quattro anni fa per dare una mano. E costruire questo progetto Mas, sigla dedicata a Mohamed Aden Sheikh: un medico esiliato dal dittatore somalo Siad Barre, che negli Anni 90 faceva il consigliere comunale a Torino e che prima di morire, rincasato nel Somaliland indipendente, non riuscì per pochi mesi a vedere la posa dell’ultima pietra: «Da queste parti - spiega Khadra - avere un ospedale specialistico è una cosa rarissima. Eppure è utile come e più degli ospedali tradizionali. Perché una volta bisognava andare in Europa, per certe cure».

Cinque anni d’attività, 60 mila bambini curati gratis, chirurgia plastica e pediatrica, otorino e ortopedia, un’équipe tutta locale istruita dai medici del Regina Margherita di Torino. Da un mese il Mas ha aperto anche un blocco operatorio e una terapia intensiva, altri tre anni di training d’una missione internazionale diretta dal professor Piero Abbruzzese, anima italiana dell’ospedale, pioniere della cardiochirurgia infantile, ora direttore scientifico dell’onlus Marco Berry e consulente del governo di Hargeisa: «Quando sono arrivato, nel 2011, non c’era niente. Mi è piaciuta subito l’idea d’un ospedale che funziona, più che su un generico concetto di carità, sulla solidarietà consapevole verso un Paese ignorato dal mondo».

L’ospedale che c’è nel Paese che non c’è. Perché il pacifico Somaliland è un paradosso geopolitico, non riconosciuto dalla comunità internazionale che da sempre copre d’aiuti la vicina Somalia degli shebab e delle corti islamiche. Da un quarto di secolo indipendente da Mogadiscio - una guerra che costò centinaia di migliaia di morti, un milione di profughi, Hargeisa rasa al suolo dalle bombe di Siad Barre - il Somaliland oggi ha moneta, esercito, governo. Ed è un piccolo miracolo di stabilità africana: le ultime elezioni si sono svolte senza sparatorie. Terra poverissima, i 4 milioni d’abitanti vivono di rimesse degli emigrati e d’un po’ di bestiame venduto ai ricchi del Golfo.

Poche cose danno orgoglio come l’ospedale Mas: «Nessuno ci riconosce come Stato - sorride Khadra - ma i pazienti ce li mandano, eccome...». Pur fra mille problemi: i blackout, da rimediare coi generatori; l’acqua, che manca in metà capitale; stipendi e forniture da pagare, «abbiamo raccolto 200 mila dollari di beneficenza, ma non bastano mai». E soprattutto i pezzi di ricambio: «Se si rompe una macchina per l’anestesia, come la ripari? L’ultima volta è venuto un volontario da Firenze. Ma ora vorremmo formare tecnici nostri». Indipendenza, autonomia. Al professor Abbruzzese, per riconoscenza, è stato appena dedicato il nuovo padiglione chirurgico: «Glielo dovevamo. Voi italiani fate tanto per noi. Ma noi lo sappiamo: un giorno l’Africa dovrà imparare ad aiutarsi da sola».


di Francesco Battistini

8 gennaio 2018

FONTE: Corriere della Sera

venerdì 5 marzo 2021

Rinuncia all'aborto e salva se stessa e la bimba

Dal Brasile arriva una storia che ricorda a larghi tratti quella di Chiara Corbella, la ragazza romana che rinunciò a curare il suo tumore alla lingua per proteggere il figlio che portava in grembo dagli effetti invasivi della radio e della chemioterapia. Anche Ana Beatriz Frecceiro Schmidt, impiegata di banca 32enne, ha scelto la vita nonostante i consigli dei medici che la esortavano ad abortire. Il 19 giugno del 2017 la ragazza, mentre allattava il suo primo figlio di 9 mesi, si accorse di avere un nodulo al seno. Gli esami radiografici le confermarono il cattivo presagio: si trattava, infatti, di un cancro. Una scoperta resa ancora più amara dal fatto che Ana Beatriz aveva appena saputo di essere incinta del suo terzogenito.

La vita prima di tutto

Dopo la diagnosi, i medici le hanno consigliato di interrompere la gravidanza, ma Ana Beatriz è stata inamovibile: Ho deciso di andare avanti con la gravidanza, perché sono contro l'aborto, credo nella vita, credo nell'amore. La forza d'animo che la contraddistingue e la speranza che ha trovato nella fede hanno spinto la ragazza a rassicurare, lei stessa, tutti i familiari e gli amici, a convincerli che era stata la decisione migliore da prendere. La giovane madre ha spiegato così la sua scelta: “Non sacrificherei mai la vita di mia figlia per salvare la mia. Penso che tutte le vite abbiano lo stesso valore e non ucciderei mai mia figlia per salvarmi. Non potrei conviverci”.

La lotta contro il cancro

Esattamente un anno fa, Ana Beatriz ha subito una mastectomia totale che ha previsto l'asportazione del suo seno sinistro. L'intervento ha consentito però di estirpare anche il tumore. “Ho ucciso chi aveva cercato di uccidermi”, ha detto la ragazza ricordando sul suo profilo social quel giorno. Una giornata di festa, vissuta col sorriso al risveglio dall'anestesia. Preoccupandosi prima di tutto della salute della figlia che stava aspettando, Ana Beatriz ha optato per il trattamento più rischioso, ma alla fine ce l'ha fatta. Il suo coraggio è riuscito a prevalere sul cancro.Ho detto a tutti – racconta la giovane madre – o vivremo insieme, o saremo morti insieme, ma non mi sarei separata da lei, sacrificandola, uccidendola per salvarmi. Così ho combattuto per entrambe ed entrambe siamo sopravvissute
.

Il dono della gravidanza

L'operazione è stata particolarmente dura per il fisico di Ana Betriz non potendo assumere farmaci antidolorifici ed antinfiammatori per non compromettere la vita della piccola che custodiva in pancia. Ana Beatriz ha raccontato come considerasse la sua gravidanza un dono di Dio anche in quei momenti difficili. Infatti, trattandosi di un tumore di tipo ormonale, lo stato interessante in cui si trovava lo ha fatto sviluppare più velocemente ed ha consentito, quindi, di individuarlo in tempo. “Se non fossi stata incinta – ha spiegato la ragazza brasiliana – avrei rischiato di scoprirlo mentre già si stava metastatizzando”.

Il ruolo della fede

Nella decisione di Ana Beatriz ha senz'altro influito moltissimo la sua fede:Sono cristiana – ha confessato la ragazza – e sono sicura che è stata la mia fede in Dio che mi ha tenuto in piedi. Non ho mai perso la fede, non mi sono mai disperata e non ho mai pensato che io e la mia piccola saremmo morte”. Affidarsi completamente al Signore e mettere la vita prima di ogni altra cosa; in questo modo la 32enne è riuscita a non perdere mai la speranza durante la difficile esperienza che si è trovata ad affrontare: “Ho una fede molto forte in Dio e nella vita. So che Dio ha uno scopo nella mia vita e in quello di mia figlia, so che è stato un dono di Dio per me. Durante tutto questo tempo, questo periodo difficile vissuto, sapevo che Dio era con me, sostenendomi, sostenendoci
.

La prima femminuccia

Gli sforzi di Ana Beatriz sono stati premiati e alle 3 e 40 del 24 gennaio 2018 è nata Louise, la prima figlia femmina dopo due maschi. La piccola, 3790 grammi d'amore, è stata accolta dalla gioia di una mamma esemplare che ha voluto ringraziare immediatamente il Signore per la grazia ricevuta.Dio è davvero perfetto e meraviglioso” ha scritto su Facebook subito dopo il parto, pubblicando la prima foto con in braccio quella che definisce “la sua piccola guerriera” accanto al marito Jonathan. Oggi Louise ha 6 mesi e gode di ottima salute, gioca felice con i fratelli, il padre e quella madre che tanto l'ha voluta ed ha lottato duramente per darle la luce. Ana Beatriz oggi si ritrae sui social dal parrucchiere promettendo che sarà l'ultima volta in cui rade i capelli, sperando di poter rivedere presto la sua folta chioma bionda scomparsa ormai un anno fa. “Ho avuto il cancro – ha efficacemente sentenziato la ragazza brasiliana in un'intervista ad Aci Digital – ma lui non ha mai avuto me
. Mentre lei, ora, ha Louise ed una famiglia felice.


di Nico Spuntoni

18 agosto 2018

FONTE: In Terris

lunedì 1 marzo 2021

La maestra Daniela Bertini in bicicletta porta le storie a casa dei bambini in quarantena per il Covid per farli sorridere.

L’idea di una maestra-attrice di San Giuliano Terme (Pisa), che raggiunge le case dei bambini in quarantena per Covid e racconta loro storie, tenendosi a distanza dei bambini, che ascoltano dal giardino, dal balcone o dalla finestra

Daniela Bertini arriva su una coloratissima bicicletta dai bambini costretti a stare a casa in quarantena e li rallegra tenendo loro compagnia leggendo storie dai tanti libri che porta sul carrello dietro la bicicletta. La fantasia come vaccino per il coronavirus ha solleticato la mente della maestra, che racconta come le è venuta l’idea del progetto “La Bici delle storie….. a domicilio”. L’idea le è venuta in mente quando un suo alunno ha dovuto passare tre settimane isolato in casa, poiché il papà era risultato positivo al coronavirus e quando la maestra è passata a portargli i compiti, è stata accolta con una vera atmosfera di festa, visto che il bambino non aveva contatti con nessuno da settimane. La maestra ha così capito che, con la sua passione per il teatro e la letteratura ad alta voce, poteva portare un sorriso e sorprendere quei bambini che, come il suo alunno, non potevano uscire di casa. Così con il suo progetto di volontariato “La Bici delle storie” del 2005, si è riadattata alla necessità del Covid ed è diventato “ La Bici delle storie….. a domicilio” e già nelle prime settimane ha visitato e portato un sorriso a 10 bambini, ovviamente a distanza di sicurezza e con tutte le precauzioni sanitarie. Improvvisamente si sente del rumore dalle strade intorno a Pisa, e si vede arrivare una bici coloratissima con agganciato un carrello altrettanto vivace e colorato, pieno di libri e burattini, guidata da un’animatrice d’eccezione vestita in colori sgargianti e con tanta voglia di fare del bene. La maestra, si ferma davanti alle case in versione di cantastorie, e i bambini, a seconda degli spazi a disposizione, escono in giardino oppure ascoltano affacciati al balcone, alla finestra di casa.

Daniela Bertini è maestra di una scuola primaria in provincia di Pisa, ma è anche attrice: ha fondato l’associazione teatrale “Il Gabbiano”. Ma vista l’emergenza sanitaria che ha coinvolto anche i bambini, per far dimenticare l’atmosfera tesa che stiamo tutti vivendo in questi mesi, si è chiesto, perché togliere ai bambini il diritto e la libertà di poter sorridere e sognare? L’associazione “Il Gabbiano” e la “Bici delle storie….. a domicilio” sono pronte ad accogliere le richieste e pedalare in tutta la provincia, per portare un sorriso e momenti di leggerezza e gioia alle bambine e ai bambini costretti a stare in casa! Il servizio è gratuito.


di Orlando Abiuso

3 gennaio 2021

FONTE: co-worker