venerdì 29 giugno 2018

Un pomeriggio a tu per tu con Rita Coruzzi


All’età di trent'anni aver scritto tredici libri, non è cosa da tutti. Ma lei è una scrittrice speciale, anzi è una persona speciale. Si chiama Rita Coruzzi, emiliana di Reggio Emilia, classe 1986.
Rita è nata alla trentaquattresima settimana di gestazione ed ha avuto da subito gravi problemi di salute: le manca l’acetabolo, un osso che consente all’anca di rimanere al suo posto. Una operazione chirurgica che doveva risolvere la sua situazione invece, gliel'ha complicata definitivamente. Rita ora è tetraplegica e vive su una sedia a rotelle.
Ho letto la sua ultima fatica letteraria “L’eretica di Dio”, edito da Piemme, un libro che racconta la storia di Giovanna d’Arco. Non sono affatto amante di libri storici, ma il volume di Rita mi ha affascinato. Rita è una persona affabile, colta, di grande umanità, ma soprattutto “convincente”. Quando ha saputo che ero di passaggio a Reggio Emilia, mi ha fatto promettere di andarla a trovare, cosa che ho fatto. Un pomeriggio a parlare dei suoi libri, della sua Fede, della sua vita, delle sue aspettative e delle sue sofferenze, da quell’incontro è nata questa intervista.

Rita racconta la tua storia. La tua adolescenza è piena di episodi dolorosi, che ti hanno segnato profondamente. Sofferenze e delusioni però, che ti hanno portata ad amare la vita, in maniera ancora più profonda.

Non è facile raccontare in poche parole, chi sono. Lo hai visto, mi piace parlare, rischierei di non finire più! Vedrò di sintetizzare. Potrei iniziare narrando le gioie, i dolori, i desideri realizzati, i rimpianti, i sogni. Potrei dire che sono una ragazza come tante altre della mia età, ma non è così. Racconterò la mia storia dall’inizio. Era una giornata piovosa, quella del 2 giugno del 1986, quando volli nascere a tutti i costi, anche se era ancora troppo presto per farlo. Mia madre era ricoverata da tre giorni in ospedale, dove i medici cercavano di fermare le contrazioni. Già ti ho detto, che io ho sempre fretta a fare le cose, anche per nascere ho avuto fretta, cosi alla trentaquattresima settimana, ho deciso di venire al mondo. Io ho sempre fretta di fare tutto e subito, è la mia caratteristica.

La nascita prematura è stata la causa di molti tuoi problemi di salute. Un calvario lento e inesorabile che ti ha portato a dover vivere su una sedia a rotella.

Appena nata ho avuto subito diversi problemi, accresciuti in seguito alla lussazione all’anca, dovuta a mancanza dell’acetabolo. Non riuscivo a camminare come tutti gli altri bambini, non riuscivo a stare in piedi. Le mie gambe non ne volevano sapere di sostenermi, il mio corpo era debole e fragile. La mia mamma non si è mai arresa e ha insegnato anche a me, a non arrendermi mai. Ho fatto per anni fisioterapia, con sforzi e sacrifici enormi, per una bambina di quell’età. Il dolore e la stanchezza, per i lunghi esercizi fisici, mi portavano spesso a piangere. Però continuavo a lottare, non mi davo per vinta. Questo ha fortificato il mio carattere, anche se mi ha tolto forse, parte della mia infanzia. Mi ha tolto l’infanzia con le sue spensieratezze. Nel tempo ho subito alcuni interventi chirurgici, ma il primo è stato fallimentare ed ha aggravato definitivamente la mia situazione già precaria. Da allora sono costretta ad usare la sedia a rotelle.

L’insuccesso dell’intervento chirurgico, non solo ti ha portato a grosse delusioni, anche la tua Fede ne ha risentito profondamente. Il tuo rapporto con Dio si era deteriorato, puoi raccontarci qualcosa in merito.

Avere dieci anni ed essere costretta su una sedia a rotelle, ti porta a farti delle domande serie e ad avere scatti di rabbia, anche con Dio. La prima operazione non solo non è servita a nulla, ma ha addirittura peggiorato la mia già precaria situazione. All’inizio credevo fosse solo una situazione temporanea, almeno lo speravo, invece sono stata costretta a vivere sulla sedia a rotelle. Anni e anni di fisioterapia sono stati vanificati da una semplice operazione. Il risultato è stato quello di provocare una mia ribellione. Ero arrabbiata con tutti: con gli uomini e con Dio. Io mi ero sempre fidata di Dio e non riuscivo ad accettare questa situazione. Allora gli ho detto: “Ma come hai potuto permettere tutto questo!”


Eri in profonda crisi, delusa dagli uomini e soprattutto da Dio. Ma la tua caparbietà e quel “non arrendersi mai”, che ti aveva insegnato la tua mamma, ti hanno aiutato a continuare e finire gli studi.

Mi sono iscritta al liceo classico, una scuola certo non facile, che impegna molto. In molti credevano che una persona con disabilità non potesse farcela. Sono stata la prima ragazza disabile, in tutta la regione Emilia Romagna, a ottenere la maturità classica. La scuola ha fatto in modo di agevolare la mia condizione di disabilità, cercando di abbattere tutte le barriere architettoniche. Ho incontrato dei professori bravi, veramente preparati nelle loro materie. Ho scelto il liceo classico, perché mi piacevano le lingue antiche, il latino e il greco. E poi desideravo fare la stessa scuola di mia madre. Successivamente mi sono iscritta all’università di Parma, dove ho conseguito prima, la laurea triennale in lettere e poi mi sono specializzata in giornalismo.

La tua profonda crisi di Fede, che ti aveva allontanata da Dio, poi è stata superata grazie a delle persone che hai incontrato sulla tua strada. Persone che ti hanno aiutato a prendere in mano la tua vita spirituale. Raccontaci cosa è accaduto.

Avevo smesso di pregare, di andare a Messa e di accostarmi ai Sacramenti. Continuavo però a frequentare l’ora di religione a scuola. Sono sprofondata in quella che definisco “la non-vita”. Non avevo più voglia di alzarmi al mattino. Prima dell’operazione, uno scopo ce l’aveva l’alzarsi dal letto, era quello di imparare a camminare, ora invece non ne avevo più alcun motivo. Il continuare a frequentare l’ora di religione è stata la mia salvezza, perché mi ha permesso di incontrare un sacerdote speciale. Le sue domande, i suoi stimoli a farmi reagire mi hanno dato nuovamente la speranza. Spesso mi diceva:
Da quand’è Rita, che non guardi in faccia una persona?” per stimolarmi a relazionarmi con gli altri. Poi decisiva è stata la sua proposta di andare a Lourdes.

Lourdes ha avuto ruolo chiave nella tua conversione. Non solo sei andata quella volta prima volta, su invito del professore di religione, poi sei diventata anche un’attiva collaboratrice dell’UNITALSI.

Il mio primo pellegrinaggio a Lourdes mi ha guarita non fisicamente ma spiritualmente. Ed è stata la cosa più importante, perché se non hai la pace dentro di te, se non accetti la tua condizione, non potrai mai essere felice. La prima volta in verità cercavo e chiedevo la guarigione fisica, anche se, avevo messo in conto l’eventualità che poteva non avvenire, come infatti è stato. Alla grotta di Massabielle ho detto alla Madonna: “Ora, io sono qui da te. Mi spieghi perché tutto questo? Tu che sei Madre, non puoi non rispondere ad una tua figlia che ti pone domande, che t’invoca. Aiutami. Quali sono i piani che Gesù ha per me?”. La sua risposta l’ho percepita nel mio cuore, non l’ho udita con le mie orecchie, non sono una veggente! Mi ha detto: “Ne hai fatto passare di tempo prima di venire qui da me! Ora però, sei da me. Hai chiesto delle risposte che ora ti consegno. Testimonia e converti. Testimonia quanto è bella la vita, anche nella sofferenza, se vissuta accanto a Cristo». Io avevo dei dubbi e le chiedevo cosa dovevo testimoniare, anche perché a convertire sono chiamati i preti. Ho sentito la sua risposta nel mio cuore:
Io non ti sto chiedendo di convertire alla fede, ma all’accettazione della sofferenza quotidiana”.

Mi sembra che ha dato pieno ascolto alla Madonna! Hai scritto dei libri bellissimi, che raccontano la tua storia, inoltre vai in giro per l’Italia a portare la tua testimonianza di Fede. Stai facendo quello che ti aveva chiesto Maria. Parlaci dei tuoi libri.

Il libro:
Camminare o vivere” è uscito nel 2011. È una sorta di diario, in realtà è la mia autobiografia. L’ho scritto per portare la mia testimonianza di Fede. Parlo del cammino che ho fatto, per riuscire a superare i momenti più difficili, anche grazie al Signore. Poi il libro “Il miracolo quotidiano”, dove cerco di spiegare ciò che accade ogni giorno a Lourdes. Davanti alla grotta gli uomini sono tutti uguali, malati o sani che siano. Sono figli, riuniti davanti alla Madonna, figli dello stesso Dio padre. Lourdes é un vero angolo di paradiso, dove il miracolo non equivale necessariamente alla guarigione fisica, ma molto spesso prende il nome di conversione del cuore.

Non solo gli unici libri che hai scritto. Mi piace ricordare “Un volo di farfalla”, che è il secondo volume che ha la prefazione del card. Ruini, dove racconti la tua storia. Dove scrivi che Dio ha dei progetti su di te, sulla carrozzina. Dove racconti come hai ritrovato la vita, ma soprattutto come hai ritrovato la Fede. E questi non sono i soli libri che hai scritto, parlaci degli altri.

Ho anche scritto: “Il mio amico Karol” dove racconto dell'incontro con San Giovanni Paolo II. Lui era già molto malato e io sulla sedia a rotelle. È stato un abbraccio tra persone nella sofferenza fisica. Con Giovanni Paolo II ho avuto un intenso scambio epistolare e da queste lettere che è scaturito il libro su di lui. Ho avuto la fortuna di aver conosciuto ben tre papi. A Papa Francesco ho regalato il libro “Un volo di farfalla”. Ho parlato di sofferenze, anche nel libro che ho scritto con Magdi Cristiano Allam: “Grazie alla vita”. Un volume dove raccontiamo storie di sofferenze e di coraggio, di quel coraggio per continuare a vivere, nonostante tutto. Raccontiamo di Debora, che decide di ritardare le terapie, che potrebbero uccidere la vita che porta in grembo. Di Tatiana, che è in piedi su un ponte, decisa a farla finita e viene trattenuta da una forza misteriosa che le ridona la voglia di vivere. Tante storie di persone comuni.


Quelli citati sono tutti libri che parlano di sofferenze ed anche di speranze. Però voglio ricordare anche un libro molto particolare:
Distanze ravvicinate”. Un testo scritto con Enrico Saletnich, un quarantenne professionista romano. Dove parlate di tutto: dalla politica alla religione, dall’economia, alla musica e al costume. Due diverse generazioni che si incontrano e si confrontano. Sei una scrittrice poliedrica, tredici libri scritti per importanti case editrici, come la Piemme, la San Paolo. Ora pero raccontaci del tuo ultimo libro e della passione per i libri storici.

Con Piemme ho pubblicato due romanzi storici. Il primo è stato “Matilde” nel quale parlo di Matilde di Canossa, con il quale ho vinto il Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti, il Premio Internazionale Stefano Zangheri e il premio della critica al concorso Internazionale Città di Cattolica. Il romanzo narra della vita e le vicende della contessa Matilde di Canossa, vissuta nell’epoca turbolenta delle lotte per l’investitura. Matilde spese tutta la sua vita e le sue energie nell’opera di mediatrice tra papato e impero. Una tenace opera di mediazione che portò al famoso incontro dei due contendenti a Canossa nel gennaio 1077, quando Enrico IV offrì il pentimento al Papa e Gregorio VII lo perdonò. Fu una donna molto sensibile e nello stesso tempo forte e coraggiosa, fu una grande protagonista del suo tempo e un grande esempio di fede. Bisogna ricordare che è l’unica donna sepolta nella Basilica di S. Pietro a Roma. Il secondo è “L’eretica di Dio”, la storia di Giovanna d’Arco. La Pulzella di Orleans è una donna che mi ha sempre affascinata. Giovanna d’Arco, è guerriera, eretica e Santa. Da giovanissima ha delle visioni, comincia a sentire la voce di Dio, che la spinge alla preghiera, alla devozione, al sacrificio del corpo. Poi la voce la spinge a un’impresa impossibile, salvare il regno di Francia, afflitto da decenni di guerra contro gli inglesi. Alla fine è condannata come eretica, il suo corpo dato alle fiamme, i suoi resti gettati nella Senna. La Chiesa solo dopo secoli, la proclamerà Santa. È una grande eroina della fede cristiana, che in diciannove anni ha cambiato la storia di Francia e non solo. È un romanzo storico, fedele alla realtà, però mi sono presa delle libertà. Ho voluto rendere la figura di Giovanna più umana. Per questo motivo le ho fatto provare dei sentimenti per il duca di Alencon, da lui ricambiati. Una libera scelta, che non è storicamente provata ma, ho voluto dare una pennellata poetica alla sua storia.


Non ti ho ancora chiesto come sei arrivata a scrivere libri. Come mai ti sei avvicinata alla professione di scrittrice, in particolare di libri storici?

La passione di scrivere l’ho avuta fin da bambina, dettavo a mia nonna delle storie. Poi con il tempo, ho scoperto che scrivere per me era terapeutico. Quando scrivo, mi dimentico di essere su una carrozzina. Ora per me scrivere è un mestiere a tutti gli effetti. Mi piace scrivere storie di amore, di fede e di speranza. Soprattutto mi piace scrivere di donne. Di donne che sono state esempio di fede, di coraggio, donne determinate a portare avanti le loro idee. Ho già in mente la prossima figura femminile, della quale scriverò la vita. Ma è un segreto e non posso rivelarlo!


So che la figura di tua madre è stata fondamentale nella tua vita. È stata la persona che ti ha spinto ad andare avanti, ad affrontare con forza ogni difficoltà. È lei che scrive materialmente le tue storie, tu le detti e lei le scrive. Lei è la tua “amanuense” personale. Hai una gran fortuna ad avere una mamma così. Sei una scrittrice di talento, credo che se è difficile scrivere libri, ancora di più è farlo dettando le storie. Un’ultima domanda. Mi hai detto che arrivata a questo punto della tua vita non desideri più guarire. Perché?

Io sono seduta sulle ginocchia di Gesù e da li non voglio scendere. Ho capito che dalla carrozzina debbo compiere la mia missione. Preferisco stare in braccio a Gesù, compiendo la Sua volontà. Preferisco vivere che camminare! Dove c’è Gesù c’è la croce è vero, ma c’è anche amore, speranza e Vita Eterna.

Una gran bella testimonianza la tua Rita! Auguri per la tua carriera di scrittrice. Sicuramente farai molta strada.

di Roberto Lauri

7 settembre 2017

FONTE: Lacrocequotidiano.it


Ho sempre apprezzato molto Rita Coruzzi, questa ragazza disabile ricolma di Fede, di coraggio e di voglia di vivere, che ho avuto modo di conoscere attraverso alcune sue testimonianze in programmi televisivi. Volevo quindi postare qualcosa su di lei tra le pagine di questo blog, e questa bella intervista mi è sembrata perfetta allo scopo. Del resto la sua storia è veramente bella, ricolma di significati, e la sua testimonianza meravigliosa sotto tanti aspetti, sopratutto per la sua Fede in Dio e per l'accettazione della propria disabilità e sofferenza quotidiana, proprio come la Madonna le aveva chiesto.
Grazie cara Rita per il tuo esempio, per la tua testimonianza, per tutto! Tanta strada l'hai già percorsa, e molto proficuamente anche, ma molta altra, a Dio piacendo, ne avrai ancora da fare. E sono sicuro che, come hai fatto fino ad ora, continuerai a percorrerla con la verve, la tenacia, la simpatia, la Fede e l'Amore che da sempre ti contraddistinguono.

Marco

venerdì 22 giugno 2018

Daniela Vitolo, affetta da MCS, racconta la sua Conversione religiosa


Della storia di Daniela Vitolo si è raccontato molto, su media nazionali e locali. A pochi è rimasto sconosciuto l'appello della giovanissima pittrice di Angri che contrasse la MCS. Ora a Salernotoday.it ha raccontato la sua evoluzione interiore

Della storia di Daniela Vitolo si è raccontato molto, su media nazionali e locali. A pochi è rimasto sconosciuto l'appello della giovanissima pittrice originaria di Angri che nel 2009, venendo accidentalmente in contatto con un agente chimico presente in un laboratorio artistico, contrasse la Sensibilità Chimica Multipla (MCS), malattia che la costringe da allora a trascorrere l'estate ad Acerno e l'inverno chiusa in casa. In tanti hanno seguito la vicenda della giovane che, a causa di svariate allergie arrivò a pesare appena 29 kg. Sì perchè Daniela, come è stato reso già noto, ha pesanti reazioni allergiche verso quasi tutto e tutti: può nutrirsi di pochissimi alimenti, come il riso e il miglio e può bastare un odore a causarle gravi conseguenze.

Molti di meno, però, conoscono l'evoluzione interiore della ragazza, attualmente 31enne, e la sua conversione di fede che la rende esempio di vita virtuoso agli occhi di chiunque abbia la fortuna di ascoltare la sua testimonianza. Entusiasta e portatrice di buon umore, Daniela vive nell'agriturismo San Leo di Acerno, luogo ameno ed accogliente curato dalla signora Anna che, mostrando il suo buon cuore, ha cambiato ogni abitudine di vita per rendere quel posto adatto alle esigenze sanitarie di Daniela che, ormai, è considerata una persona di famiglia. "Avrei piacere a raccontare della mia conversione, più che ricordare ancora i problemi che mi ha causato la Sensibilità Chimica Multipla", ha detto la ragazza prima di concedere l'intervista a Salernotoday.it, con un sorriso ed una dolcezza disarmanti.

Daniela raccontaci chi eri prima della malattia...

Prima dell'incidente, ero un'altra persona: badavo molto all'esteriorità, non credevo in Dio, ma anzi criticavo chi andava in chiesa e i sacerdoti in genere. Mi sentivo realizzata professionalmente: dopo gli studi all'Accademia delle Belle Arti, mi iniziarono a commissionare molti ritratti e in seguito con la pubblicazione di una mia opera su una rivista nota, fui contattata da vari galleristi per mostre ed eventi. Sognavo di sposarmi e affermarmi con la mia carriera, ero autonoma al 100%.


Poi cosa è successo?

Quando per via della MCS fui costretta a rinunciare a tutto questo, iniziai a vivere un incubo. Distrazioni come fare shopping o concedersi una messa in piega non erano più alla mia portata, dal momento che non potevo neppure più entrare in contatto con le persone. Sentivo di rado i miei amici: solo per telefono e per brevi conversazioni, ma a nulla mi portavano in quanto anche loro non erano pronti ad affrontare questa malattia e dall'altro lato della cornetta spesso c'era il vuoto. Contemporaneamente, finì la storia che durava da 9 anni con il mio fidanzato e continuavano a contattarmi galleristi per offrirmi opportunità che non ero più in grado di cogliere per le mie condizioni di salute.

Ti sentivi sola?

Mi sentivo sola e perduta al punto che arrivai a sperare, ogni sera, prima di addormentarmi, di non aprire più gli occhi il giorno dopo.

In molti pregavano per te in quel periodo, questo ti consolava in qualche modo?

No, pensavo: hanno perso tempo. Nessuno riusciva a restituirmi la speranza, finchè una conoscente mi raccontò della malattia di suo marito e di come, dopo aver lasciato una piccolissima foto sulla montagna di Medjugorje per chiedere la guarigione alla Madonna, tornò a casa con una gioia mai provata. Quel racconto mi colpì: quella stessa signora in seguito andò a Lourdes e mi mostrò la foto della Grotta e la candela che aveva acceso per me: mi diede una boccetta di acqua benedetta e un rosario, invitandomi a recitarlo. Ero molto combattuta perchè non sapevo come si recitasse e qualcosa me lo impediva, ma ogni volta che guardavo quella coroncina mi sentivo in colpa in quanto era come se non avessi accettato un invito. Poi stetti di nuovo male: non riuscivo più a mangiare e bere, cademmo nella disperazione completa perchè i medici alzarono le mani. Finchè un'amica propose a mia madre di andare a Medjugorje: inizialmente rifiutò per via delle mie condizioni, ma poi, incoraggiata da mio padre, partì. Provai come una scossa di energia da quando mia madre si mise in viaggio: io che, senza forze, non riuscivo a muovermi, improvvisamente mi alzai dal letto come se qualcuno mi sostenesse. Quando mio padre lo raccontò a mia madre per telefono, lei stentava a crederci.

Come lo spieghi?

Quando hai un aiuto dall'Alto, non hai dubbi, perchè dentro di te lascia una traccia. Da quel momento in poi ebbi diversi incontri spirituali importanti, come quello con don Marco che faceva di tutto per parlarmi, arrivando a sigillare i vestiti che indossava durante le visite, prendendo tutte le precauzioni per vedermi. In seguito ebbi una nuova ricaduta, dopo aver assunto delle vitamine a Lecce: urlavo dal dolore e non potevo dormire, in quanto ero costretta a camminare per due ore di fila per ogni ora di sonno. Sono stata davvero malissimo, come sottoposta a delle torture. Ma una voce dentro di me mi diceva che sarei stata meglio: non desideravo più morire. Un medico di grande fede confessò che la medicina per me non poteva fare più nulla e mi fece conoscere una signora che trascorre gran parte del suo tempo a pregare: con lei sono riuscita a recitare il rosario. Ricordo che desiderai tanto l'ostia ma ero intollerante, così quando don Marco finalmente potè darmene un pezzetto consacrato mi disse che avrebbe voluto che i bambini che stavano per ricevere la prima comunione mi vedessero, per comprendere attraverso la mia palese emozione, la grandezza e il valore del Corpo di Cristo.

E adesso come ti senti?

Molto meglio, non ho ancora raggiunto la completezza ma la raggiungerò. Ora mi affido a Dio: ho capito che quello che hai non ti appartiene, ma puoi solo non sciuparlo. Illudersi di poter controllare tutto e accollarsi il peso di ciò che pensiamo di aver creato solo grazie alle nostre forze, ci condanna all'infelicità: io ora mi sento libera. La vera gioia è riuscire a percepire la presenza di Dio: tutto quello che chiedi con la preghiera lo ottieni nella proporzione della fede con cui lo hai chiesto.

Alla luce di tutto quello che hai vissuto finora, hai mai pensato a come saresti oggi senza la malattia?

Sì, mi terrorizza pensare che sarei morta un giorno, pensando solo alle frivolezze, senza aver capito il senso della vita. Senza la presenza di Dio.

Ora non ti senti più sola?

No, posso pregare e ho scoperto che posso fare qualcosa per gli altri. Poi quel che sarà, sarà. So che Lassù qualcuno non mi abbandonerà mai: molti dicono finchè c'è vita, c'è speranza. Io invece dico: finchè c'è Speranza, c'è vita.

di Marilia Parente

29 agosto 2014

FONTE: Salernotoday



Articolo non recentissimo, ma splendido per la storia che racconta!
E parliamo della storia di una Conversione, una Connversione che ha avuto come "principio d'innesco" una subdola e invalidante malattia chiamata Sensibilità Chimica Multipla (MCS). Attraverso questa malattia e attraverso una serie di fatti accaduti (il buon Dio fa sempre le cose fatte per bene!), Daniela ha scoperto quella Fede Cristiana che fino ad allora aveva sempre ignorato e l'ha abbracciata con forza e convinzione, ribaltando completamente il suo modo di vedere la vita, passando dalle frivolezze e dalla materialità di un tempo, ad una vita nuova, vissuta ora nella Luce e nell'Amore di Dio.
Tanti Auguri per tutto cara Daniela!

Marco

sabato 16 giugno 2018

Corridoi umanitari: «Questo viaggio per noi vale una vita»


Siamo andati in Etiopia a seguire i 113 rifugiati del corridoio umanitario organizzato da Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Gandhi Charity. Chi sono questi profughi? Eritrei, sudsudanesi, somali. Scappati dalla guerra e dall’oppressione. Alle spalle storie di violenza e privazioni. il futuro? Parla italiano.

Ghennet cammina un po’ curva sotto il borsone che tiene sulla testa. Le poche cose che possiede sono tutte là dentro. Il resto è la sua Africa, quella che si porta nel cuore e nei ricordi. Quella bella dell’infanzia e quella terribile della fuga, dei campi profughi, della fame, delle violenze, della paura. Arriva all’hotel Ghion di Addis Abeba, che fa da punto di ritrovo. Stasera Ghennet (nome di fantasia, come tutti gli eritrei citati, le cui famiglie potrebbero subire ritorsioni), insieme a tutto il gruppo – 113 rifugiati più gli operatori – si sposterà all’aeroporto: le pratiche finali, il volo notturno, l’arrivo, domattina alle 4.30 a Fiumicino. L’Italia. Piena di una neve prima mai vista e di un freddo mai provato. Troverà i volti sorridenti della parrocchia che l’accoglierà. Come lei arrivano tutti, alla spicciolata. Una sessantina provenienti dai campi profughi del Nord, popolati di eritrei, e dell’Ovest, al confine con il Sud Sudan in guerra civile. Una mamma con due bambini disabili viene anche dall’altro infinito con­itto del Corno d’Africa, quello somalo. Gli altri vivevano già ad Addis Abeba, con lo status di rifugiati.

Sfila Tesfay, tenendo per mano il figlio di 7 anni. Porta con sé una valigia e dieci anni da soldato, la fuga dall’Eritrea nel 2003 verso l’Egitto, l’anno di carcere nelle sue prigioni, gli ultimi dieci anni da rifugiato in Etiopia. Vorrebbe liberarsi dei terribili ricordi del Sinai. «Preferisco non parlarne», dice. Passa Abraham, aspirante sacerdote copto, imprigionato e torturato all’Asmara per aver rifiutato di arruolarsi nella leva obbligatoria, e senza data di congedo, nell’esercito eritreo. «Come ho fatto a resistere? La guida è stata questa», dice, sollevando la grande croce che porta in petto. Arriva a passo lento Nebyat con i due bambini, Shewit e Teame, uno per parte. Lei non è scappata solo dalla dittatura dell’Asmara, ma anche da un marito soldato che la picchiava. A due passi dalla piscina vociante dei bambini ospiti dell’albergo compare il gruppo dei sudsudanesi, due sole grandi famiglie di 10 e 12 membri. Loro sono rifugiati da oltre vent’anni. La guerra civile che ora insanguina il loro Paese non l’hanno nemmeno conosciuta. Sono scappati durante il confl­itto precedente, quando la gente del Sud voleva liberarsi dall’oppressione del regime di Khartoum. «Venire in Italia per noi è la salvezza», dice una di loro, Sara. «Nel campo profughi dov’eravamo si replicavano le tensioni etniche che stanno distruggendo il nostro Paese. Subivamo violenze continue». Nyhal, giovane membro dell’altra famiglia sudsudanese, apre la valigia: «Vedi, del mio Paese porto con me la bandiera e questi bracciali tipici della nostra tradizione. Nient’altro».

Questo volo porterà a Fiumicino e poi in 18 diverse diocesi italiane il gruppo di profughi. Tutte situazioni di vulnerabilità, non solo perché in fuga dalla guerra o da un regime oppressivo, ma anche perché si tratta di famiglie nelle quali un figlio ha bisogno di cure, o è disabile, o ancora donne sole con bambini (talvolta frutto di violenza), oppure giovani che sono passati per l’inferno delle prigioni eritree o i sequestri delle bande di beduini del Sinai. «Mi hanno liberato perché la famiglia e gli amici hanno messo insieme 30 mila dollari», spiega Isaias, «altrimenti mi avrebbero reciso le dita una alla volta. Quando vedono che uno non ce la fa o la famiglia non paga gli prelevano gli organi. Questo, noi sequestrati, lo sapevamo tutti».

È il secondo corridoio umanitario dall’Etiopia. Il primo ha condotto in Italia 25 profughi, ne giungeranno altri 362, per un totale di 500,
con le missioni programmate a giugno e in autunno del 2018. Questo è il progetto di Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e l’Ong Gandhi di Alganesc Fessaha. Un modello di corridoio umanitario senza precedenti, perché non prevede solo il “viaggio sicuro”, ma anche un lungo lavoro preparatorio di individuazione delle persone da portare in Italia, diversi colloqui con ciascuno dei profughi, la collaborazione con l’Unhcr, con l’ente di protezione dei profughi etiope (Arra), con l’Ambasciata italiana di Addis Abeba per le procedure di identificazione e di visto. Non solo. Ogni rifugiato o nucleo familiare sa già in quale parrocchia e famiglia italiana verrà accolto. Finora sono venti le diocesi che hanno dato disponibilità, alla fine del progetto saranno una settantina. Dopo l’arrivo in Italia, si prospetta un lavoro altrettanto intenso, di accoglienza e integrazione: apprendimento della lingua, ricerca del lavoro, l’autonomia entro un anno (ma l’inserimento nel nostro Paese sarà monitorato per cinque anni).

«Una grande gioia, ma anche mille paure. Questo viaggio per me e mio figlio è l’inizio di una nuova vita», dice Ezgharya, scappata dalla famigerata caserma eritrea di Sawa quand’era sotto leva. Intercettata e arrestata, e fuggita una seconda volta dopo il reintegro nell’esercito. La lunga fuga – sei anni nei campi profughi – le lascia la ferita di un marito che l’ha abbandonata e un bambino di 5 anni. «Potrò farlo studiare», spiega, «anche se so che l’Italia è una sfida difficile, ma da vincere».

«Vuoi sapere se avrei tentato la sorte della traversata del deserto e del mare? Sì, se non avessi avuto questa occasione l’avrei fatto», aggiunge. «Sì, anche sapendo che forse saremmo morti o temendo di finire nelle carceri libiche. I campi profughi ti annullano il futuro. Quando non hai più niente da sperare tanto vale tentare il tutto per tutto. Meglio rischiare la vita che vivere una non vita in una tenda dove a malapena riesci a bere e a sfamarti».

Nella notte il volo. In pochi minuti regna il silenzio, grandi e piccoli sono sopraffatti dalla stanchezza. Qualcuno non dorme, dagli oblò guarda sotto, il Sahara, poi il Mediterraneo. Noi li sorvoliamo. Laggiù, migliaia di altri profughi giocano la loro scommessa con la vita e la morte.


CORRIDOI UMANITARI, IL MODELLO ITALIANO

“Protetto. Rifugiato a casa mia”. Così Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Ong Gandhi hanno denominato il progetto dei corridoi umanitari dall’Etiopia. Un lavoro iniziato a fine 2017 e che terminerà – per la fase dei trasferimenti – nel prossimo autunno.
«Abbiamo iniziato con i rifugiati siriani nel 2015», spiega Giancarlo Penza, che con Cecilia Pani coordina per la Comunità di Sant’Egidio questo progetto. «Ma l’esperienza maturata ci ha spinto a elaborare ulteriormente il modello di corridoio umanitario, la cui vera novità è il coinvolgimento della società civile ed ecclesiale. Perciò l’apporto da un lato della Ong Gandhi (la cui fondatrice, Alganesc Fessaha, da 18 anni lavora nei campi profughi etiopici, ndr) che ha curato l’individuazione dei rifugiati, e dall’altro di Caritas che ha trovato le realtà ospitanti e ha messo in collegamento i profughi con chi li ospiterà, ne fa oggi il modello più avanzato di integrazione». Si tratta di 500 persone. Poche, se pensiamo che la sola Etiopia, Paese poverissimo, accoglie 900 mila rifugiati. «Ma se il modello fosse adottato dagli Stati», aggiunge Penza, «i numeri sarebbero ben diversi».

L’apporto delle diocesi e delle famiglie è determinante: «Ogni rifugiato avrà un tutor che gli starà accanto», sottolinea Daniele Albanese, responsabile con Oliviero Forti del progetto per Caritas italiana. «Inoltre, la mobilitazione dei volontari consente un notevole contenimento dei costi: 15 euro al giorno per persona, nell’anno in cui i profughi sono in carico a noi. Dopo il quale dovranno raggiungere l’autonomia». «La formazione e la preparazione della comunità che dà ospitalità è fondamentale», insiste Albanese. «La gente sa poco o nulla di quanto avviene in Eritrea o in Sud Sudan. Chi accoglie conosce i contesti da cui provengono i rifugiati, e loro sanno dove andranno. In molti casi hanno già ricevuto un video dalla famiglia italiana che li accoglierà». La gran parte dei 113 rifugiati di questo corridoio umanitario erano già seguiti da tempo da Alganesc Fessaha, la fondatrice della Ong Gandhi Charity: «Sono famiglie dove manca un genitore», dice, «o con bambini malati e disabili. Alcuni sono coloro che ho liberato dalle carceri egiziane o dalle mani dei sequestratori nel Sinai».

A ricevere a Fiumicino il gruppo ci sono mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, Mario Giro, viceministro degli Esteri, Marco Impagliazzo, presidente della Sant’Egidio. Tutti e tre hanno sottolineato che questa è la risposta al dramma delle morti nel deserto o in mare. Ma è anche la via maestra per una vera integrazione. «Esiste l’alternativa allo sciacallaggio economico e politico, anzi pseudopolitico», ha concluso Galantino, «ed è la bella lezione che viene dai corridoi umanitari». Una lezione che, dall’Etiopia, anche l’arcivescovo di Addis Abeba, cardinale Berhaneyesus Souraphiel, invita a seguire: «Tutti i Paesi europei», ci ha detto, «dovrebbero fare come l’Italia».

di Luciano Scarlettari

FONTE: Famiglia Cristiana N. 10
11 marzo 2018


Quando sentiamo parlare di profughi provenienti dall'Africa o da altre parti del mondo, in cerca di ospitalità qui in Italia o, in generale, in Europa, dovremmo capire bene di cosa stiamo parlando. Credo che questo articolo renda bene l'idea del DRAMMA che queste persone vivono nel loro paese, un dramma così grande che li "costringe" a scappare e a cercare disperatamente ospitalità altrove a rischio concreto della propria stessa vita. E questo perchè nel proprio paese non c'è futuro e speranza, a causa della guerra, dell'anarchia e della violenza! Non si emigra dal proprio paese di appartenenza, a rischio stesso e consapevole della propria vita, se non c'è dietro una ragione veramente, ma veramente valida!
Quella dei "corridoi umanitari" è certamente la strada migliore da seguire per poter ospitare questi profughi, una strada che assicura loro una sistemazione, una protezione e anche un futuro. Ciò nondimeno non credo sia ipotizzabile pensare che, attraverso i corridori umanitari, si possa ospitare per intero l'enorme mole di profughi proveniente dal continente africano o da altre zone della terra martoriate dalla guerra e dalla violenza. E' chiaro che il primo e più importante obiettivo dev'essere quello di portare la Pace laddove la Pace ora non c'è, quindi quello di aiutare gli stati più bisognosi a risolvere i propri problemi interni. Non è una cosa semplice naturalmente, tutt'altro.... ma la vera conquista sarebbe proprio questa! E se la Pace, unita ad un sano e pacifico benessere giungesse dov'è ora odio, disordine e violenza, il problema profughi cesserebbe immediatamente di esistere, perchè nessuno più avrebbe motivo di lasciare la propria terra. La speranza di tutti, naturalmente, è che in un futuro, speriamo prossimo, si possa giungere proprio a questo!

Marco

sabato 2 giugno 2018

«Io e i miei 5mila km in bici per mio padre e per battere il glioblastoma»


LA FONDAZIONE GIOVANNI CELEGHIN

Fabio Celeghin per raccogliere fondi contro il tumore al cervello si è inventato un modo del tutto particolare: la "Da Santo a Santo", un tour in bici in sei tappe. Finora ha donato quasi un milione di euro

«Il chirurgo, dopo averlo operato mio padre, ci ha detto: per questo tipo di malattia non c’è cura». La malattia era il glioblastoma multiforme, un tumore al cervello molto aggressivo, e chi parla è Fabio Celeghin. Suo padre Giovanni morirà poco tempo dopo. «Non eravamo e non siamo strutturati per sentirci dire questo. Una persona deve avere almeno qualche possibilità di salvarsi. Quando papà è venuto a mancare mia sorella e io avevamo due scelte da fare: dimenticare il più in fretta possibile o mettere a disposizione di altri l’esperienza che ci eravamo fatti e la voglia di rivincita che avevamo nei confronti di questa patologia. Ha vinto la seconda». Per questo motivo - cioè per finanziare la ricerca e dare ai malati qualche possibilità di cura che aumenti nel tempo - Fabio e sua sorella l’anno dopo danno vita alla Fondazione Giovanni Celeghin. E per raccogliere fondi per la onlus, che poi li destina a progetti specifici, si è inventato un modo del tutto particolare: la "Da Santo a Santo", un tour in bici in sei tappe, in cui organizzare eventi, che parte da una città. E ogni città in Italia ha il suo santo patrono. Mille chilometri su e giù per l’Italia, che si ripetono (ma con tappe diverse). In 5 anni la corsa ha raccolto 340mila euro e permesso di fare donazioni agli ospedali di Rimini e di Rieti e finanziato diversi progetti di ricerca a Bologna, Padova, Milano, Roma, Napoli, Pavia e Genova.

«Quest’anno la corsa partirà da Firenze il 4 giugno e toccherà La Spezia, Neive (Cuneo), Milano, Verona, Asiago (Vicenza) e arriverà come sempre a Padova il 9 giugno. I soldi che raccoglieremo andranno a finanziare il Besta Neuro Sim Center di Milano, centro di formazione di eccellenza per la formazione di giovani neurochirurghi provenienti da tutta Europa. Con la raccolta di quest’anno dovremmo arrivare un milione di euro di finanziamenti. La bici non è un caso: il padre, oltre che essere un imprenditore (oggi il gruppo della distribuzione organizzata da lui fondato, "Dmo", conta circa 2.000 dipendenti) era un grande appassionato di ciclismo, a cui dedicava buona parte del suo tempo libero». «Raramente ho conosciuto una persona che riesca a fare così tanto per gli altri anche dopo la sua morte, non smetterò mai di ringraziare mio padre per i valori che ci ha insegnato. In tutto quello che ha fatto ha messo anima e cuore e l’ha trasmesso a chi ha avuto modo di incontrarlo, di lavorarci, di vivere con lui. Di poche parole, la sua stretta di mano valeva più di mille contratti. Credeva nella beneficenza e nella ricerca, per questo ha donato molto, spesso senza renderlo noto».

Fabio non è solo. Con lui viaggia un gruppo storico di amici instancabili, che sfidano ogni tipo di meteo. «C’è chi guida il furgone, chi segue la mappa, chi prepara da mangiare, il fotografo. I miei vecchi amici hanno aderito con entusiasmo. Con la corsa di quest’anno dovremmo raggiungere il milione di euro raccolti. Mia sorella non pedala, ma si occupa a tempo pieno della fondazione, che è gestita in modo professionale come un’azienda: ci siamo resi conto che per farla funzionare davvero è un lavoro continuo di 365 giorni all’anno
».

di Fausta Chiesa

20 maggio 2018

FONTE: Corriere.it