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martedì 26 settembre 2023

Fratel Biagio e Padre Pio


Fratel Biagio Conte ci racconta qual'è il suo rapporto con Padre Pio e come lo ha conosciuto.

Fratel Biagio: “ Il momento in cui ho conosciuto Padre Pio, ve lo devo dire, non l'ho conosciuto direttamente, ma in cammino.
Quando me ne andai via di casa, che ho lasciato tutto, nel 1990 a 26 anni.... Palermo al mare davanti e dietro le montagne. Da quelle montagne ho vissuto un periodo di eremitaggio all'interno della Sicilia, quasi un anno isolato da questo mondo che mi aveva ferito, deluso, la società, egoistica e indifferente.
A piedi poi... il buon Dio mi accompagna fino ad Assisi da San Francesco. Perché prima inseguivo le cose del mondo... ero fan dei giocatori, cantanti, attori... ero nella moda. Ma da quel momento la mia vita ha un cambiamento... seguo invece... divento fan di Gesù, di Maria, di San Giuseppe, di tutti i Santi e le Sante di Dio.
Padre Pio lo incontro grazie a un frate cappuccino nella zona della Campania. Mentre mi avviavo per Assisi a piedi, incontro un frate che veniva dall'Africa, da una missione dell'Africa. Lui mi parla di Padre Pio e mi da un immaginetta di Padre Pio. Io ne avevo sentito parlare ma mai avevo avuto un diretto.... e lui mi disse: “Tieni questa preghiera di Padre Pio”. E da allora Padre Pio mi accompagna, mi ha accompagnato ad Assisi ed il ritorno. Poi qui, io non volevo più tornare a Palermo, in Italia.... volevo andare in Africa, in India. Ma il buon Dio mi ha detto: “L'Africa è qua, qui c'è tanto da fare. Volevi aiutare, ecco datti da fare!”.
Qui inizia la missione e Padre Pio mi accompagna da allora, anche con i francescani, i cappuccini. Inizia un primo incontro con i cappuccini qui a Palermo, alle catacombe, in quanto loro facevano già un servizio di carità, e andavo a portare i fratelli, che ancora non avevo la struttura, li portavo lì a fare la doccia. Mi davano la biancheria, il mangiare.
Allora ecco che nasce un incontro, un legame. Allora Padre Pio è presente, è qui con noi. E oggi tanti gruppi, come oggi in particolare, siete venuti a dare conforto, sostegno, a noi che operiamo in questa comunità. Con un impegno enorme, delicato, che il Signore ci ha inviato ad alleviare la sofferenza dei più deboli, degli ultimi, dei senzatetto ”.


Fonte: You Tube


venerdì 11 ottobre 2019

Padre Mychal Judge, un francescano tra le vittime dell'11 settembre


Tra i primi ad accorrere dopo il crollo delle Torri Gemelle anche padre Mychal Judge, cappellano dei pompieri di New York: dà l’estrema unzione a un pompiere gravemente ferito. Ed è proprio in quel momento che lui stesso trova la morte

Due torri che cadono, un mondo che crolla. Il segno profondo di un’epoca che cade su se stessa. La polvere che si alza – tutti l’abbiamo bene in mente – diventa, quell’11 settembre di 18 anni fa, metafora di un mondo che non vedremo più, sommerso da detriti e polvere. Roventi lamine di acciaio, confuse con dei corpi che, prima delle 8.50 del mattino, erano padri, madri, figli. Il primo aereo si schianta su una delle torri del World Trade Center. Padre Mychal Judge, frate francescano e cappellano dei pompieri di New York, si lancia a bordo dell'autobotte n. 1 sulla 31esima strada. Deve correre per dare l’estrema unzione a un pompiere gravemente ferito. Ed è proprio in quel momento che lui stesso trova la morte, diventando la vittima n. 0001 (tra i religiosi) della grande tragedia americana che segnerà, per sempre, la Storia mondiale.

Il frate francescano era sempre vicino agli ultimi, agli emarginati della Grande Mela. Si occupava molto dei giovani, dei dipendenti da alcool e droga. Era un servo di Dio che viveva il suo ministero per gli altri. L’11 settembre va ricordato. Sempre. E il comune più antico della Costiera Amalfitana, Scala, ricorda da sedici anni quel tragico evento in cui morirono 2.896 persone con la manifestazione «Scala incontra New York». Un evento commemorativo che sottolinea la sete di pace e armonia presente nel cuore di ogni uomo. L’uomo è stato creato non per la guerra, non per la morte, ma per la Vita, la Pace, e l’Amore. Il cuore dell’uomo è un abisso, uno scandaglio, in cui albeggia sempre – anche nelle notti più buie – il bene. E, continuare ad affermare questo, credo sia importante nei tempi oscuri che stiamo vivendo.

Una distesa di umanità, vittima di una sola parola: «odio», di un «io» che continuamente fugge dalla lotta con sé stesso, incapace di accettare e vincere quell’aura oscura, che è l’unica strada possibile per giungere alla personale consapevolezza. È il male del nostro secolo, ed è per questo motivo che è importante ricordare quella data. «Scala incontra New York» – unico evento italiano, a distanza di anni, a ricordare l’immane tragedia – ha voluto ribadire che è possibile un Mondo diverso. Il Paradiso è possibile costruirlo qui, su questa terra. Se tutti lo vogliamo. L’11 settembre è stato il primo grande tragico evento «in diretta» a cui abbiamo assistito. Fino ad allora, un numero di morti così grande, lo avevamo studiato solo sui libri di scuola. Quel giorno, invece, lo abbiamo vissuto dal vivo, con le telecamere di tutto il mondo, puntate su torri gemelle.

Oggi, siamo spettatori, di un’altra tragedia. E anche questa, ci viene proposta giornalmente da tutti i mass media. Altri numeri. Non c’è nessun aereo, nessun grattacielo, nessuna polvere. Ma solo acqua. E l’acqua non fa rumore. Inghiotte in silenzio. Anno 2014, gli arrivi degli immigrati, sulle nostre coste, sfiorarono quota 300 mila e i morti furono 3538 (dati Unhcr). Anno 2015, i morti, furono 3.771. Il 2016, l’anno più buio, 5.096 furono i morti e poco meno di 400 i cadaveri recuperati. Il 2017 ha visto 3139 dispersi in mare, e i corpi che ci furono restituiti furono solo 210. Ultimo dato, quello del 2018: i morti sono stati 2023. Numeri, anche questi. Tragici, disumani, che lasciano l’amaro in bocca. E lasciano tanto silenzio, tanto sconforto davanti alla disumanità. Proprio come quell’11 settembre di 18 anni fa. Quel giorno si disse: «Siamo tutti americani». Oggi, possiamo e dobbiamo dire: «Siamo tutti uomini sulla stessa barca».

di Padre Enzo Fortunato

11 settembre 2019

FONTE: Corriere.it


Esattamente un mese fa, come ogni 11 settembre di ogni anno, non sono mancate ricorrenze e manifestazioni in ogni parte del globo volte a ricordare quel tragico giorno di 18 anni fa, in cui tutto il mondo ha assistito attonito al più grande atto di terrorismo mai perpetrato prima d'ora. Ed è giusto e sacrosanto che sia così, perchè certe cose devono rimanere vive nella memoria dell'uomo affinchè non abbiano mai più a ripetersi!
Con questo post ho voluto ricordare la meravigliosa figura del frate francescano padre Mychal Judge, cappellano dei pompieri, che perse la vita quello stesso giorno mentre stava compiendo la sua missione di uomo di Dio. Ma volevo ricordare anche tutto l'operato dell'intero corpo dei pompieri dove, in quel tragico giorno, in molti persero la vita nel cercare di salvare quante più vite umane fosse possibile. E non solo in quel giorno ma anche nei giorni, settimane, mesi e anni successivi, a causa dell'inalazione massiccia e tossica delle polveri rilasciate dal tragico crollo dei due grattacieli.
Noi si potrà mai ricordare abbastanza questi uomini coraggiosi così dediti al proprio lavoro, che è una vera e propria missione, non solo in quel giorno, ma sempre, in ogni luogo e in ogni situazione. Onore e merito ad ogni uomo che sceglie nella propria vita di diventare un pompiere, lavoro nobilissimo e rischioso, al servizio del prossimo per il bene di tutta la società. A voi tutti va il mio "Grazie" più sentito e riconoscente.

Marco

domenica 28 gennaio 2018

Frati in treno: Napoli, la stazione dell'Anima


DAL 1976 CINQUE VAGONI SI SONO TRASFORMATI IN CONVENTO. POVERTA', PREGHIERA, ASCOLTO: LI', OGGI, VIVONO OTTO FRANCESCANI.
«ANCHE SE FERMI SIAMO PERENNEMENTE IN VIAGGIO»


Un sediolino di legno, un tavolo e una branda. L'essenziale per pregare e lavorare è racchiuso dentro la cuccetta di un vecchio treno delle Ferrovie dello Stato che dal 1976 è il convento dei Frati minori rinnovati di Napoli. In quei vagoni degli anni '40 la comunità che vive tutt'intorno ha trovato l'interpretazione più autentica dei messaggi di papa Francesco. Nel convento su rotaie vivono otto frati, nessuno di loro ha mai conosciuto il Papa. Eppure nel marzo dell'anno scorso Francesco fu a Scampia, a soli 3 chilometri dai vagoni di via Marfella. «Se ritorna a Napoli lo ospitiamo, non c'è problema. Ma non so se qui riuscirebbe a dormire». Fra Carlo del Divino Amore è il guardiano superiore del convento che si trova nella periferia di Napoli. Cinque vagoni "parcheggiati" ai confini del parco di Capodimonte, in un luogo poco distante da quei quartieri difficili di Napoli dove la povertà ricorda proprio quella "fine del mondo" da cui è venuto papa Francesco.
Un grande cancello marrone consente l'accesso al convento: quattro vagoni che nel '76 sono stati sistemati paralleli a due a due su binari morti grazie all'aiuto di una grande gru. Sono immersi nel verde, d'estate diventano roventi e solo la frescura degli alberi regala un po' di sollievo. D'inverno invece sono freddissimi, così le coperte sui letti diventano anche cinque.
L'arredamento è scarno. Quei treni hanno appena l'essenziale e rappresentano quell'idea di provvisorietà che oggi sembra condizionare la vita, soprattutto dei giovani. «Noi cerchiamo di recuperare lo spirito di san Francesco e il treno rappresenta il cammino itinerante», spiega fra Carlo, «ma anche la semplicità e la precarietà. Con questi valori cerchiamo di recuperare la spiritualità e l'insegnamento di san Francesco. Anche se fermi siamo perennemente in viaggio, perché niente è nostro, non possiamo radicarci in nessuna cosa».
Il convento di via Marfella è la stazione dell'anima. Quella in cui i pellegrini partono per il viaggio in cui imparano a dare e ricevere. Ad amare ed essere amati. A superare quelle false esigenze che quotidianamente condizionano la vita. «Siamo qui ad ascoltare e siamo pronti a dare una mano quando serve». La pienezza del messaggio di papa Francesco si concretizza nei gesti più semplici come quello della carità e della misericordia. «Non usiamo soldi», puntualizza fra Carlo, «ma c'è una moneta più forte, si tratta del dono». Alla necessità di generi alimentari o di altro viene incontro la generosità di chi ha un poco in più. E tutto quel poco poi diventa tanto da poterlo addirittura donare ad altri. «I contadini della zona ci portano verdura, frutta, uova, altri ci portano coperte, ma a noi basta poco e tolto quello che ci occorre il resto lo doniamo. Qui intorno c'è la 167 (un rione fatto di palazzine costruite per gli sfollati del terremoto dell'80, ndr), ci sono le Vele di Scampia e molti hanno bisogno di essere aiutati».
Nel convento non c'è una vera cucina, i frati preparano i pasti cuocendo il cibo su una stufa a legna. E poi la mancanza di un frigorifero che impedisce di conservare gli alimenti diventa non la condizione, ma la scelta per poter condividere e donare il cibo a chi ne ha bisogno. Ed è così che il convento dei Frati minori rinnovati diventa quasi un osservatorio sulla povertà.
Quella stessa povertà a cui ha pensato Jorge Mario Bergoglio quando ha scelto il suo nome. «Papa Francesco ritorna al Vangelo così come ha fatto san Francesco, cercando di ripresentare quello spirito e di accogliere il prossimo, di aiutarlo». Un supporto che non è solo materiale. I frati, che collaborano anche con la parrocchia del rione 167 di Scampia, ormai sono un punto di riferimento per la comunità. «È un'attività che si è intensificata soprattutto negli ultimi dieci anni», puntualizza fra Carlo: «Qui arriva sempre gente, vengono, prendono quello che serve. Poi ci sono alcuni dei nostri frati che girano nel quartiere, conoscono la realtà della gente che viene qui. Noi cerchiamo di dare conforto e di parlare con loro. Soprattutto cerchiamo di ascoltarli e di portare le persone a guardare la vita con occhi più cristiani».
La pace che si avverte una volta entrati nell'originale convento è il primo segnale di benessere per l'anima. «Quando le persone vengono qui esclamano: "Oh, che pace" e l'avvertono indipendentemente da quello che dicono o che diciamo noi», dice ancora fra Carlo.
È un abbraccio costante quello dei frati con il quartiere. «È il coraggio di chi vuol ricominciare da capo adattandosi a realtà che chiedono sempre più sacrifici. Proprio come ci suggerisce papa Francesco». La barba lunga che copre le guance di fra Carlo non lascia capire se accenna un sorriso. Che dopo una piccola pausa s'avvia alla conclusione: «Non conosco papa Francesco, ma con il suo carattere, beh, credo proprio che qui si troverebbe bene».

di Maria Elefante

FONTE: Famiglia Cristiana N.31
30 lugio 2017


E' davvero sorprendente che in una società moderna, opulenta e razionale come la nostra, possano ancora esserci uomini che decidano di vivere in questo modo, con questo stile di vita così umile ed essenziale, sulle orme di San Francesco. Sorprendente ma bellissimo.... e non posso negare che, mentre leggevo e riportavo sulle pagine di questo blog questo articolo, un senso di grande "pace" mi abbia pervaso, quella stessa pace che avvertono le persone quando entrano in questi vecchi vagoni ferroviari e prendono contatto con i frati.
Eh sì, queste sono proprio quelle belle cose che portano tanta pace nella nostra anima, e di cui dovremmo "nutrirci" più spesso. Onore e merito quindi a questi umili, semplici, generosissimi frati, i quali ci insegnano che certi valori, che possono magari sembrare "fuori dal tempo", in realtà non passano mai. E questo è davvero meraviglioso. Un Grazie sentitissimo da parte mia a tutti quanti loro!

Marco

domenica 19 febbraio 2017

Da tossicodipendente a frate francescano


Prima di sentire la chiamata di Dio e di entrare nell'Ordine dei Frati Minori, la sua vita è stata caratterizzata dal dolore

Daniele Maria Piras è un giovane francescano in formazione. Ha 32 anni ed è originario di Carbonia, in Sardegna. Prima di sentire la chiamata di Dio e di entrare nell’Ordine dei Frati Minori, la sua vita è stata caratterizzata dal dolore, da una profonda sofferenza e dalla mancanza di senso.

Fin da quando ero piccolo la mia famiglia, soprattutto per problemi economici, viveva grosse difficoltà relazionali, anzi tutto tra mamma e papà. Conclusa la scuola media, incominciai a lavorare con mio padre nella sua impresa edile; in quegli anni, per fuggire dalle fatiche familiari, iniziai a frequentare "cattive compagnie": per stare al passo con loro, iniziai a bere, a fare uso di droghe leggere e poi pesanti, anche per anestetizzare il dolore che portavo nel mio cuore”, ha raccontato Daniele in un’intervista alla rivista dei francescani "Porziuncola".

Il suo abuso di droga era tale che ad appena 16 anni era già tossicodipendente.

Per 7 anni non riuscii ad uscire da quella schiavitù: sapevo benissimo di sbagliare, però ero entrato in un circolo vizioso, non potevo più farne a meno; ero troppo debole e, anche se desideravo uscirne, mi ero reso conto che era troppo tardi e la mia volontà era debolissima. Andai al Sert, feci colloqui con psicologi e provai ad assumere farmaci per l’astinenza; ma i risultati furono scarsi”.

All’inizio Daniele nascose alla famiglia la sua situazione, ma quando questa peggiorò i suoi genitori si resero conto di quello che stava vivendo. Mia madre mi incoraggiò, mi stette vicino e mi amò così come ero.

Fu proprio attraverso la madre che la pace tornò in Daniele. “Lei, da giovane, dopo aver ricevuto i Sacramenti, si era allontanata dalla Chiesa, ma ora da diversi anni si era riavvicinata, proprio a causa della dolorosa relazione che stava vivendo con mio papà. Questa relazione era la sua croce: quella croce aveva un nome e un volto, mio papà Carlo, che si trovava in una situazione molto difficile dopo la perdita del lavoro”.

Il giovane francescano racconta che la madre ha trovato consolazione in un gruppo di amiche che recitavano il Rosario: “Maria la ricondusse al Figlio suo: nella preghiera, nella Parola e nei sacramenti mamma attinse la forza per stare in quella situazione di dolore, e decise di stare accanto a mio papà ed amarlo così come era (…) Questo permise a Colui che ha vinto la morte di portare la sua Salvezza nella nostra famiglia e fare nuove tutte le cose”.

Questa testimonianza di fede molto presto è servita da esempio alla sorella di Daniele, Chiara Redenta, che ha sentito la chiamata di Gesù ed è entrata nel monastero delle Clarisse nel 2005. “A quel punto, la mia esperienza di morte, ma soprattutto le testimonianze di mia mamma e mia sorella mi portarono a rientrare in me stesso e chiedere aiuto: incominciai ad invocare il Nome del Signore Gesù”, ha riferito il giovane.

La sua conversione è arrivata nel novembre 2006, quando la madre lo ha invitato a partecipare a un congresso in occasione della solennità di Cristo Re dell’Universo. “La Parola guida del convegno era un versetto del salmo 107,14: Li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra di morte e spezzò le loro catene. Mi colpì la catechesi di un padre francescano, sembrava che io gli avessi raccontato la mia storia… rileggeva il mio vissuto… spiegava come il male, attraverso le attrattive del mondo, che presentano una felicità apparente, mira a distruggere il nostro corpo che è il tempio dello Spirito Santo, luogo abitato da Dio, luogo in cui noi possiamo fare esperienza di Lui”.

Daniele ha deciso di parlare con il sacerdote francescano. “Gli dissi: "Sono un tossicodipendente e ho toccato il fondo, non so più come uscirne, preghi Gesù per me". Il frate mi invitò a chiedere a Gesù di intervenire, mi benedisse e io tornai al mio posto. Quindi un sacerdote passò con Gesù Eucarestia in mezzo alla folla di 600 persone… Gesù mi passò accanto, poi tornò verso l’altare e io sentii dentro di me il desiderio di andare a toccarlo: andai (non avevo niente da perdere…), lo toccai e tornai al mio posto”.

Meno di due mesi dopo questa esperienza, il 29 settembre 2008, e dopo aver vissuto due convivenze con i Francescani ad Assisi, il giovane Daniele è entrato nel postulantato dei Frati Minori.

La sofferenza nella nostra famiglia si è rivelata pedagogica: accolta nella fede, ha preparato i nostri cuori ad accogliere il Mistero. (…) Solo Lui vi dice: Sono venuto perché abbiano la vita e la abbiano in abbondanza…”.


Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti

20 ottobre 2015

FONTE: Aleteia.org  




Capita molto spesso che le grandi conversioni avvengano dopo periodi di forte dolore, di sofferenza e di "vuoto" interiore. Ho appreso moltissime testimonianze in questo senso. La vita sembra non avere più alcun valore, non dona gusto, sembra essere senza senso...... e in questo stato si può facilmente cadere vittima dell'alcool, della droga o divenire frequentatori di cattive compagnie e di brutti "giri". Quando si vedono persone in questo stato, spesso si è tentati di starne alla larga perchè si pensa erroneamente che tali persone costituiscano la "feccia" della società e che possano portare solamente a tanti problemi. E invece, spesso, sono proprio queste persone che posseggono il "terreno migliore".... e nel "vuoto interiore" che essi provano (e che non di rado, sul momento, li può portare su cattivi sentieri) il Signore si fa sentire più potentemente che mai, proprio perchè trova un "terreno fertile", libero da quegli attaccamenti terreni e mondani che invece posseggono la maggior parte delle persone. E allora in queste persone, come nel caso di Daniele in questa bellissima storia, è come se entrasse un "uragano", è la scoperta di un qualcosa di nuovo che ti stravolge completamente la vita e ti fa riniziare tutto daccapo. Ed è l'inizio di una nuova vita, fondata questa volta sull'Amore e sulla Fede in Dio.
Tutto questo ci tengo bene a sottolinearlo perchè, come detto sopra, quando si vedono persone sbandate, sopratutto giovani, essere vittime di queste brutte cose, si viene tentati di starne alla larga..... ed invece bisognerebbe avvicinarli, abbracciarli e cercare di parlare loro di Dio, con semplicità e Amore, perchè il Signore può essere quella Luce che rischiara il loro cuore da ogni tenebra, perchè il Signore può rappresentare quella "Pienezza" che essi inconsciamente cercano (e sovente la cercano nei cosiddetti "paradisi artificiali") e a cui il loro cuore anela, ma che ancora non hanno conosciuto e trovato. Eh, quante, quante volte ciò che apparentemente sembra peggiore in realtà è migliore!!! Per questo Gesù ci ha insegnato a non giudicare mai (il giudizio dell'uomo può anche uccidere!), ma ad accogliere tutti con benevolenza e Amore. Poi il resto lo fa Lui, il nostro buon Gesù. E può essere veramente una nuova Rinascita!

Marco