sabato 24 aprile 2021

Chiedere e dare perdono: la forza di Claudia e Irene

Una è la vedova dell’appuntato Antonio Santarelli, ridotto in fin di vita ad un posto di blocco e morto dopo un anno di coma nel 2012. L’altra è la mamma di Matteo, il giovane aggressore, che per quella morte sta scontando 20 anni in una comunità di don Mazzi. Insieme hanno dato vita all’associazione «AmiCainoAbele».

Il dolore è una cosa seria. Ce lo insegna anche il Vangelo: Gesù piange per l’amico Lazzaro che è morto; Giairo, uno dei capi della Sinagoga, che chiede la vita per la figlioletta morente; Maria che, straziata dal dolore, resta ai piedi della croce assistendo impotente all’agonia del Figlio.

Il dolore è una cosa seria, è una dimensione della vita sulla quale ci giochiamo anche la nostra fede. Ma il dolore è anche una strada, come lo è stata la via crucis. È una strada che va percorsa tutta, evitando inutili scorciatoie, ma immergendosi nell’abisso, che a volte è solo disperazione, per incamminarsi – a passi anche stentati – verso la feritoia di luce che intravediamo. È questa l’esperienza che hanno vissuto Claudia Francardi e Irene Sisi, due "mamme coraggiose", che hanno saputo convertire il dolore in un sentiero di speranza. Per loro e per molti altri.

Claudia Francardi è la vedova di Antonio Santarelli, l’appuntato scelto dei Carabinieri, che una mattina di festa è uscito di casa per prendere servizio e non vi ha fatto più ritorno. Quella mattina del 25 aprile 2011 la vita di Antonio si è intrecciata indissolubilmente con quella di Matteo Gorelli, un ragazzo poco più che diciottenne, il quale di ritorno da un rave party, si imbatte in un posto di blocco dei Carabinieri nella zona di Pitigliano (Grosseto). Doveva essere quasi una pratica di routine e invece quell’alt genera l’inferno. Antonio, insieme al collega, viene aggredito, riporta gravissime lesioni cerebrali e dopo un anno di coma, l’11 maggio 2012 muore.

Per quell’aggressione, diventata mortale, Matteo sta scontando venti anni in una struttura di don Antonio Mazzi nel Milanese. Una terribile storia di cronaca, come purtroppo molte ne leggiamo, che poteva finire lì, "ridursi" ad essere – appunto – "solo" una terribile vicenda di "nera" e che invece, per la forza del perdono, diventa anch’essa una storia di resurrezione. Grazie a Claudia, la vedova del Carabiniere, e Irene, la mamma del giovane che sta scontando una pena per omicidio. Dal buio della disperazione, che in modi diversi le ha fatte sprofondare nell’abisso, Claudia e Irene hanno trovato la forza della risalita, faticosa, lenta, nient’affatto scontata, ma ce l’hanno fatta. A rendere possibile la loro rinascita è stato il perdono, chiesto e donato, desiderato e maturato nel cuore. Insieme Claudia e Irene hanno dato vita all’associazione "AmiCainoAbele", presentata ufficialmente pochi giorni fa a Grosseto, nell’ambito della festa parrocchiale di Santa Lucia, nel quartiere Barbanella.

Con loro, in questo cammino faticoso, c’è sempre stato un sacerdote, don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana di Grosseto ed una vita spesa in mezzo a quelle «periferie esistenziali» di cui tante volte ci parla Papa Francesco. Nel corso degli anni don Capitani ha dato vita a tante realtà sociali e di volontariato, «ma –’ ha detto – stavolta ho contribuito a far nascere qualcosa di diverso, a suo modo straordinario».

Ha parlato di «ritorno alle origini», don Enzo, ma non in senso temporale, a quando cioè con uno sparuto gruppo di volontari e operatori dette vita al Ceis anche in Maremma. No, un «ritorno alle origini» nel vero senso della parola, un ritorno alle origini «di noi come persone – ha spiegato –. Ciascuno di noi quando è nato era in pace con tutti; la vita poi ci porta quasi a spezzare l’incantesimo della fraternità umana e nelle nostre scelte si insinua il tarlo della divisione, del risentimento, della collera, dell’ingiustizia… Quanto sarebbe bello se ognuno di noi si impegnasse a recuperare l’armonia delle origini», ha sospirato.

"AmiCainoAbele" nasce con questo scopo: ritornare alla origini, non dimenticando – certo – che il male provoca conseguenze, che bisogna rispondere del dolore generato in altri, ma che c’è anche da ricomporre un quadro, un’armonia spezzata. Claudia e Irene sono partite da qui per imparare a guardasi negli occhi, chiedendo e ricevendo perdono. Non è una storia "zuccherosa" questa; anzi, è la stessa Claudia Francardi a dire subito: «Non sono pazza», ma «se diciamo di credere in Gesù, non possiamo prendere del Vangelo solo quello che ci conviene». Ma il percorso imboccato da questa donna esile, delicata, ma forte e coraggiosa, è stato dolorosissimo, così come quello di Irene.

Entrambe hanno lasciato che il dolore – quello che soffoca, toglie il respiro, annulla la vista – facesse il suo corso. Poi è iniziata la risalita. Paradossalmente è stata proprio la morte di Antonio Santarelli a far dire a Claudia che non avrebbe voluto un futuro di rabbia, di rancore, di vendetta. Doveva fare i conti con quel giovane che le aveva "ucciso l’amore", così come nel lungo e straziante periodo di coma del marito, ha dovuto fare i conti con la disperazione, con la voce dei medici che le ripetevano che per Antonio non c’era alcuna possibilità, con la depressione, coi mesi di buio, di dolore impotente.

Nel frattempo stava andando avanti il processo di prima grado e dopo la morte di Antonio, l’accusa per Matteo si fa più grave: omicidio. Poi arriva la sentenza: ergastolo. Nella concitazione del momento c’è chi sorride e chi si dispera, c’è chi piange e chi si da di gomito: solo queste due mamme, fragilissime come una porcellana di Capodimonte, sentono nel loro cuore che non basta un tribunale. «Quando ho sentito la parola ergastolo – racconta Claudia – mi sono sentita morire un’altra volta. Matteo aveva fatto qualcosa di aberrante, ma non potevo rassegnarmi all’idea che non gli fosse concessa una possibilità di riscatto
».

L’incontro tra le due mamme era già iniziato nelle settimane precedenti quella sentenza di condanna (che poi in appello è stata mitigata a vent’anni): un giorno Irene fece recapitare a Claudia una lettera, nella quale con poche parole, le chiedeva perdono. Quella lettera non è finita nel cestino: Claudia l’ha aperta e l’ha letta. C’è voluto del tempo, perché maturasse una risposta, poi un giorno le due donne si sono incontrate ed un abbraccio ha sciolto molto, se non tutto. Irene non ha mai minimizzato o cercato "scusare" il figlio, anzi si dice convinta che proprio grazie al fatto che anche in fase processuale non si siano cercate scappatoie, ma solo la verità e che Matteo si sia preso fino in fondo la responsabilità di quanto commesso, Claudia abbia avuto la possibilità di imboccare la strada del perdono. Il cammino continua, la risalita è lenta, ma un sentiero si è aperto e nessuno vuol tornare indietro.

Dalla discesa all’inferno al percorso di resurrezione

La prima cosa che Claudia Francardi ha fatto, il giorno in cui a Milano si è incontrata faccia a faccia con Matteo Gorelli, il giovane che aveva aggredito suo marito fino a condurlo alla morte, è stato guardare le mani di Matteo. «Mi sono chiesta come sia stato possibile che mani tanto piccole e affusolate avessero potuto compiere un gesto tanto tremendo». E quelle mani hanno incontrato quelle di Claudia grazie ad un Rosario: «Quel giorno – racconta la donna – avevo con me una corona e ho chiesto a Matteo se potevo metterla tra la sua e la mia mano». E così è avvenuto.

La forza della riconciliazione è passata anche da quel gesto, per certi versi ardito. «Per Matteo – ha spiegato la mamma Irene – è stato difficilissimo incontrare per la prima volta Claudia: in lei rivedeva il male che aveva commesso, la rappresentazione della sua colpa. Ma poi si è sentito perdonato ed in lui è nata la voglia di diventare una persona migliore». Oggi Matteo studio all’Università, è iscritto al corso di laurea in scienze dell’educazione, vuol diventare educatore nelle carceri «per essere – spiega la mamma – un ponte tra il passato e il futuro che può esserci».

Nel contempo prosegue l’impegno di Irene Sisi e Claudia Francardi per far sì che la loro vicenda diventi un seme fecondo per altri. Le due donne partecipano ad incontri nelle scuole ed è proprio durante il viaggio di ritorno da uno di questi incontri che quasi all’unisono si sono dette: «Come possiamo fare in modo che questa nostra storia non resti solo un fatto per noi?».

È nata così l’idea di dar vita all’associazione «AmiCainoAbele» per coinvolgere altre persone e diffondere la cultura della riconciliazione. Che passa attraverso alcune parole che stanno alla base del progetto: verità, responsabilità, compassione. Il perdono, infatti, è un fatto personale, ma può nascere dentro un cuore preparato e all’interno di una situazione in cui la giustizia fa il suo percorso. Verità e responsabilità: quella che ha detto Matteo e che Matteo si è assunto. Se anche in sede processuale la verità non fosse emersa fino in fondo e Matteo non avesse compiuto un percorso di consapevole pentimento, non ci sarebbe stato un "dopo" diverso da quello che sembrava già scritto: una storia di dolore insopportabile, capace solo di "congelare" ciascuno nel proprio dramma.

Da questo percorso di discesa nell’inferno del male, la risalita è diventata invece un percorso di resurrezione, che può guarire "Caino" e "Abele" e può aiutare tanti altri a sperimentare che il perdono non è utopia, non è per gente "debole", ma per chi ha testa e cuore, per chi sente dentro di sé che c’è una strada percorribile, per quanto stretta e piena di insidie e dentro una vicenda che stordisce c’è un pertugio e una ferita enorme, che ancora fa male, ha però potuto trasformarsi in una feritoia dalla quale filtra quel tanto di luce che ha permesso il perdono.


di Giacomo D'Onofrio

11 ottobre 2014

FONTE: Toscana Oggi

venerdì 23 aprile 2021

L’uomo che da solo ha pulito le spiagge e fatto tornare le tartarughe a Mumbai

La storia di Afroz Shah parte nel estate del 2015, lavora come avvocato in India a Mumbai ed è un grande amante del mare… peccato che la spiaggia che riesce a raggiungere, Versova, ormai non sia altro che un ammasso di rifiuti, una discarica a cielo aperto.

Afroz decide da solo che deve cambiare le cose.

Ne parla con un vicino, comprano dei guanti ed iniziano a raccogliere i rifiuti… pian piano bussano alle porte dei vicini di casa, cercano e trovano volontari che li aiutino nell’impresa.
Spiega a chi gli apre la porta l’importanza dell’amore per la natura, dell’oceano, la devastazione dell’inquinamento

Dopo 6 settimane a lavorare ogni giorno da solo, iniziano ad arrivare i primi volontari. Gruppi di persone che chiedono guanti per aiutarlo, ed in un anno il gruppo di volontari che diventa sempre più fitto, raccoglie e spedisce 3 milioni di Kg di rifiuti ai centri di smaltimento locali.

La raccolta diventa Social, si diffonde con video e post su facebook, i volontari diventano centinaia, le star di Hollywood lo appoggiano e anche l’Onu lo premia per l’impegno.
Il governo locale che aveva fatto orecchie da mercante e aveva tentato di opporsi al progetto, a questo punto non può che appoggiarlo…

Le pulizie vanno avanti, devono essere fatto continuamente perchè i rifiuti arrivano anche dal mare. E a sorpresa quest’anno, dopo 20 anni di assenza, dovute alla sporcizia, ritornano a deporre le uova le tartarughe marine.

Mentre è sulla sua spiaggia a guardare le nuove targarughine nuotare verso il mare Shan dice:
Sapevo che sarebbe successo qualcosa di grande. Ho avuto le lacrime agli occhi quando le ho viste camminare verso l’Oceano”.

E non si ferma qui, il prossimo passo che ha in mente è quello di iniziare a ripulire le foreste e lanciare in tutta l’India altri movimenti simili di pulizia.

Un grande esempio da seguire!


26 aprile 2018

FONTE: Positizie

martedì 20 aprile 2021

Manda tutti i suoi risparmi all’amico: «Costruisce un ospedale in Africa»

Il ragazzo è arrivato in Italia sei anni fa e lavora come lavapiatti. È stato accolto da una famiglia che ha scoperto per caso il suo gesto: «L’ha fatto di nascosto, siamo fieri di lui»

È stato per caso. Sandra era alle prese con operazioni bancarie legate al suo conto corrente e ha scoperto che su quello di Tignate — il ragazzo ghanese che ospita a casa sua da cinque anni e che considera ormai suo figlio — non c’era più nemmeno un centesimo. Ma come? si è stupita e preoccupata allo stesso tempo. Non si sarà cacciato in qualche guaio... Tignate Kwajo, 27 anni, è assunto con un regolare contratto come lavapiatti in un ristorante della sua città, vicino Rimini. Non ha uno stipendio stellare, certo, ma ha abbastanza per vivere dignitosamente e mettere da parte qualcosa per il suo futuro. Da quando è arrivato a casa di Sandra ha sempre lavorato e si è sempre distinto come lavoratore serio e affidabile. E ora cosa stava succedendo? Non senza imbarazzo Sandra è stata costretta a chiedere chiarimenti. Che fine hanno fatto i tuoi soldi? gli ha domandato non sapendo più che cosa pensare. Gli occhi le sono diventati lucidi per l’emozione quando ha sentito la sua risposta. «Li ho mandati al mio amico medico, ne aveva bisogno perché sta costruendo una clinica a Techiman», ha detto lui vergognandosi per aver taciuto fino ad allora su quella donazione.

La notizia della laurea

Ottomila euro, tutti i suoi risparmi, sono bastati a costruire un edificio modesto che diventerà un piccolo ospedale, soprattutto per bambini, a Techiman, appunto, la comunità da cui Tignate è partito quando ha deciso di venire a cercare fortuna in Europa. Sootey Tirbantey, il suo miglior amico, lo aveva salutato con un abbraccio. Lo ha stretto forte a sé prima di vederlo andar via, nel 2013. «Vai, amico mio, buona fortuna». Lui sarebbe rimasto lì a provare la via dello studio per aiutare la sua gente. Tignate ha saputo via WhatsApp che ce l’ha fatta: si è laureato in medicina. E per dargli una mano ha deciso di mandargli i suoi risparmi, appunto. La clinica di Sootey sarà operativa da giugno, intanto lui manda fotografie per mostrare al suo finanziatore l’avanzamento dei lavori.

L’infanzia insieme

Sono amici da una vita, Tignate e Sootey. Giocavano assieme da bambini, sono cresciuti a un passo l’uno dall’altro e quel ragazzo che da piccolo sognava di fare il medico, che tante volte aveva dato una mano a lui, adesso è l’unica persona cara che gli sia rimasta laggiù. Tignate non ha mai conosciuto sua madre, morta quando lui è nato e la scuola per lui è finita in seconda elementare. Suo padre, morto quando lui aveva 14 anni, non poteva permettersi di più. Quel ragazzino rimasto solo ha provato a costruire il suo futuro in quelle terre polverose, ma ha capito presto che doveva cercare altrove le sue opportunità. Così nel 2013, a 21 anni, ha deciso di andare via dal Ghana per raggiungere la Libia e, da lì, quella lunga striscia di terra promessa di cui aveva tanto sentito parlare, l’Italia. Un viaggio lunghissimo al limite della vita: passando per il Burkina Fasu, il Niger, il deserto e finalmente la Libia. Dieci mesi ad aspettare l’imbarco assieme a migliaia di altri disperati come lui finché un giorno non l’hanno messo su una bagnarola che ha passato il Mediterraneo ed è arrivata a Lampedusa.

Una nuova casa

All’inizio lo hanno accolto i ragazzi della comunità Papa Giovanni XXIII, poi la famiglia di Sandra. Lei (che di cognome fa Talacci e ha 52 anni) e suo marito Alfredo Magnanelli, 50 anni, hanno tre figli (23, 18 e 13 anni) e la loro casa è sempre stata un posto accogliente: prima di Tignate per 23 anni è rimasta con loro fino all’ultimo dei suoi giorni una ragazza dalla salute gravemente compromessa. E adesso è dal 1 maggio del 2015 che ospitano il ragazzo ghanese. «Sono fiera di te» gli ha detto Sandra dopo aver scoperto della sua donazione all’amico. La clinica è quasi pronta, Sootey infilato in un camice bianco sorride da una fotografia inviata via WhatsApp. Tignate, adesso sì, può pensare a se stesso.


di Giusi Fasano

17 aprile 2019

FONTE: Corriere della Sera

domenica 18 aprile 2021

La nonna di 89 anni fa mascherine per tutti i membri della sua famiglia

Cuce le mascherine per tutti i membri della famiglia e nel frattempo ascolta i Beatles, la sua band preferita. È così che Teresa Provo, una simpatica signora di 89 anni ha deciso di trascorrere il suo tempo durante la pandemia del COVID19.

Il coronavirus ha messo in discussione tutta la nostra intera vita. Ci siamo ritrovati tutti con tanto tempo a disposizione da non saper come trascorrerlo senza annoiarci.

La nonna fabbrica mascherine protettive per tutti

Senza scuola, senza lavoro e senza poter uscire nemmeno per fare una passeggiata abbiamo riscoperto il piacere della cucina, della lettura e del fai da te.

Questa simpatica 89enne, ha invece deciso di rendersi molto utile per gli altri e dopo aver comprato un po’ di stoffa si è messa a fabbricare mascherine per tutti.

Si chiama Teresa, ha la bellezza di 89 anni e vive da sola a Chicago, nell’Illinois. Solitamente ama condurre una vita molto tranquilla, fatta di TV, videogiochi e naturalmente la sua macchina da cucire. Una compagna fedele che l’accompagna da molto tempo.

Nel momento in cui le cose hanno iniziato a mettersi male a causa del coronavirus ha deciso che non sarebbe rimasta con le mani in mano, ma che avrebbe fatto qualcosa per tenere al sicuro le persone a cui vuole bene.

Così, dopo aver comprato e raccolto quanta più stoffa poteva ha cucito la bellezza di 600 mascherine. Che poi ha destinato a familiari, amici e tanti anziani residenti in una casa di riposo.

La passione per i Beatles

Ogni mascherina è stata personalizzata con i tessuti preferiti da chi l’avrebbe indossata. Le scelte variavano dai colori, ai disegni e anche alle squadre del cuore come i Chicago Cubs o i Blackhawks.

Dopo averle fabbricate le ha anche spedite a Chicago, in Wisconsin, in Florida, in Minnesota e in California, accompagnandole con un dolcissimo bigliettino scritto a mano di incoraggiamento.

La nipote ha anche raccontato che ogni mascherina è stata cucita al ritmo delle canzoni dei Beatles, la band preferita da Teresa.

Alla fine, quando hanno saputo del lavoro iniziato dall’89enne, il “Red Hat Club”, un gruppo di anziani a cui piace partecipare ad eventi locali, si è unito a lei per aiutarla.

Tutti insieme hanno fabbricato ben 600 mascherine! E non hanno ancora finito, Teresa ha infatti dichiarato che hanno tutti lavorato per due settimane e che stanno continuando a farlo per soddisfare tutti.

di Martina

27 aprile 2020

FONTE: News Varie

mercoledì 14 aprile 2021

Antonello e i suoi 11 figli riempiono il carrello delle famiglie brianzole in difficoltà

Antonello Crucitti, super papà bresciano, ha fondato l'associazione "Fede, speranza e carità" che aiuta le persone in difficoltà. Non solo cibo, ma anche parole di incoraggiamento

In famiglia sono in 13, mamma e papà compresi. Ma nel carrello della spesa c’è sempre posto anche per il rifornimento alimentare di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Richieste di aiuto che arrivano da perfetti sconosciuti che la famiglia Crucitti aiuta. Così come è successo per quelle trentasei famiglie monzesi che nella settimana di Pasqua hanno ricevuto un graditissimo dono da papà Antonello e dalla sua grande famiglia.

Le parole d'ordine: organizzazione e solidarietà

Una storia controcorrente quella della famiglia Crucitti di Brescia: papà Antonello lavora in ospedale e con la moglie Angela che lavora come segretaria a scuola, ha 11 figli di età compresa tra i 24 e i 5 anni. Difficile gestire la quotidianità: da quando ci si sveglia a quando si va a letto tutto deve essere organizzato nei minimi particolari per evitare il caos. Scuola, lavoro, didattica a distanza, sport, catechismo, oratorio e poi le attenzioni particolari per l’ultimogenito nato con una malattia rara. Eppure in questa delicatissima catena di montaggio dove non è permesso il minimo inceppo, c’è tanto spazio anche per la solidarietà. Antonello ha dato vita all’associazione "Fede, speranza e carità" che opera a livello nazionale in aiuto delle persone in difficoltà, ispirandosi ai valori della fratellanza universale. Un modello di vita attento all’aiuto al prossimo – non solo materiale ma anche morale – che Antonello ha trasmesso ai suoi figli che oggi lo aiutano nell’associazione. E sono tantissime, soprattutto in questo anno di emergenza sanitaria, le famiglie che in tutta la Lombardia hanno ritrovato il sorriso grazie alla famiglia Crucitti.

Grandi pacchi alimentari per le famiglie bisognose di Monza

Nei giorni scorsi è stata la volta di 36 famiglie di Monza. La segnalazione è arrivata direttamente dalla dirigente Anna Cavenaghi dell’Istituto comprensivo di via Correggio che ha indicato a Davide Pacetta, volontario monzese dell’associazione e papà di 5 bambini che frequentano le scuole di Cederna, la necessità di aiutare alcune famiglie degli alunni del comprensivo. “Per noi è stata una grandissima gioia – spiega Antonello Crucitti a MonzaToday -. Abbiamo immediatamente riempito gli scatoloni con pasta, riso, passata di pomodoro, legumi, zucchero, olio, formaggio, latte, biscotti e brioche. Tutti prodotti di primissima qualità”. Insomma, un vero e proprio carrello della spesa dalla colazione alla cena per famiglie che, certamente meno numerose di quelle di Antonello, stanno attraversando un momento di difficoltà. A distribuire i grandi pacchi Davide, Daniele Crucitti e la sorella Annamaria. La giovane è anche vicepresidente dell’associazione "Fede, speranza e carità" e con un video ha ringraziato la preside monzese per la disponibilità e per aver permesso loro di regalare una Pasqua più serena a centinaia di monzesi. Negli ultimi tempi stiamo incrementando gli aiuti su Monza – prosegue Antonello -. Sono tante le famiglie in difficoltà”. Ma la vera sorpresa l’hanno ricevuta Davide e Annamaria quando hanno incrociato gli occhi commossi e sbalorditi delle famiglie. “Mamma e papà venivano con il sacchettino della spesa – prosegue Antonello -. Quando noi gli abbiamo consegnato uno scatolone stracolmo e pesante sono rimasti senza parole. Qualcuno non riusciva neppure a sorreggerlo. Ma vi assicuro che si riceve molto più nel dare che nell’avere”.

Un sostegno morale a chi si sente smarrito

L’aiuto per Antonello è fondamentale anche nella presenza. Una presenza che, oggi, purtroppo si deve limitare a una telefonata, per i più tecnologici a una videochiamata, ma che appena sarà possibile anche a un incontro. Antonello, fortificato dalla profonda fede che ha trasmesso ai suoi figli, non si è mai fermato di fronte alla fatica.Ricordo ancora di quella volta che telefonai a un uomo che vive in Brianza e che si era rivolto a noi per chiedere aiuto – aggiunge -. Non si sa perché ma quella sera decisi di chiamarlo per sentire come stava. Era a pezzi e pronto a farla finita. Ho preso di corsa la macchina e mi sono fiondato a casa sua evitando il peggio e dandogli quella forza che gli ha permesso di rimettersi in carreggiata”.

L'associazione per continuare a riempire la dispensa delle famiglie in difficoltà ha bisogno dell'aiuto di tutti.
Anche pochi euro sono fondamentali e preziosi, ricorda Antonello. Tutti i dettagli sull'associaizone e le modalità per sostenere l'operato di Antonello sul sito www.fedesperanzacarita.com o all'email info@fedesperanzacarita.com


di Barbara Apicella

7 aprile 2021

FONTE: Monza Today

sabato 10 aprile 2021

Legnano, bambina ringrazia il netturbino con una lettera sul secchio del vetro

LEGNANO – “Caro netturbino, sono la bambina che abita qui in questa casa. Ti ho scritto questo messaggio perché sei molto gentile a ritirare la nostra pattumiera e poi ti svegli presto forse per noi. Io ti voglio ringraziare per questa cosa. Anche se non ti conosco, ti voglio bene”. Seguono cognome e iniziale del nome dell’autrice della lettera: una bimba che abita in via Micca a Legnano e che questa mattina, mercoledì 7 aprile, ha fatto trovare il messaggio sul coperchio del secchio verde adibito alla raccolta del vetro. È quanto si legge sul sito di Ala-Aemme Linea Ambiente, società del Gruppo Amga che si occupa tra l’altro del ritiro a domicilio dei rifiuti nella città del Guerriero.

Ala: «Per noi anche disegni e cioccolatini»

«Non è la prima volta – spiegano da Ala – che i nostri operatori trovano messaggi del genere scritti dai bambini. Lo scorso anno, durante il lockdown, sui cassonetti della raccolta erano comparsi disegni, pensierini, poesie. Qualcuno aveva addirittura lasciato cioccolatini e un uovo di Pasqua attaccati al cancello: dolci dimostrazioni di gratitudine per chi, dovendo mantenere pulite le città, era esposto ogni giorno al rischio del contagio e non poteva starsene protetto fra le quattro mura domestiche, come la maggior parte delle persone».

Che i messaggi dei bambini siano molto apprezzati dagli operatori è evidente: li conservano tutti e qualcuno addirittura l’ha esposto sul parabrezza del veicolo utilizzato ogni giorno per i vari servizi di pulizia. Questa mattina, invece, l’addetto alla raccolta del vetro ha preferito lasciare il biglietto sul coperchio del contenitore, in modo che la bambina potesse leggere il breve messaggio di risposta che lui le ha scritto: “Grazie, sei molto gentile. Tanti auguri anche se in ritardo”. «Piccoli gesti che fanno bene al cuore» ha commentato, con un sorriso, rientrando in sede a fine servizio.


7 aprile 2021

FONTE: Malpensa 24

mercoledì 7 aprile 2021

Alain, l'educatore nel pallone che salva i bimbi di Yaoundé

Arrivato in Italia col sogno del calcio e abbandonato dal procuratore senza scrupoli si ritrovò abbandonato e senza soldi. L'incontro con un prete e una comunità lo ha fatto rinascere

Alain sognava quello che sognano tanti bambini africani vedendo giocare i campioni di pelle nera applauditi dai tifosi negli stadi italiani: diventare uno di loro. Le premesse sembravano esserci: giocando nella scuola di calcio Des Brasseries du Camerun nel capoluogo della provincia dell’Ovest, era stato notato da un procuratore che gli aveva fatto balenare un futuro stellare.

Per questo quando aveva solo 15 anni era venuto in Italia con un visto turistico. Qualche provino, poi un giorno un colloquio del procuratore con il manager di una squadra. La prima domanda non è "come si chiama", non è "da dove viene", ma "quanto costa il ragazzo?".

Comincia a giocare nel Brera Calcio, una squadra milanese che milita nella categoria Promozione. Ma mentre il sogno sembra prendere forma, un brutto infortunio lo costringe in ospedale per otto mesi. Lui non demorde, troppo forte è la passione per il calcio, troppo forte il desiderio di sfondare e diventare un campione. Torna a giocare, ma quando il procuratore che aveva alimentato i suoi sogni lo abbandona, Alain si ritrova solo, senza neppure il biglietto aereo per tornare in Camerun da sua madre e dai suoi dodici fratelli.

Un giorno mentre vaga sconsolato per Milano entra nell’oratorio di Lambrate, un quartiere alla periferia della città, per tirare due calci al pallone con altri ragazzi. Conosce il prete che segue i giovani, don Claudio Burgio, gli confida i suoi sogni e la sua amarezza, il sacerdote cerca ospitalità per lui in alcune famiglie della parrocchia che a turno lo accolgono nelle loro case.

«Sono state la mia ancora di salvezza, la mia seconda famiglia – racconta Alain – . Grazie a loro ho ricominciato gli studi e ho trovato una strada per me».

È dall’esperienza di ospitalità condivisa tra quel gruppo di famiglie che nel 2000 è nata Kayròs, una comunità di accoglienza per minori in difficoltà diretta da don Burgio. Lui è stato il primo ospite, oggi sono una cinquantina i giovani che vivono insieme a Vimodrone, alle porte di Milano.

Ora Alain Ngaleu ha 37 anni, è sposato e ha tre figli, è diventato cittadino italiano, lavora come educatore nella comunità che lo aveva accolto, ma la passione per il calcio non ha smesso di scorrere nelle vene.
Da quella passione alcuni anni fa è nata la decisione di prendere il patentino da allenatore e di metterlo a frutto nel suo Paese. Con l’aiuto di alcuni amici ha raccolto magliette, palloni e scarpette, ha caricato tutto in un container, è tornato in Camerun e nella capitale Yaoundé ha aperto Kayròs Camerun, un luogo dove da dieci anni centinaia di giovani imparano a giocare a pallone, vengono aiutati negli studi e accompagnati a trovare lavoro.

Qualcuno ha pure fatto carriera: uno ha partecipato ai campionati mondiali in Brasile under 17 nel 2019, uno gioca nel campionato professionistico camerunense ed è stato selezionato per la nazionale.

Alain non nasconde la soddisfazione per questi risultati, ma ha fatto tesoro della sua storia. «L’esperienza fatta con don Burgio e gli amici della comunità Kayròs è stata decisiva – racconta –. Ho imparato che le passioni vanno assecondate ma senza che ti facciano andare fuori di testa diventando un assoluto. Non bisogna mai smettere di sognare evitando però che il sogno porti fuori dalla realtà, come è accaduto a tanti ragazzi inseguendo il mito di diventare come Eto’o, il mio connazionale più famoso, e di fare soldi a palate. Ci sono ragazzini che si mettono in mano a gente senza scrupoli che sfrutta le loro attese illudendoli di ottenere un facile successo e poi li molla, lasciandoli magari a chiedere l’elemosina sulle strade per poter campare. I giovani hanno bisogno di qualcuno che scommetta su di loro e sappia proporre una strada positiva da seguire, seguendola lui per primo. Come è capitato a me incontrando don Claudio, che mi ha preso per mano e mi ha aiutato a capire che la vita è più grande di un pallone».


di Giorgio Paolucci

29 dicembre 2020

FONTE: Avvenire

lunedì 5 aprile 2021

Figlio di ’ndrangheta salvato da un sacerdote

«Io sono Giosuè, sono nato e cresciuto in una famiglia di ’ndrangheta».
Si presenta così, mentre si appresta a raccontare la sua storia, colui che è a tutti gli effetti uno dei precursori del Protocollo “Liberi di scegliere”, la rete di associazioni e istituzioni, finanziata coi fondi dell’8Xmille, che permette ai figli dei mafiosi a cui è stata sospesa la responsabilità genitoriale, di costruirsi un futuro senza ’ndrangheta.
Il “padre”, di questo “Protocollo” è Roberto Di Bella, attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, e Giosuè fu il primo dei minori allontanato dalla propria famiglia di mafia.
Infatti, cresciuto in un paese della Piana di Gioia Tauro, nel 1988, a soli 17 anni Giosué finisce nel carcere minorile di Reggio. Lì fa un incontro che gli cambierà la vita. Quello con don Italo Calabrò, allora vicario generale della chiesa Reggina.

Giosuè, cosa ricordi di quegli anni?

Sono cresciuto in una famiglia mafiosa e in un ambiente mafioso. Quando ero piccolo sono stato in collegio, lì ho conosciuto tanti ragazzini che oggi hanno cognomi “importanti”, che poi ho ritrovato sui giornali. Lì c’era un disagio sociale forte, sono nato in una realtà dura. Quando avevo 15 anni cominciavo a capire e a entrare nel meccanismo. A 17 anni sono finito prima davanti al Tribunale e poi in carcere minorile. Lì ho cominciato a maturare una riflessione, avendo tutto il tempo per riflettere (ride, ndr) ho deciso di fare qualcosa per cambiare il mio destino.

Che reato hai commesso?

Diciamo che finii trascinato in quella storia perché commisi degli errori ma non commisi direttamente il fatto. Però avevo dei “doveri”, non potevo fare nomi, perciò finii in galera. In carcere ho conosciuto don Italo Calabrò, venne in visita. Anche le assistenti sociali mi hanno aiutato tanto. Uscii col condono di pena e fui affidato ai servizi sociali.

Forse il carcere fa “punteggio” in certi ambienti…

Sì sì, quando sono uscito, per la mia famiglia era come se avessi preso la laurea. Se fossi tornato, l’avrei fatto da “uomo”, da persona che ha mantenuto l’onore, non ha parlato. Avevo superato la prova con 30 e lode. Ho guadagnato rispetto, saluti da gente che non mi considerava. Queste sono le “virtù” della ’ndrangheta.

Un’antieducazione. Questo pesa molto su un ragazzo, vale ancora oggi?

Su un ragazzino di 17 anni che ha bisogno di sentirsi forte e protetto, questo può dare una pericolosa falsa sicurezza. È per questo che, quando sono uscito, don Italo venne a prendermi.

Fosti tu a cercare don Italo?

Io ho maturato la scelta di non tornare a casa, dovevo fare qualcosa per me, cercare un’altra strada. Altrimenti quello che mi aspettava era fare “carriera” in quella famiglia, rischiare la vita, rischiare il carcere.

Quindi come è avvenuto l’incontro con don Italo?

Furono le assistenti sociali del Tribunale per i minorenni a metterci in contatto. Lui era una persona che parlava all’altro come se fosse il suo migliore amico. Quando lo vedevi sapevi che se avessi bussato alla porta avrebbe aperto. Anche se era un prete “importante” non si dimenticava di nessuno.

Qual è la cosa che ti ha detto che ti è rimasta più impressa?

Non è tanto ciò che diceva, ma ciò che faceva ad aver fatto la differenza per me. Voleva che partecipassi alle riunioni dell’Agape (associazione di solidarietà da lui fondata), che sentissi parole diverse, parole d’amore: erano riunioni molto diverse da quelle a cui ero abituato, qui si progettava come aiutare il prossimo. Mi portava ai convegni in cui si parlava di contrasto alla mafia. Non c’è stata una cosa singola, particolare. Quando è morto, forse. In quel momento, io andai da lui assieme a un grande amico, Francesco. Don Italo era in un pessimo stato fisico ma gli disse: «Ti affido Giosuè». Si preoccupò di me anche sul letto di morte.

Cosa hai trovato dopo esserti allontanato dalla tua famiglia?

Ho trovato una moralità diversa, ho trovato affetto da persone che mi hanno insegnato i veri valori della vita, come quello del rispetto per l’altro. La mia vita è cambiata per sempre, come se fossi rinato.


11 maggio 2019

FONTE: Tropea e Dintorni

giovedì 1 aprile 2021

Giorgio, il disabile che trova 70mila euro, li restituisce e rifiuta pure i 7mila euro di mancia

Giorgio Mancosu ha ritrovato la borsa su una panchina. Il volontario ha rifiutato la ricompensa di 7.000 euro.

Un volontario della protezione civile di Trento ha trovato su una panchina della città una borsa contenente 70 mila euro in contanti. L'uomo ha però deciso di restituire alla proprietaria il denaro perduto. Il protagonista di questa bella storia è Giorgio Mancosu, uno dei volti noti della protezione civile di Trento, disabile al 100%. Una grande lezione di civiltà se consideriamo che dopo aver restituito la borsa ha rifiutato la ricompensa prevista dal codice civile (10%). Infatti, la donna che aveva perso i suoi effetti personali aveva offerto a Mancosu 7.000 euro. Lui però ha detto di no; del resto è un gesto altruista da fare senza lucro. Proprio la proprietaria della borsa, che ha preferito restare anonima, ha resa nota la vicenda, chiedendo di ringraziare pubblicamente Giorgio Mancosu.

Come scritto da "L'Adige.it" il volontario della protezione civile ha raccontato la vicenda. “Ieri, verso le 11, dopo essere stato negli uffici degli assistenti sociali del Comune in via Alfieri, mi sono avviato verso via Belenzani. Lì, abbandonata su una panchina, ho trovato una borsa di cuoio marrone. Del proprietario non c'era traccia, così ho aperto la borsa. Dentro c'erano dei disegni di una casa, come quelli dei geometri, e una busta gialla. Al suo interno c'erano moltissime banconote da 50 e 100 euro, raccolte da un elastico per capelli. Mi sono agitato nel vedere tutti quei soldi perché non sai mai cosa può accadere, potrebbero anche accusarti di averli rubati”. Oltre all'ingente somma di denaro, Mancosu ha trovato nella borsa della signora anche un cellulare con il quale è riuscito a rintracciare la proprietaria della borsa che pallida e tremante ha raggiunto il volontario per riprendere la borsa perduta.


di Giuseppe Di Martino

31 ottobre 2017

FONTE: Fanpage