Visualizzazione post con etichetta Sanità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Sanità. Mostra tutti i post

mercoledì 18 maggio 2022

Un sogno che si avvera: nasce a Medjugorje il Pronto Soccorso della Pace

Alle volte i desideri che si hanno nel cuore diventano realtà, soprattutto se alle spalle di un desiderio c'è tanta determinazione, lavoro e, in questo caso, anche tanta Fede.

E' quello che sta accadendo a Medjugorje, cittadina della Bosnia Erzegovina conosciuta in tutto il mondo per le Apparizioni della Regina della Pace che stanno avvenendo dal 1981, quindi da oltre 40 anni.
Paolo Brosio, uno dei più grandi estimatori di Medjugorje, sei anni fa ha avviato un progetto per realizzare un grande Pronto Soccorso in questa cittadina, terra di Fede autentica per tantissimi pellegrini, ribattezzato “Pronto Soccorso della Pace”.
Dopo un iter costituito da un lungo percorso di raccolta fondi, organizzazione e produzione, si è giunti finalmente al termine, e nel giro di qualche settimana prenderanno il via i primi lavori sul posto, partendo con la prima parte del progetto denominata “Mattone del Cuore”.

Tutto questo è stato reso possibile grazie al grande impegno di Paolo Brosio e della sua Associazione Olimpiadi del Cuore Onlus, ma anche grazie al presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, che ha dimostrato subito un grande entusiasmo per il progetto di Paolo, cercando di supportarlo in ogni modo.
Non si può tralasciare la collaborazione del Comune di Forte dei Marmi e quello di tante altre istituzioni e poi, naturalmente, alla base di tutto c'è la grande generosità della gente, che con numerosissime donazioni ha permesso a questo grande sogno di divenire presto una concreta realtà.

Questo Pronto Soccorso costituisce un vero e proprio “segno” di Pace in questo particolare periodo storico in cui i “venti di guerra” soffiano più forti che mai, soprattutto a causa dell'orribile conflitto tra Russia e Ucraina.

La soddisfazione di Paolo Brosio per questa bellissima opera ormai prossima ad essere avviata è evidente, un opera rivolta a tutti, senza nessuna distinzione di ceto sociale, credo politico, religione o altro. Un opera che sorgerà, e non a caso, in una zona costituita dagli altopiani dell'Erzegovina caratterizzata dalla presenza di molti piccoli villaggi, frazioni e comuni, a circa 40 Km da Mostair (dove è presente l'unico, vero, ospedale della zona), in cui non esiste alcun sistema sanitario di pronto soccorso d’urgenza, ma solo ambulatori medici.

Anche Papa Francesco è informato di questa bellissima opera, ed esso stesso, nel 2015, ha voluto benedire personalmente il simbolo di questo pronto soccorso che dovrà diventare un messaggio di pace per tutte le etnie e le religioni.

Chiunque volesse sostenere questo progetto, molto impegnativo da un punto di vista economico, col proprio obolo, lo può fare attraverso il sito internet dell'associazione Olimpiadi del Cuore Onlus fondata da Paolo Brosio, alle coordinate indicate.

Pensiamo sempre che l'oceano è formato da tante piccole gocce e, ciascuno di noi, può rappresentare quella goccia di Solidarietà e Amore che può permettere a questo progetto di realizzarsi e andare avanti.
Chiunque non fosse nelle condizioni di poter fare delle donazioni, può comunque contribuire a questa opera facendola conoscere e supportandola con la propria preziosissima preghiera.
Grazie di vero cuore a chi lo farà.


Marco

lunedì 28 giugno 2021

Suor Angel, tra Fede e Medicina

PALERMOAngel Kalela Bipendu Nama. Chi è mai costei? Ce lo chiediamo, parafrasando il nostro caro Alessandro Manzoni. Il nome evoca un’origine africana: e in effetti Angel è una suora cattolica, della congregazione Discepole del Redentore, arrivata in Sicilia dalla Repubblica Democratica del Congo sedici anni fa, con tanta voglia di rendersi utile al prossimo.

E quale mezzo migliore della professione medica per aiutare gli altri? Ma studiare medicina non è facile. A sostenerla e incoraggiarla, allora, anche il professore Giovanni Ruvolo, direttore dell’unità di cardiochirurgia dell’università Tor Vergata di Roma, cardiochirurgo siciliano che da anni, insieme ai volontari dellassociazione "A cuore aperto", si spende in Africa per fornire cure e attrezzature mediche alle popolazioni bisognose. Così la voglia di studiare di suor Angel trova sostegno e supporto: la suora è destinataria di una borsa di studio che le consente di iscriversi alla Facoltà di Medicina all’Università di Palermo. E il 30 marzo 2015 arriva il giorno tanto atteso: a 41 anni viene proclamata dottoressa in Medicina e Chirurgia, con la tesi di laurea su "Valvolopatia associata a valvola aortica biscuspide"; relatore proprio il professor Ruvolo.

Da medico, dal 2016 al 2018, suor Angel comincia a prestare servizio su una nave della Guardia costiera italiana impegnata nel Mar Mediterraneo nel salvataggio di immigrati a rischio naufragio. Ho curato ipotermie, ustioni. Ma ho anche assistito donne partorire” , dice ricordando l’emergenza che l’ha vista in prima linea come medico volontario del Corpo italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta. Trasferitasi poi a Bergamo, dove ha cominciato a lavorare come guardia medica, eccola in questi giorni a prestare il suo aiuto contro il Covid-19, visitando i malati rimasti a casa: “Vedo tristezza, angoscia, paura. Sono tutti in quarantena, separati dai familiari. Io mi presento sempre: dico loro che, oltre ad essere un medico, sono una suora. Cerco di dare una parola di conforto, un segno di speranza. Qui in Italia parecchi malati hanno paura che non torneranno alla vita di prima. Ma io ripeto a tutti: la vita riprenderà”.

Profetiche allora le parole pronunciate dal professor Ruvolo e dalla moglie, dottoressa Margherita La Rocca (anche lei impegnata a fianco al marito in iniziative socio-sanitarie ed umanitarie a sostegno delle popolazioni africane), proprio il giorno della laurea di suor Angel: “Fiduciosi che la vocazione religiosa saprà integrarsi e diventare una cosa sola con la vocazione verso il prossimo, che il mestiere del medico dovrebbe avere come prerequisito e presupposto, vogliamo augurare a Suor Angel una lunga carriera, certi che saprà essere un eccellente medico e un grande esempio di umanità e professionalità”.

Ora quell’auspicio si è avverato. Grazie, suor Angel. A nome di tutti gli italiani.


di Maria D'Asaro

19 aprile 2020

FONTE: Il Punto Quotidiano

venerdì 14 maggio 2021

Suor Fausta Cogo, l'“angelo” in bicicletta

La religiosa vicentina è infermiera porta a porta a Strongoli centro, paesino di 2000 anime in Calabria. «Qui una suora in scarpe da ginnastica non si era mai vista, figuriamoci su due ruote»

Scarpe da ginnastica, valigetta nel cestino, veste bianca svolazzante e via. A Strongoli è l'
angelo in bicicletta”. Da 11 anni gli abitanti di questo piccolo borgo di 2.000 anime in un promontorio in Calabria, scrigno di cultura e tradizioni antiche, ricevono le sue cure arrivando a considerarla una di loro. Suor Fausta Cogo, 73 anni, infermiera dorotea di Germano dei Berici (Vi), porta conforto e cure mediche porta a porta. Per molti anni l’ha fatto in sella alla sua bicicletta elettrica. «Prima del lockdown giravo famiglia per famiglia, su e giù per le stradine – racconta -. Ho una mappa dove sono indicate le persone sole, i malati, le vedove, chi ha appena avuto un bimbo per portare l’attenzione e la parola giusta. Poi è arrivata la pandemia e, soprattutto, sono caduta in casa (in casa!) rompendomi tibia e perone. Sono ancora convalescente. La mia bicicletta ora è al sicuro in uno stanzetta, coperta da un telo. Per il momento mi vengono a prendere in automobile». Per suor Fausta la bicicletta elettrica è «il secondo angelo custode. Il primo spero di vederlo quando sarà il momento» sorride . «È il Signore che apre le strade – dice -. Qui una suora in scarpe da ginnastica non si era mai vista, figuriamoci in bicicletta».

La religiosa aveva già lavorato come infermiera nel Sud Italia fino al 2002, poi per anni nel reparto di cardiologia ad Arzignano. Arrivata la pensione ha chiesto all’allora Madre generale di poter tornare al Sud. «Ecco che mi hanno proposto Strongoli – racconta -, dove la mia Congregazione ha una comunità di quattro suore che lo scorso anno ha festeggiato 100 anni di vita. Non sapevo neanche dove si trovasse! – scherza -. “Ma lì c’è un ospedale?” chiesi». «Fu così che scoprii che si trattava di un servizio diverso, legato al Gruppo di Misericordia».

Gli abitanti, soprattutto anziani, del paesino calabrese hanno accolto la religiosa a braccia aperte. Suor Fausta chiede permesso, entra, saluta, vista, medica, fa iniezioni, porta e riceve conforto. «Piano piano, negli anni, mi conoscono tutti, mi aspettano, vedermi è un’esigenza, la mia visita per loro è un onore e un’occasione per aprirsi, chiedermi qualcosa, raccontarsi». Suor Fausta non ha la patente: «Appena arrivata – spiega – mi accompagnavano in automobile i ministri straordinari dell’Eucaristia, ho fatto anche un periodo a piedi. Qui nessuno usa la bicicletta, le strade salgono e scendono. Le utilizzano solo i bambini per giocare e d’estate si comincia a vedere qualche sportivo. La soluzione è arrivata pensando al motore.
Serve una bicicletta motorizzata!” ci siamo detti». «Mi sono sempre posta con genuinità, spontaneità senza pensare ai commenti e pregiudizi – confida -. Sicuramente ho portato novità e forse un po’ di trasgressione. Ricordo ancora le facce dei vecchietti seduti in panchina che mi vedevano sfrecciare, quelli che osservano chiunque passi, chissà che cosa pensavano».

Suor Fausta torna con la mente ai tanti anni di lavoro con i malati e si commuove: «Lavorare come infermiera, in particolare entrando nelle case della gente, è una scuola di vita. Ogni giorno scopro quanta sofferenza nascosta, silenziosa e discreta ci sia. Ho partecipato anche a compleanni, nascite, feste di matrimoni, ma è il dolore condiviso che fa crescere. È una palestra di vita, insegna a non lamentarsi per le stupidaggini». Suor Fausta è stata 40 anni caposala, in reparto: «Difficile paragonare le due esperienze, totalmente diverse. Al nord avevo le briglie, condividevo gioie e sofferenze dei pazienti per due settimane, un mese, poi li “perdevo”. Qui sono libera di vivere rapporti duraturi. Adesso mi sento davvero suora, non che prima non lo fossi, ma mi sentito vincolata dalla responsabilità». A Strongoli si vive della Provvidenza. «Se c’è bisogno di qualcosa, non si sa come ma arriva. C'è sempre qualcuno che si prodiga: non le dico la frutta, le verdure che ci ritroviamo sopra il tavolo. Gesti e solidarietà straordinari che poi noi ricambiamo distribuendo a chi ne ha bisogno».


di Marta Randon

10 maggio 2021

FONTE: La Voce dei Berici

domenica 2 maggio 2021

Oncologo cancella i debiti sanitari dei suoi pazienti per più di 650 mila dollari

Un oncologo dell’Arkansas, il dottor Omar T. Atiq, cancella 650 mila dollari di debiti per spese mediche da pagare dei suoi pazienti

Un atto di gentilezza e generosità che sta aiutando i pazienti e gli ex pazienti del dottore ad affrontare il nuovo anno in maniera più serena e con meno debiti da saldare.

E’ noto che negli Stati Uniti l’accesso alle cure mediche sia sostanzialmente ad appannaggio di chi ha assicurazioni sanitarie costose che coprono parte dei costi degli interventi, e che per chi non può permettersi una assicurazione le spese sanitarie siano altissime e spesso chi si ammala, come in questo caso, pazienti che lottano contro il cancro, si ritrova poi, una volta guarito a pagare per anni, debiti di migliaia di euro, rispetto alle cure a cui ha dovuto sottoporsi,

Così il dottor Atiq ha deciso di annullare i debiti dei suoi pazienti per le cure sanitarie e ad ognuno di loro ha inviato un biglietto con un saluto personale dal loro ex medico. La nota ringraziava ogni paziente per aver dato fiducia al dottor Atiq e per essersi affidati a lui per le cure, e poi annunciava la generosa sorpresa.

l’oncologo racconta alla CNN di essere sempre stato dubbioso e di non essere mai stato d’accordo con le modalità della sanità statunitense che lascia i cittadini economicamente più bisognosi, pieni di ulteriori debiti da saldare una volta che finiscono delle cure per una malattia, però purtroppo è così che funziona il sistema americano e non c’è nulla che si possa fare, eccetto prendere una iniziativa personale.

Così lo stesso medico ha pensato di agire lui stesso concretamente per chi non si può permettere una assicurazione sanitaria, cancellando tutti i debiti dei suoi pazienti, da quelli di centinaia di dollari a quelli di decine di migliaia di dollari, per un totale di più di 650 mila dollari, che il dottor Atiq non ha incassato per sé, ma con cui ha aiutato molte famiglie in difficoltà finanziaria, soprattutto in questo periodo di crisi sanitaria che ha lasciato molte famiglie bisognose, ancora più in difficoltà.

Quasi 30 anni fa, il Dr. Atiq ha fondato l’Arkansas Cancer Clinic per rendere disponibili cure oncologiche anche a persone economicamente svantaggiate. E’ chiaro che per questo oncologo dal cuore d’oro i bisogni dei pazienti sono sempre stati più importanti che la loro possibilità di pagare.

Il dottor Atiq conosce fin troppo bene l’enorme pressione finanziaria che spesso devono affrontare i pazienti e dall’altro lato, come oncologo, ammette che la cura del cancro spesso comporta spese particolarmente schiaccianti. Sebbene desideri che tutti i suoi pazienti si concentrino semplicemente sulla guarigione, molti semplicemente non sono in grado di farlo e la maggior parte dei suoi pazienti deve lavorare durante il trattamento. Alcuni dei suoi pazienti, comprese le signore anziane, stavano già facendo due lavori prima di ammalarsi.

l’oncologo racconta alla CNN: “Sono fortunato che io e la mia famiglia non abbiamo bisogno di soldi e riusciamo a vivere bene, così abbiamo pensato di fare qualcosa per gli altri rinunciano ai debiti dei miei pazienti. Se questo mio gesto ha dato un po’ di sollievo ed aiuto a chi è in difficoltà, allora sono grato di avere avuto l’opportunità di farlo”.

Non ho mai rifiutato nessun paziente per nessun motivo. Un principio che ho sempre seguito è che sono qui per salvare delle vite. Sentire che i pazienti si fidano di me e ripongono nelle mie mani la fiducia per la propria vita è il più alto privilegio e onore che posso ottenere”.

Ritengo quello che ho fatto un piccolo gesto rispetto a tutto quelli che i miei pazienti mi hanno dato ed insegnato in questi anni: Il coraggio, la resilienza e la dignità che ho imparato dai miei pazienti, questi sono inestimabili”.

23 aprile 2021

FONTE: Positizie.it

mercoledì 18 marzo 2020

Coronavirus, il medico in pensione torna al lavoro: "È dovere"


Il dottor Mario Cavazza, medico in pensione, ritorna in corsia per far fronte all'emergenza: "Se ognuno fa la sua parte, ne usciamo tutti"

C'è bisogno di una mano e di medici, soprattutto quelli, per far fronte all'emergenza sanitaria del Coronavirus. Nuove leve o camici bianchi di comprovata esperienza poco importa, l'imperativo è uno solo: intervenire.

"Mi hanno chiamato per dare un aiuto, ed eccomi qui. Nessuna persona che ami questa città, i suoi cittadini, il proprio lavoro, poteva dire di no", racconta Mario Cavazza, 67 anni, medico in pensione che per lungo tempo ha diretto la medicina d'urgenza del Sant'Orsola di Bologna.

Lo scorso gennaio, dopo 42 anni in corsia, il dottor Cavazza si è svestito del camice per dedicarsi alla famiglia e ai suoi hobby preferiti. Ma poi, un contrordine imprevisto, lo ha costretto a rimettere lo stetoscopio al collo. Ora, è di nuovo in ospedale, dodici ore al giorno, sette giorni su sette. "E' stata la direttrice Chiara Gilbertoni a chiedermi una mano. Se puoi essere d'aiuto alla tua città, ai tuoi cittadini, in un momento così pesante, non puoi dire di no. Quando l'ho comunicato alla mia famiglia, hanno capito subito. Mia moglie è un medico, conosce la mia passione".

Il ritorno improvviso al 'mestiere', dopo la decisione di ritarsi a vita familiare, non l'aveva messo in conto. Stavolta, però, il medico non si occuperà della parte clinica: "Per quella c'è il mio successore Fabrizio Giostra - assicura nel corso di un'intervista rilasciata a La Repubblica - Mi occupo del lato organizzativo, perché dietro questa emergenza c'è un lavoro enorme di coordinamento, anche con i pronto soccorso degli altri ospedali. Certe polemiche del passato, certi campanilismi, si sono appianati. Si combatte tutti insieme o si è schiacciati".

In ospedale, ai tempi della pandemia Covid-19, si sta come in trincea: schierati contro un nemico invisibile. "Già dalle chat con i miei colleghi avevo capito che era una guerra. - continua - E' una illusione tipica degli occidentali pensare che certe cose siano lontane. Un anno e mezzo fa, ero stato a Wuhan e quando ci vai ti rendi conto che non è così distante. Di emergenze infettivologiche ne abbiamo avute tante, dall'aviaria alla Sars. Ma questa ha delle dimensioni inattese. Mi porterò dietro questo bagaglio: ho vissuto anche io una roba terribile".

Più che medici, eroi dei tempi moderni. Moltissimi i giovani dottori arruolati in queste settimane: "Questa situazione turba. Negli occhi c'è la paura, l'abbiamo tutti, ma diciamo anche: 'possiamo farcela'. Ho visto grande passione nei giovani medici, soprattutto tra gli specializzandi in formazione. E ho visto solidarietà tra i colleghi, anche di altre specialità che adesso sono ridotte. Hanno subito detto: 'Come possiamo aiutare?'".

La quarantena è l'unica via praticabile, al momento, per negativizzare i contagi. Cavazza ne è certo: "Ve lo diciamo da esperti: il virus muore se non trova l'ospite. Sparisce. Se non lo trasmetto, prima o poi smette. Capisco gli anziani soli, i ragazzi chiusi in casa: è chiaro ma questa è la strada. Se stiamo a casa, l'epidemia finisce. E poi oggi abbiamo tanti di quei sistemi. Io ho quattro figlie, ieri abbiamo fatto una videochiamata tutti insieme su WhatsApp, è stato molto bello".

L'isolamento forzato può rivelarsi una preziosa opportunità per sdradicare le vecchie abitudini in favore di nuove possibilità. "Può servire credo, a impare a cambiare approccio alla vita - dice il medico - Basta un niente per spazzare via tutto quello che hai costruito. Proviamo a riappropriarci del tempo lento. Lo dico da pensionato che rivede una dimensione che stava ormai perdendo: dobbiamo sempre correre?".

Prima o poi, la pandemia si esaurirà e finalmente il dottor Cavazza potrà dedicarsi al suo hobby preferito: "Quando questa crisi finirà, tornerò a fare l'umarell. Ma ora è giusto essere vicini, presenti. Ognuno deve fare la sua parte. Se tutti fanno un pezzettino, ne usciamo".


di Rosa Scognamiglio

15 marzo 2020

FONTE: il Giornale

lunedì 7 settembre 2015

«La mia Africa torna a vivere»


PROGETTO CUAMM – MEDICI PER L’AFRICA


ENZO PISANI E’ DA TRE ANNI IN SUDAN. GIORNO E NOTTE IN OSPEDALE PER SALVARE VITE E FARNE NASCERE: COSI’ A YIROL I PARTI ASSISTITI SONO TRIPLICATI. COME SI STA FACENDO ANCHE IN ETIOPIA, UGANDA, ANGOLA E MOZAMBICO

La piatta, arida, immobile savana del Sud Sudan è un immagine che assomiglia molto alla realtà del sistema sanitario del giovane paese africano: è all’anno zero. Così nel 2010 era anche a Yirol – 400 chilometri e quasi sette ore di macchina da Juba (capitale del Sud Sudan) – quando un bel giorno vi arrivarono Enzo Pisani e la moglie Ottavia Minervini, per conto della Ong Cuamm – Medici per l’Africa. Compito? Gestire il piccolo ospedale, che doveva servire una contea di 350 mila abitanti e un territorio privo di strutture sanitarie. Famiglia Cristiana giunse a Yirol un mese dopo i due coniugi medici:
«Riguardo alla sanità, è tutto da ricostruire. E non parlo solo delle strutture fisiche», spiegava all’epoca Pisani. «Dopo 20 anni di guerra, la gente non esprime nemmeno più il bisogno di cure mediche. Ha dimenticato pure di avere il diritto alla salute».

NIENTE TURNI, NE’ RIPOSO. Enzo, chirurgo, igienista, specializzato in malattie tropicali, è ancora lì, in Sud Sudan; come pure Ottavia, specializzata in chirurgia d’urgenza e anestesia. Oggi come allora non ci sono turni, né fine settimana di riposo. Si passa in ospedale il giorno intero, spesso anche la notte. La differenza è che i reparti semivuoti di tre anni fa (pronto soccorso, chirurgia, pediatria e maternità) ora sono sempre pieni, nonostante i posti letto siano passati da una quarantina a 120, e i ricoveri da 1800 a 8000 l’anno.
«La morte da parto è quella che indigna di più», diceva allora Pisani. «E’ moralmente inaccettabile. In Italia i casi sono 10 su 100 mila. Qui 2243. Nella sola contea di Yirol in un anno saranno morte 350 donne per dare alla luce un figlio». Oggi, non è più così, almeno in quel piccolo fazzoletto dell’immenso Paese.
In Sud Sudan si muore anche di malaria, di ernia, di una frattura scomposta, di bronchite, di appendicite. Non ci sono strade, industrie, infrastrutture. Un’intera generazione ha conosciuto solo la guerra. Ma a Yirol in tre anni sono stati triplicati i parti assistiti e sicuri (1000 nel 2012, saranno 1200 a fine 2013), con l’arrivo di una nuova ambulanza si riesce a intervenire in fretta nei casi d’emergenza, e le unità mobili girano per tutto il territorio, per visitare e vaccinare.
I coniugi Pisani hanno alle spalle 40 anni d’Africa: Mozambico, Angola, Tanzania, Sud Sudan, l’hanno girata con 5 figli. Presto si sposteranno in Sierra Leone.
«Negli anni 70 siamo partiti per cambiare il mondo. Non ci siamo riusciti. In Africa la gente oggi soffre come allora. Si continua a morire di parto. Perciò, come Cuamm, diciamo “Prima le mamme e i bambini”. Perché non deve accadere più».
In un convegno all’Università Cattolica di Milano, l’Ong ha dato conto dei primi due anni del progetto “Prima le mamme e i bambini” in quattro Paesi africani, Etiopia, Uganda, Angola e Mozambico: quattro ospedali principali, 22 centri di salute periferici, per un totale di 1 milione 300 mila abitanti coinvolti. L’obiettivo: passare da 16 mila a 33 mila parti assistiti all’anno in cinque anni. Al secondo anno, ecco i risultati: oltre 84.700 vite salvate di mamme e bambini, oltre 42 mila parti assistiti nei distretti di riferimento, quasi 91 mila visite prenatali effettuate. Tutto questo grazie all’impegno costante dei medici e operatori sanitari: silenziosi eroi quotidiani, che spendono le loro vite per farne nascere altre ai confini del mondo.
Tujube Dilba Jira ha il viso splendente. E’ la prima volta che arriva in Europa, per partecipare al convegno di Milano. Ha scelto di indossare l’abito della festa, per raccontare la storia delle donne della sua Etiopia. Tujube ha 36 anni, lavora come infermiera e ostetrica all’ospedale di Wolisso, gestito dalla Ong di Padova. E’ sposata e ha due figli, un maschio e una femmina. Racconta di non aver mai smesso di lavorare, neppure durante le sue due gravidanze. La sua missione è aiutare i bambini a venire alla luce.
«Ogni giorno vivo anche un’altra sfida: accrescere la consapevolezza nelle donne, diffondere informazioni, incoraggiare la comunità ad aver cura dei bambini».

IL CAMBIAMENTO A PICCOLI PASSI. Lei, Tujube, è stata fortunata: «Nella mia famiglia ho ricevuto fin da piccola un’educazione. Mia madre lavorava come tecnico di laboratorio per varie Ong. Io sono cresciuta con il suo esempio davanti agli occhi. Grazie a lei, anni fa ho deciso che sarei diventata infermiera». Il suo motto: «Pian piano l’uovo comincia a camminare». In Africa bisogna avere pazienza. I cambiamenti sono piccoli passi. Basta non perdere la perseveranza.
Peter Lochoro, dal canto suo, ha scelto di diventare medico guardando il lavoro dei medici italiani nella sua terra, la Karamoja, regione arida, poverissima nel Nord-est dell’Uganda, al confine col Kenya e Sud Sudan, dove vivono i gruppi tribali seminomadi dei karamojong.
«I medici italiani sono stati la mia ispirazione. Quando io ero ragazzo non c’erano dottori ugandesi in Karamoja. Nella mia famiglia sono stato l’unico a studiare, mio padre volle che almeno qualcuno dei figli avesse un’educazione». Peter ha 45 anni, una moglie infermiera e sei figli: oggi è responsabile-Paese del Cuamm per l’Uganda. «La Karamoja è conosciuta come “territorio italiano”», spiega Peter, «fin dagli anni 70 vi hanno sempre lavorato i medici del vostro Paese». Lui è cresciuto a pochi chilometri da Metany, il villaggio dove ha sede l’ospedale del Cuamm, fiore all’occhiello dell’assistenza sanitaria nella regione.
Peter ha studiato medicina a Kampala:
«A quel tempo in tutta l’università c’erano solo tre studenti karamojomg». In Uganda il Cuamm opera in 11 distretti per un totale di 2,5 milioni di persone assistite. Ma è nella Karamoja che si concentra il grosso dei progetti: «A livello nazionale l’aspettativa di vita è 50,4 anni, tra i karamojong scende a 47,7». L’impegno italiano ha dato i suoi frutti: «Tra il 2006 e il 2011 la regione Nordorientale ha registrato livelli di cambiamento molto più evidenti che nel resto del paese». I progressi arrivano, se si ha la forza di aspettarli. «Nel mondo sviluppato l’Africa è nota per la guerra, la povertà, l’ignoranza, le malattie. Ma in mezzo a questi problemi ci sono la vita, la speranza, la dignità del popolo africano».

Di Giulia Cerqueti e Luciano Scalettari

FONTE: Famiglia Cristiana N. 48
1° dicembre 2013




Cosa sarebbe il nostro mondo se non ci fossero persone come Enzo Pisani e Ottavia Minervini, se non ci fossero medici, missionari, infermieri e volontari che vanno a prestare la loro opera in paesi come L'Africa (e non solo), a vantaggio di popolazioni dove la povertà, la miseria, l'ignoranza, le guerre e le malattie falciano migliaia e migliaia di persone tutti i giorni? Onore e merito allora a tutte queste persone che dedicano il loro tempo, i loro talenti, la loro passione.... in una parola: la loro vita, a favore del prossimo, sopratutto quello più povero e bisognoso dei paesi del Terzo Mondo. Onore e merito a loro, che rendono veramente migliore la terra in cui viviamo. Ma onore e merito, sempre e comunque, a tutti coloro che si dedicano al Bene del prossimo, fosse anche il proprio vicino di casa o la persona bisognosa che abita dietro l'angolo.... sì, perchè per fare del Bene non occorre andare chissà dove, ma si può fare sempre e ovunque, a incominciare, aggiungo io, dalla propria famiglia. Che sia a migliaia di Km di distanza, che sia all'interno della propria abitazione, ognuno di noi può dare il proprio prezioso contributo per rendere migliore la società in cui viviamo. Facciamo di questo ideale di Bene la nostra priorità di vita, impegnamoci veramente a vivere ogni istante della nostra vita con purezza d'intenzioni e Amore vicendevole.
Se lo facessimo tutti, quanto sarebbe migliore il mondo in cui viviamo?

Marco

mercoledì 17 settembre 2014

«Ho ricevuto più di quanto ho dato». La storia di Nadia, l’infermiera che adottò Mario, il bimbo malato abbandonato dai genitori

Nato con un grave handicap nel 2011, il piccolo è morto il 26 gennaio scorso. «Mi dicevano che poi avrei sofferto. “Lo so, ma preferisco soffrire per sempre per averlo amato, piuttosto che non averlo mai accudito»

«Preferisco soffrire per sempre per averlo amato, anche per poco, piuttosto che non averlo accudito». Sono le parole di Nadia Ferrari, 46 anni, infermiera del reparto di patologia neonatale dell’ospedale di Grosseto, che adottò Mario, nato il 16 giugno del 2011 con un grave handicap e morto il 26 gennaio di quest'anno. Il piccolo, abbandonato alla nascita dai genitori, fu trasferito dal Mayer di Firenze, dove era già stato operato diverse volte, all’ospedale di Grosseto.

UN DONO UNICO. Mario arrivò in condizioni terribili, ma per l’infermiera fu da subito un grande dono. «Ricordo che, quando lo vidi la prima volta, era piccolissimo, coperto da tubicini e drenaggi. Aveva assunto posizioni obbligate dall’ospedalizzazione. Fu un colpo di fulmine, mi catalizzava. Erano già arrivati prima di lui altri bambini malati e abbandonati, ma con lui fu diverso. Mario è unico».
Il bimbo passò il primo anno della sua vita fra le cure del personale dell’ospedale e di un gruppo di volontari, facendo avanti e indietro dall’ospedale di Firenze, dove fu rioperato. «Piano, piano, con la fisioterapia, riuscimmo a sbloccarlo e a fargli assumere posture più naturali. Arrivammo anche a dargli da magiare con il biberon, mentre prima si nutriva con la peg. Cominciai a lavorare su di lui da subito. Quando non ero di turno mi fermavo in ospedale e, quando andavo a casa, pensavo a lui, quindi tornavo per dargli da mangiare, fare la ginnastica o giocare».

PROGRESSI IMMEDIATI. Nadia avrebbe voluto adottarlo «ma non credevo si potesse. Fortunatamente un giorno confessai ad alta voce: “Magari lo potessi portare a casa con me!”. Al mio fianco c’era un assistente sociale: “Allora perché non lo fai?”, mi rispose. Non potevo crederci e cominciai subito le pratiche per la richiesta di affido». Era l’agosto del 2012, a marzo dell’anno successivo Mario fu affidato all’infermiera.
«In ospedale lo accudivamo tutti, ma non si poteva dargli il massimo, perché il tempo a disposizione del personale non bastava. Dovevamo curare anche gli altri bimbi». Nadia si mise in aspettativa: «A casa c’eravamo io e mi figlia, così potevo stimolarlo in continuazione. Lo portammo al mare e in montagna, in piscina. I progressi furono immediati: cominciò a mangiare da solo, imparò a tenere su la testa e a muoversi meglio». Dopo un anno e mezzo di calvario il piccolo cominciò ad avere una vita quasi normale, in cui c’era spazio per ridere, fare versi e giocare. «A giugno feci una grande festa per il suo secondo compleanno».

«CIO’ CHE HO RICEVUTO». Molti fra amici e colleghi sono rimasti colpiti dalla generosità di Nadia: «Mi dicevano che stavo facendo tantissimo, ma non capivano che era infinitamente più grande quello che mi dava lui. E non lo dico per dire: Mario mi ha dato gioia, pace, amore. È stato il regalo più bello della mia vita. Sentirlo piangere di rado e senza mai fare capricci, vederlo sereno, sorridente e dignitoso, nonostante la sua sofferenza, era ricevere continuamente speranza». Ma c’era anche chi diceva a Nadia che il suo ero uno slancio sospetto: «Alcuni parlavano di un vuoto che, secondo loro, cercavo di riempire. A dire il vero, ero contenta della mia vita prima di conoscere Mario, lui è semplicemente capitato. E il vuoto, semmai, lo sento ora. Mi manca tantissimo». Nadia si ferma, poi, con la voce strozzata, racconta di altre persone che le dicevano che non valeva la pena sacrificarsi per un bimbo che sarebbe morto: «Dicevano che poi avrei sofferto: “Lo so, soffrirò, ma gli voglio bene”, rispondevo. E poi preferisco soffrire per sempre per aver amato Mario anche per poco, piuttosto che non averlo mai accudito».

DOPO IL CALVARIO. Nadia spiega che avrebbe accolto il piccolo «anche se fosse diventato grande. Sinceramente ci speravo. Avevo già messo in vendita la casa perché non c’era l’ascensore. Avrei dovuto anche cambiare l’automobile. Ma purtroppo non è successo: volevo solo fargli assaggiare un po’ più di vita. Dopo il calvario in ospedale, qui era felice».
Ora a Nadia restano i ricordi e i dialoghi con Mario: «Gli parlo in continuazione anche se è dura non poterlo più accarezzare. Se c’è un paradiso, spero che stia correndo e giocando e di arrivarci». Nadia si ferma ancora, ma questa volta ride: «Così poi lì ci potremo organizzare meglio, che di tempo ce n’è un’eternità…». 

di Benedetta Frigerio

22 aprile 2014

FONTE: http://www.tempi.it/ho-ricevuto-piu-di-quanto-ho-dato-storia-di-nadia-l-infermiera-che-adotto-mario-il-bimbo-malato-abbandonato-dai-genitori#.VBnzMFeeKt_


Esiste al mondo un Amore più grande di quello di una madre? Solo l'Amore di Dio è più grande di questo! Ma dopo l'Amore di Dio penso proprio che non ci sia nulla di più grande e straordinario!
In questa storia meravigliosa, Nadia non è neppure la madre naturale del piccolo Mario, ma è come se la fosse sempre stata, perchè tra i due è stato Amore a prima vista, è scoccata subito quella scintilla che è divenuta immediatamente un vero e proprio incendio d'Amore. E ora il piccolo Mario non c'è più, "Nato al Cielo" poco meno di 5 mesi fa, ma l'Amore di Nadia per lui, c'è da scommetterci, non svanirà mai!
Grazie Nadia, per tutto..... e lasciatemelo dire, grazie a tutte le madri del mondo! Il vostro Amore è pura linfa vitale, che irrora ogni cosa e rende il mondo in cui siamo immensamente migliore. Grazie.

Marco