Il dottor Mario Cavazza, medico in pensione, ritorna in corsia per far fronte all'emergenza: "Se ognuno fa la sua parte, ne usciamo tutti"
C'è bisogno di una mano e di medici, soprattutto quelli, per far fronte all'emergenza sanitaria del Coronavirus. Nuove leve o camici bianchi di comprovata esperienza poco importa, l'imperativo è uno solo: intervenire.
"Mi hanno chiamato per dare un aiuto, ed eccomi qui. Nessuna persona che ami questa città, i suoi cittadini, il proprio lavoro, poteva dire di no", racconta Mario Cavazza, 67 anni, medico in pensione che per lungo tempo ha diretto la medicina d'urgenza del Sant'Orsola di Bologna.
Lo scorso gennaio, dopo 42 anni in corsia, il dottor Cavazza si è svestito del camice per dedicarsi alla famiglia e ai suoi hobby preferiti. Ma poi, un contrordine imprevisto, lo ha costretto a rimettere lo stetoscopio al collo. Ora, è di nuovo in ospedale, dodici ore al giorno, sette giorni su sette. "E' stata la direttrice Chiara Gilbertoni a chiedermi una mano. Se puoi essere d'aiuto alla tua città, ai tuoi cittadini, in un momento così pesante, non puoi dire di no. Quando l'ho comunicato alla mia famiglia, hanno capito subito. Mia moglie è un medico, conosce la mia passione".
Il ritorno improvviso al 'mestiere', dopo la decisione di ritarsi a vita familiare, non l'aveva messo in conto. Stavolta, però, il medico non si occuperà della parte clinica: "Per quella c'è il mio successore Fabrizio Giostra - assicura nel corso di un'intervista rilasciata a La Repubblica - Mi occupo del lato organizzativo, perché dietro questa emergenza c'è un lavoro enorme di coordinamento, anche con i pronto soccorso degli altri ospedali. Certe polemiche del passato, certi campanilismi, si sono appianati. Si combatte tutti insieme o si è schiacciati".
In ospedale, ai tempi della pandemia Covid-19, si sta come in trincea: schierati contro un nemico invisibile. "Già dalle chat con i miei colleghi avevo capito che era una guerra. - continua - E' una illusione tipica degli occidentali pensare che certe cose siano lontane. Un anno e mezzo fa, ero stato a Wuhan e quando ci vai ti rendi conto che non è così distante. Di emergenze infettivologiche ne abbiamo avute tante, dall'aviaria alla Sars. Ma questa ha delle dimensioni inattese. Mi porterò dietro questo bagaglio: ho vissuto anche io una roba terribile".
Più che medici, eroi dei tempi moderni. Moltissimi i giovani dottori arruolati in queste settimane: "Questa situazione turba. Negli occhi c'è la paura, l'abbiamo tutti, ma diciamo anche: 'possiamo farcela'. Ho visto grande passione nei giovani medici, soprattutto tra gli specializzandi in formazione. E ho visto solidarietà tra i colleghi, anche di altre specialità che adesso sono ridotte. Hanno subito detto: 'Come possiamo aiutare?'".
La quarantena è l'unica via praticabile, al momento, per negativizzare i contagi. Cavazza ne è certo: "Ve lo diciamo da esperti: il virus muore se non trova l'ospite. Sparisce. Se non lo trasmetto, prima o poi smette. Capisco gli anziani soli, i ragazzi chiusi in casa: è chiaro ma questa è la strada. Se stiamo a casa, l'epidemia finisce. E poi oggi abbiamo tanti di quei sistemi. Io ho quattro figlie, ieri abbiamo fatto una videochiamata tutti insieme su WhatsApp, è stato molto bello".
L'isolamento forzato può rivelarsi una preziosa opportunità per sdradicare le vecchie abitudini in favore di nuove possibilità. "Può servire credo, a impare a cambiare approccio alla vita - dice il medico - Basta un niente per spazzare via tutto quello che hai costruito. Proviamo a riappropriarci del tempo lento. Lo dico da pensionato che rivede una dimensione che stava ormai perdendo: dobbiamo sempre correre?".
Prima o poi, la pandemia si esaurirà e finalmente il dottor Cavazza potrà dedicarsi al suo hobby preferito: "Quando questa crisi finirà, tornerò a fare l'umarell. Ma ora è giusto essere vicini, presenti. Ognuno deve fare la sua parte. Se tutti fanno un pezzettino, ne usciamo".
di Rosa Scognamiglio
15 marzo 2020
FONTE: il Giornale
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