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martedì 4 febbraio 2020

Alessandro Frigiola, l'“Angelo” dei bambini malati di cuore


Alessandro Frigiola è una di quelle persone che, per dirla in poche e semplici parole, “fanno del gran Bene alla nostra società”.
Nato nel 1942 a Bressanone, da una mamma casalinga e da un papà dipendente dell'Inps, all'età di 4 anni si trasferisce a Vicenza, città nella quale vive ancora oggi. Frequenta il liceo classico e nel 1970 si iscrive all'università, alla facoltà di Ingegneria a Padova. Il percorso del giovane Alessandro sembra scorrere su binari ben definiti, fino a quando, nell'estate del 1971, accade un fatto che cambia radicalmente le prospettive della sua vita. Quasi per caso gli capita tra le mani il libro "La cittadella" di Joseph Cronin, un romanzo che tratta la vita di un giovane e idealista medico scozzese, Andrew Manson, che tasta con mano l'arretratezza delle università e la superficialità con cui i medici trattano spesso i loro pazienti. Il romanzo colpisce "diritto al cuore" il giovane Alessandro, che cambia immediatamente facoltà e si iscrive a Medicina, con l'intento, una volta divenuto medico, di dedicarsi alle necessità dei più poveri e bisognosi. Già durante gli studi universitari Frigiola si iscrive al Cuamm, un'organizzazione umanitaria che cura i malati in Africa, quindi negli anni seguenti si reca più volte nei paesi del Terzo Mondo dove, tra l'altro, ha anche la Grazia di incontrare e conoscere padre Giuseppe Ambrosoli, il missionario medico che operò per trent'anni in Uganda.

Alessandro Frigiola decide di specializzarsi in cardiochirurgia infantile data l'altissima percentuale di mortalità (quasi il 50%) tra i bambini malati di cuore che ancora vi era negli anni Settanta. Una volta laureato, Frigiola si trasferisce per qualche anno a Marsiglia, dove il suo maestro, il professor José Aubert, lo inizia alla professione e dove avviene un episodio che segna indelebilmente la sua vita. Il piccolo Amadou, un bambino di appena quattro anni, entra nella sala operatoria dell'ospedale di Marsiglia per un operazione al cuore, in condizioni gravissime. Dopo ore di intervento, iniziano i tentativi di rianimare il cuore del bambino, tenuto in vita grazie alla macchina cuore-polmone e alla circolazione extracorporea del sangue. Per quattro lunghe ore l'equipe del professor Aubert con il professor Frigiola cercano di rianimare il bambino, ma invano. Quando tutto sembra ormai perduto il professor Aubert si arrende e chiede che la macchina cuore-polmone venga staccata, Frigiola però non ci sta e rimane per altre quattro ore a massaggiare qual piccolo cuore fino a quando, contro ogni aspettativa, riprende a battere... e il bambino a vivere. Questo episodio straordinario motiva grandemente il professore che comprende più che mai quanto questa sia la strada della sua vita.


Durante un viaggio missione in Vietnam compiuto in compagnia del professor Lecompte, Alessandro Frigiola rimane sconcertato nel vedere l'altissima percentuale di mortalità tra i bambini con malformazioni cardiache: “Non potevo vedere migliaia di bambini morire di cuore entro il primo anno di vita senza fare nulla!”. Per questa ragione, insieme alla professoressa Silvia Cirri, nel 1993 fonda l'associazione “Bambini Cardiopatici nel Mondo”, composta oggi da una squadra di oltre 300 medici ed operante in 27 paesi di tutto il mondo. L'associazione invia mensilmente medici in missioni per operare i bambini con patologie cardiache, trasformando spesso delle tende da campo in ospedali super attrezzati e tecnologici, con l'intento però di gettare delle solide "basi" affinché le missioni vadano avanti poi con le proprie gambe. All'Ospedale di San Donato Milanese (dove, dal 1990, Frigiola è primario della divisione di cardiochirurgia nel Centro Cardiovascolare Edmondo Malan) vengono invece formati i medici locali da inviare in ogni parte del mondo per operare e guarire bambini e neonati malati.

Il Professor Alessandro Frigiola ha operato ad oggi oltre dodicimila pazienti di cui più della metà bambini (con una percentuale d'insuccesso inferiore al 5%), e facendo parte di 435 missioni. Di indole positivo e ottimista non smette mai di definire gli italiani come “un popolo di persone estremamente generose”, anche se non manca di denunciare certe carenze dei nostri ospedali che a suo dire non sono “a misura di bambino” come invece sono in paesi quali gli Stati Uniti, il Canada e l'Inghilterra.
Il professore è passato recentemente anche agli onori della cronaca per avere contribuito a salvare la vita della piccola Amina, una bambina di appena dieci giorni, che necessitava di cure urgentissime e per la quale sembrava non esserci più alcuna speranza (vedi: Io sono una persona x bene). Del resto il professor Frigiola è fatto così, professionale, determinato e pieno di energia e progettualità. E nonostante le tante "primavere" sulle spalle, lotta costantemente per la vita dei suoi pazienti perché, per sue stesse parole non riesco mai ad abituarmi alla morte.

Grazie caro Professore, di tutto!

Marco


FONTI: “Eroi quotidiani” di Giovanni Terzi, Il Piacenza, Io sono una persona x bene

martedì 20 agosto 2019

Le suore che salvano gemelli e disabili dalla morte


Nell’ex colonia portoghese con capitale Bissau c’è la diffusa consuetudine, dettata dalla superstizione, di abbandonare il primo nato di due gemelli e anche i bimbi disabili, spesso lasciati morire nella foresta. È in tale contesto che agiscono le Suore Benedettine della Divina Provvidenza e le Missionarie dell’Immacolata, la cui opera è fondamentale per custodire queste vite indifese.

Se venire al mondo in Guinea-Bissau non è facile, lo è anche di meno per i nati da parto gemellare. Nell’ex colonia portoghese, infatti, continua a essere presente la consuetudine di abbandonare il primo nato di due gemelli, spesso lasciandolo morire nelle aree paludose della foresta o sulle rive del fiume.

Non a caso, da una ricerca realizzata dall’Odense University Hospital sull’andamento demografico nella capitale del Paese africano nel periodo tra il 2009 e il 2011, è emerso come i gemelli avessero una mortalità perinatale molto elevata, tre volte superiore a quella dei singoli. Una situazione legata alla sopravvivenza di credenze ancestrali che identificano questa categoria come portatrice di pericoli e sventure. Alla luce di queste rappresentazioni culturali dure a scomparire, queste esistenze vengono lette come un’incognita nel rapporto tra l’umano e il divino, da "risolvere" con l’alienazione o l’eliminazione fisica.

L’usanza continua a essere praticata nelle società Balanta e Mansoanca, dove questi bambini vengono spesso considerati posseduti da spiriti maligni, gli “iran”. La stessa sorte è riservata ai nati con disabilità, anch’essi ritenuti posseduti e per questo abbandonati nella foresta, dove vanno incontro a morti orribili; o sbranati dagli animali o uccisi nel corso di cerimonie rituali. In questi casi, le madri, per l’ostracismo della comunità in cui vivono, sono condotte a consegnare i propri figli nelle mani degli stregoni del villaggio.

Ci sono storie, però, di donne più forti delle superstizioni che, con coraggio, sono riuscite a salvare i loro pargoli da questa fine atroce: è il caso di Nita che riuscì, attraversando un fiume in canoa da sola, a portare in salvo la sua bambina nata senza una gamba e con una mano malformata, affidandola alle cure di una suora in missione. Oggi la piccola, arrivata in Sicilia con l’aiuto dell’associazione “Amici della Missione” di Acireale, ha 11 anni e grazie alle cure del Centro ortopedico Ro.Ga. di Enna ha imparato a camminare e persino a ballare.

Vicende come quest’ultima aiutano a comprendere l’importanza dell’azione missionaria della Chiesa, impegnata a difendere, per citare le parole che san Giovanni Paolo II ebbe a pronunciare nel 1990 proprio a Bissau, “l’inviolabile dignità della persona umana, in modo che tutti siano portati a riscoprirla alla luce del Vangelo”. È quello che fanno le Suore Benedettine della Divina Provvidenza che, nella città di Catió, si occupano di accudire nel Centro nutrizionale della missione i piccoli abbandonati, perché gemelli o disabili, o aiutano nell’allattamento e nell’istruzione quelle madri che hanno scelto, invece, di tenerli e crescerli nonostante i pregiudizi. Quest’attività viene affiancata da corsi di formazione rivolti alle donne dei villaggi vicini, con lezioni anche sulla disabilità e sulla gemellarità per sfatare le credenze popolari che sono all’origine della pratica degli infanticidi.

Un’altra realtà importante che agisce a difesa della vita in un Paese dove ignoranza diffusa, estrema povertà e instabilità politica rendono non poco complicata quest’opera, è rappresentata da Casa Bambaran a Bissau. Si tratta di una struttura gestita dalle Missionarie dell’Immacolata dove trovano accoglienza quei bambini strappati a una morte sicura perché disabili o gemelli nati per primi. Il centro, situato nella periferia della capitale, prende il nome dal tessuto che le donne africane utilizzano tradizionalmente per avvolgere i neonati. Qui i bambini abbandonati nelle strade e nelle foreste hanno la possibilità di iniziare un percorso scolastico e vengono aiutati, grazie a una sviluppata rete di contatti con le parrocchie, a trovare famiglie disposte a prenderli in affido.

La presenza della Chiesa cattolica costituisce in molti casi, come abbiamo visto per la storia di Nita e della sua piccola nata con una malformazione, l’unica opportunità di sopravvivenza per questi piccoli non accettati dalle comunità d’appartenenza per la loro "diversità".

Un argine contro quella cultura dello scarto che in questo caso specifico continua a fare vittime a causa della persistenza di credenze ancestrali, ma che negli ultimi decenni si vorrebbe ulteriormente rivitalizzare in Africa attraverso quella che Francesco chiama “colonizzazione ideologica” e che passa mediante la promozione di pratiche contro la vita come, ad esempio, l’aborto selettivo.

di Nico Spuntoni

4 agosto 2019

FONTE: La nuova Bussola Quotidiana


E' tristissimo vedere come, ancora nel 21° Secolo, debbano esistere in certe parti del mondo culture e credenze così macabre che portano alla morte un gran numero di piccole creature innocenti. Ma, grazie al Cielo, esistono i missionari, queste anime "belle" che si occupano di salvare questi bambini da questi assurdi infanticidi, causa di una mentalità retrograda e nefasta.
Non si potrà mai ringraziare abbastanza l'opera dei missionari nel mondo, uomini e donne che dedicano tutta la loro vita a favore dei più poveri, degli indifesi, degli anziani, dei malati, dei bambini.... per Amore loro e a Gloria di Dio. Da parte mia, posso solamente dire, con tanta gratitudine e riconoscenza, il mio più sentito "Grazie".

Marco

domenica 28 ottobre 2018

La bella storia di nonna Irma, a 93 anni in Kenia per aiutare i bambini dell'orfanotrofio


Se qualcuno pensa che una persona dopo i 90 anni non sia più in grado di fare niente di importante, se non forse stare a casa a guardare e accudire i propri nipoti o pronipoti (cosa comunque lodevolissima e di grande importanza) legga questa storia.... e si ricreda.

Lei si chiama Irma Dallarmellina, "nonna" Irma per tutti, e ha 93 anni. E' una persona forte, ha visto la guerra, è rimasta vedova a 26 anni, con tre figli a carico, e poi ha perso una figlia. Vive a Noventana Vicentina e circa 10 anni fa ha conosciuto Francesca Fontana e Giannino Del Santo, una coppia vicentina, moglie e marito, che vanno in missione tutti gli anni in Kenia per un mese all'anno. Coinvolta dal loro esempio ed entusiasmo, nonna Irma ha iniziato ad aiutarli come poteva, con piccole ma importanti donazioni in denaro, quello che la sua pensione gli ha permesso di fare. In questo 2018 però non si è accontentata di questo e ha voluto fare di più..... ovvero andare lei stessa, di persona, in Kenia, nonostante le sue 93 primavere. Così, assieme alla figlia, con il suo trolley rosso e il suo bastone di sostegno, il 20 febbraio di quest'anno è partita alla volta di Nairobi per rimanervi tre settimane e offrire le sue mani, la sua esperienza e la sua simpatia ai bambini dell’orfanotrofio.
Appena arrivata in Kenia nonna Irma ha voluto subito incontrare Don Remigio, un missionario "giovanotto" come lei, che da vari anni sostiene economicamente, e che da diverso tempo è ricoverato in ospedale perché malato. Dopo di ciò ha voluto incontrare immediatamente i bambini del posto.... ed è stata gioia grande per tutti! Con Francesca e Giannino, i volontari che l'hanno "coinvolta" in questa avventura, nonna Irma è andata a visitare l'orfanotrofio che la missione gestisce, quindi ha trovato il tempo di inviare qualche foto e un messaggio vocale a casa, poca roba perché le comunicazioni non sono facili, ma comunque molto significativi:
Sto bene. Il viaggio è stato lungo, ma sono già operativa. E sono felice!.

Questo semplice messaggio e queste foto sono state postate sui social network dalla nipote Elisa Coltro e in men che non si dica sono diventate “virali”, raccogliendo in breve tempo migliaia di like e condivisioni.Questa è la mia nonna Irma – scrive Elisa -  una giovanotta di 93 anni, che stanotte è partita per il Kenya. Non in un villaggio turistico, servita e riverita, ma per andare in un villaggio di bambini, in un orfanotrofio. Ve la mostro perché credo che tutti noi dovremmo conservare sempre un pizzico di incoscienza per vivere e non per sopravvivere. Guardatela... ma chi la ferma? Io la amo”.



La nipote Elisa, come si può ben comprendere da queste parole, è orgogliosa della sua amata nonna, e non lo nasconde:
Mia nonna ha sempre amato la vita e non si è mai fermata davanti a niente. Ha dedicato la sua esistenza alla famiglia e ad aiutare chi le stava vicino - racconta - Per me è sempre stata un esempio. Un esempio che la nipote ha raccolto nel migliore dei modi dal momento che in estate, da qualche anno a questa parte, anziché andare in vacanza come fa la maggior parte dei suoi coetanei, adopera le proprie ferie per aiutare i rifugiati siriani nei campi greci. Ed è proprio il caso di dire che "buon sangue non mente".

Nonna Irma in Kenia è diventata subito la nonna di tutti. Nella sua valigia rossa ha portato pochissimi indumenti, per lasciare spazio ad ago, filo colorato, forbici, colla e a tante cartoline, perché lei è sempre stata bravissima a cucire delle scatole con le vecchie cartoline. Lo fa a casa, per gli amici, e lo ha fatto in viaggio per i nuovi piccoli amici kenioti. In ogni scatola c'è l'amore di un oggetto fatto a mano e un sorriso.

La bella esperienza di nonna Irma in territorio africano, come detto, è durata tre settimane, al termine delle quali è rientrata nella sua casa di Noventana Vicentina. Un esperienza che le è rimasta nel cuore: “Ho visto tante cose belle, ma anche tanta miseria - afferma - Mi sono rimasti nel cuore i bambini, ma non hanno niente. Neanche l'acqua e le strade. E' una vergogna. Se avessi una proprietà mia venderei tutto e lo darei al Kenya. Ma sono povera e vivo solo della mia pensione”.
Nonna Irma è diventata un esempio per chi vuole partire per l'Africa, ma lei dice: “Non devono fare come me, che sono rimasta poco. Devono rimanere per dei mesi. Anziché andare in vacanza al mare, devono andare in Kenya”. Poco tempo dice lei.... ma quando si ha un età come la sua, ogni giorno speso in questo modo è oro puro.
Nonna Irma ha anche le idee molto chiare su ciò che andrebbe fatto, e non si nasconde certamente dal dirlo: “Mettere i soldi che si spendono per le guerre per costruire invece delle fabbriche. E mettere anche del sale in zucca a quei quattro che comandano il mondo: andate a farle voi le guerre, se vi piacciono tanto!”.
Parole forti e taglienti, da parte di chi di cose ne ha viste e fatte tante!


E' veramente una bella storia questa di nonna Irma e lei è un bellissimo esempio per tutti, che ci ricorda più che mai come questo Dono preziosissimo che si chiama "Vita" vada vissuta pienamente, con forza, coraggio e tanta buona volontà. Ma sopratutto ci ricorda di "spenderla bene", con tanto Amore, per aiutare il nostro prossimo, in particolar modo quello più bisognoso. Grazie di tutto nonna Irma!

Marco

Febbraio - Marzo 2018

FONTI: Repubblica, Greenme, Tg com24, La Stampa, Il Corriere, Volontariatoggi

domenica 17 dicembre 2017

Costruire il futuro? E' un gioco da ragazzi


LE MISSIONI DON BOSCO OPERANO IN CIRCA 50 PAESI

Dalla Liberia alla Cambogia, dall'India alle Filippine, anche in Siria, sotto le bombe. Scuole, centri di formazione professionale e oratori aperti a tutti, cristiani e non. Parla il presidente Giampietro Pettenon

Sono in Liberia e in Cambogia, in India e nelle isole Salomone, in Congo e nelle Filippine. Sono perfino ad Aleppo (Siria), dove, anche sotto le bombe, organizzano “estate ragazzi”. Dei 16 mila religiosi che compongono la congregazione salesiana, circa 10 mila vivono sparsi nel mondo, a fianco dei giovani. «La dimensione missionaria ci appartiene fin dalle origini» spiega Giampietro Pettenon, un coadiutore salesiano presidente delle Missioni don Bosco. E nonostante la straordinaria diversità di ambienti di vita, ci sono alcune costanti. «Le nostre scuole e i nostri centri di formazione professionale sono aperti a tutti, cristiani e non e ovunque sono riconosciuti per il loro impegno formativo». Poi, naturalmente, c'è l'oratorio. «Un cortile, un pallone e una persona pronta ad accoglierti. Questo modello funziona a tutte le latitudini. Senza mai rinnegare quello che siamo» riflette Pettenon, «sappiamo avere uno stile molto “laico” che ci consente di raggiungere le realtà più lontane. Siamo accettati e rispettati in Myanmar, un Paese ateo».
In tempi di grande instabilità, molti missionari sono esposti a pericoli e a volte pagano con la vita: «Tra le aree più critiche lo Yemen e la Siria». Ma anche quando non ci sono forti tensioni politiche, ogni giorno si combatte la battaglia contro vecchie e nuove forme di disagio, «a cominciare dalla durissima realtà dei ragazzi di strada, presente in tante grandi città del mondo».
Per sostenere questo straordinario impegno ci sono le Missioni don Bosco, collegate a una cinquantina di Paesi. Oltre 200 mila sono i benefattori che scelgono di dare un contributo. «Sono la nostra forza. Su indicazione del fondatore, ogni giorno preghiamo per loro durante la prima Messa mattutina celebrata nella basilica di Maria Ausiliatrice a Torino, punto d'origine dell'esperienza salesiana». Per saperne di più: www.missionidonbosco.org 011/3990101

di Lorenzo Montanaro


NEL CUORE DELL'AFRICA

Dalla strada alla vita, i miracoli di Lubumbashi


Nella terza città del Congo i Salesiani ofrono ai ragazzi poveri ed emarginati una concreta possibilità di riscatto sociale


Quando lo vedono arrivare, a bordo del suo furgone, i bambini di strada gli corrono incontro e lo abbracciano. Padre Eric Meert, sacerdote belga, è uno dei salesiani presenti a Lubumbashi, la terza città del Congo. Per migliaia di giovani costretti a vivere di espedienti, senza famiglia né un tetto, lui è uno dei pochissimi punti di riferimento, è un sorriso da incontrare, una carezza da ricevere, insieme con una concreta proposta di cambiamento.
Quella congolese è una missione storica, la più antica presenza salesiana in Africa: la sua fondazione risale al 1911. Nel tempo questa realtà ha dovuto e saputo trasformarsi, per servire i nuovi poveri e modellarsi sui cambiamenti di una terra dai mille contrasti.
«A Lubumashi da anni la situazione dei bambini di strada è divenuta un'emergenza» ci racconta Alessia Andena, del dipartimento progetti Missioni don Bosco, appena rientrata dal Congo. «Arrivano da tutto il paese, nella speranza di trovare un'alternativa alla desolante povertà delle campagne». Ma quando, completamente soli, raggiungono la città, incontrano un destino duro e pieno di pericoli.
Tra le baracche sgangherate si possono raccogliere tante storie. «Molti ragazzi finiscono sulla strada perchè i genitori non li possono mantenere: manca il cibo e l'istruzione non è gratuita. Altri vi arrivano a seguito di disgregazioni familiari». Ma ci sono anche fattori culturali. «Vi sono bambini che vengono accusati di stregoneria. Può bastare un'anomalia del comportamento, magari dovuta a forme di disabilità, oppure una disgrazia in famiglia per la quale si cerca un capro espiatorio. E' una ferita profonda: se non si interviene in tempo lascia i segni per tutta la vita».
A questo si aggiungono tutti i pericoli legati alla vita di strada: il degrado, il rischi di subire abusi, il consumo di droghe. Ecco i mille volti che padre Eric incontra ogni notte, mentre gira i quartieri periferici insieme a un confratello burundese. Ogni ragazzo, con il suo nome e la sua storia, riceve un'attenzione unica e personale. E per tutti c'è la proposta di andare al centro di Bakanja Ville, il primo passo verso una nuova vita. In questa struttura salesiana (una ventina i padri che vivono a Lubumashi, cui si affianca il lavoro di assistenti sociali, psicologi, educatori) i ragazzi ricevono una prima assistenza in una casa sicura. «Quando possibile si cerca di reinserirli nelle famiglie d'origine. E si offre loro la possibilità di studiare, gratuitamente, per costruirsi un futuro» spiega ancora Alessia Andena.
Sul modello di don Bosco, anche in Congo i Salesiani hanno avviato scuole e centri di formazione professionale, che formano meccanici, falegnami e molti altri professionisti. «Grazie a questi percorsi tanti giovani riescono a uscire dal disagio. Quando capiscono di essere amati, il cambiamento diventa possibile». Una storia, tra tante? «Ho incontrato un bimbo di soli nove anni. Timido e gentile, era in strada da quattro giorni e dormiva da solo. Gli ho promesso che a Bakanja Ville ci saremmo incontrati. E lui mi ha dato fiducia».

di Lorenzo Montanaro

FONTE: Famiglia Cristiana N. 30
24 luglio 2016


Che opera straordinaria che compiono i missionari nel mondo! Essi portano Fede, speranza, aiuto morale e materiale, amicizia.... e tanto altro ancora. E lo portano sopratutto nei luoghi dove la povertà, l'ignoranza, l'anarchia e le guerre la fanno spesso da padrone. I missionari sono veramente una grande "Luce" accesa nel mondo!
Ricordiamoci spesso di loro.... ricordiamoci di loro e sosteniamoli sia materialmente che spiritualmente, perchè essi hanno bisogno di noi, così il mondo ha bisogno di loro!

Marco

venerdì 12 dicembre 2014

“Torino, la mia Africa”

Ha lasciato il lavoro per dedicarsi ai più bisognosi. Paolo guida l'associazione Amici di Lazzaro e fa il missionario nelle zone degradate del capoluogo piemontese

Sognava di andare in missione nel Terzo Mondo. Poi ha scoperto che la sua Africa, le sue favelas sono qui in Italia. A Torino, tra mendicanti, tossici, senza fissa dimora e prostitute: Paolo Botti è per tutti loro una piccola stella cometa. Attraverso la sua associazione Amici di Lazzaro dal 1997 fino a oggi ha avvicinato migliaia di persone che hanno conosciuto degrado, solitudine, perdita della propria dignità. Persone sfruttate o abbandonate a sé stesse, incamminate verso un destino infelice e rinate grazie all'impegno di Paolo e della sua squadra di volontari: “Sin da giovanissimo – racconta – sentivo dentro di me solo un desiderio: fidarmi di Dio e vivere per il bene e per il Vangelo. Volevo occuparmi dei poveri, dei giovani, e offrire loro una speranza, una prospettiva di vita”.

Fare il volontario

La sua storia, in tempi di crisi occupazionale può sembrare paradossale. A 18 anni abita da solo e inizia a lavorare alla Comau, un azienda del gruppo Fiat, come progettista elettronico. Intanto si iscrive alla facoltà di informatica. Dopo qualche anno, però, lascia gli studi e appena ottenuta una promozione e un aumento di stipendio, decide di licenziarsi per abbracciare la sua vocazione.
Quando lavoravo facevo una vita da povero in un alloggio spartano, non avevo la tv, né l'automobile, nessuna spesa superflua, Poi ho deciso di licenziarmi, ho regalato tutto quello che mi restava, mobili, dischi, libri”. A quel punto Paolo va a vivere in una piccola comunità gestita a Torino dai padri gesuiti con i quali è già in contatto da tempo. Lavora con loro all'accoglienza prima di famiglie e profughi della guerra di Bosnia, poi di vittime di tratta africane e dell'est. “E' in quel contesto che ho trovato l'Africa e i poveri senza lasciare l'Italia. La mia condizione di partenza – racconta – non era di infelicità o insoddisfazione, anzi era proprio il mio essere felice che mi incoraggiava a condividere il mio star bene, dentro e fuori, con gli altri
.

Quelle notti alla stazione centrale della città

In quegli anni l'attività di Paolo non è solo circoscritta al supporto dei gesuiti all'interno dell'istituto. Porta con sé la vocazione del volontario itinerante. Inizia, così, ad accompagnare un padre gesuita francese durante le sue "spedizioni" settimanali alla stazione Porta Nuova.
Ho cominciato ad andare alla stazione per stare con i barboni”, ricorda. “Eravamo in cinque o sei, guidati da padre Jean-Paul. Una sera la settimana andavamo a trovarli, parlavamo con loro, cantavamo e pregavamo insieme, e alla fine si distribuivano cibo, bevande calde e vestiti”. Quando padre Jean-Paul lascia Torino, Paolo decide di intensificare la collaborazione con i gesuiti e fondare, al contempo, un associazione che si occupi dei bisognosi, andandoli a cercare alla stazione centrale e nelle periferie torinesi più degradate. Nasce così, nel 1997, Amici di Lazzaro, associazione formata da un gruppo di ragazzi dinamici, energici. Subito concentrano la loro attenzione su uno dei drammi peggiori di Torino, il mercato delle vittime di tratta, sopratutto giovanissime e donne nigeriane. Ne studiano i movimenti, tentano più volte il dialogo con le prostitute. Paolo si reca persino in Nigeria per inquadrare meglio le origini del fenomeno.

Aiuto concreto alle donne vittime di tratta

Dal 1999 iniziano le uscite notturne: gruppi di volontari, a turno, incontrano le ragazze e, tra le altre cose, le informano sulla possibilità, prevista dall'articolo 18 della legge 286 del 1998, di usufruire di un programma di protezione nel caso in cui denuncino gli sfruttatori. Ma entrare nel loro mondo non è semplice ed è anche molto rischioso. Gli Amici di Lazzaro si organizzano in unità di strada. Man mano si stabiliscono rapporti di fiducia e alcune di esse denunciano i loro protettori.
L'associazione avvia collaborazioni con il Comune, la Caritas e il gruppo Abele per creare una sorta di rete contro lo sfruttamento della prostituzione su tutto il territorio torinese. L'intesa è fruttuosa e alcune delle ragazze che si avvicinano agli Amici di Lazzaro si ritrovano libere e inserite in contesti di lavoro come colf, baby sitter oppure badanti.

Dio è accanto a lui

Col tempo i numeri crescono e ormai centinaia di donne ogni anno dialogano con i volontari dell'associazione. Sono aumentate le unità d'azione, rivolte anche ai senza dimora e ai bambini di strada costretti all'accattonaggio o a lavare i vetri ai semafori. Un avventura che per Paolo è diventata una ragione di vita e nella quale ha un compagno speciale, il Signore, che lo affianca quotidianamente.
Prego spesso e durante la giornata cerco di non far mancare letture spirituali, decine del rosario dette qua e là e tante preghiere brevissime che riempiono i momenti tra le tante cose da fare e da vivere. Ho avuto tante difficoltà, tanti problemi superati che ora mi sembrano piccoli, perchè vedo che mai sono stato abbandonato da Dio. Ora, quando mi si presenta davanti un dubbio o una difficoltà, mi chiedo: "Ti è mai mancato qualcosa? Ti ha mai lasciato solo Dio?" E la risposta è "No, non sono mai stato solo, mai mi è mancato qualcosa". Quindi vado avanti con fiducia”.

La Fede profonda di bisognosi e prostitute

Per Paolo “la Fede dei poveri in genere è più forte della nostra. Spesso si pensa che i poveri preghino o credano perchè hanno bisogno, in realtà credono e hanno Fede nonostante i loro bisogni. E tante volte io stesso e i nostri volontari siamo colpiti dalle preghiere di ringraziamento a Dio fatte dalle ragazze sfruttate, che in strada intonano i loro canti di grazie per la vita, per le cose che hanno, per l'Amore che ricevono... e noi sappiamo che hanno poco, che soffrono tanto, che vengono maltrattate e sfruttate, eppure ringraziano e sanno vedere il bene che c'è intorno a loro”.

Il dono della catechesi tascabile

La Fede, dunque, è punto in comune, un punto d'incontro tra l'azione di Paolo e chi vive sulla strada. La condivisione della Parola di Dio è un momento per avvicinarsi, per tendersi la mano reciprocamente.
Noto che i poveri hanno un idea di Dio semplice e nel mio piccolo cerco di dare loro strumenti per approfondire come preghiere o catechesi semplici di Benedetto XVI o di Papa Francesco nella loro lingua, dal cinese all'inglese, dall'arabo al francese. A tutti – conclude – dico di pregare per me e per l'associazione, perchè credo davvero che Dio ascolti il grido dei poveri”.

A SCUOLA DI INTEGRAZIONE

Dal giugno 2000 gli Amici di Lazzaro hanno avviato un corso gratuito di italiano per donne straniere di ogni provenienza e livello culturale. Oltre alle lezioni vengono proposte anche iniziative di aggregazione (gite, cene e incontri tra giovani italiani e stranieri), e di formazione culturale (diritti e doveri, visite a musei, mostre e monumenti) e spirituale (incontri con le comunità etniche torinesi, catechesi, la World's Prayer, preghiera collettiva mensile promossa dall'associazione).

GRUPPO STAZIONI, NON SOLO AIUTO MATERIALE

PortaNuova-binari. PortaSusa. PortaNuova-centro: sono questi i tre gruppi che operano tra i senzacasa nelle stazioni ferroviarie di Torino. E' qui che gli Amici di Lazzaro hanno iniziato ad ascoltare, parlare, cantare con chi vive senza una casa. Nelle due più importanti stazioni di Torino sono centinaia i senza dimora che ogni giorno chiedono aiuto. A loro si offre una coperta, un sacco a pelo, un vestito pulito.
Il nostro carisma – spiegano i volontari – non è offrire il semplice aiuto materiale, quanto il dare prima di tutto amicizia, preghiera, ascolto e attenzioni. E' poi dall'amicizia che si arriva anche all'aiuto materiale”.

CON I POVERI DI TRE CONTINENTI


Da aspirante missionario, Paolo Botti non poteva che dedicare una serie di progetti ad alcune delle zone più sofferenti del mondo. Gli Amici di Lazzaro sostengono iniziative in Europa, Asia e Africa. In Romania, a Timisoara, fanno da supporto a una casa per ragazzi abbandonati fondata dalla Caritas locale. In Iraq, a Baghdad, lavorano con una parrocchia che da aiuto materiale ai poveri del quartiere. In Egitto a ElMinia, aiutano Casa Letizia che si occupa di orfani e famiglie povere. Nel Sudan, a Rumbek, operano in progetti che mirano a portare l'acqua a piccoli ospedali e un progetto pastorale per l'educazione dei giovani. In Nigeria, a Lagos, è in cantiere un progetto di prevenzione della tratta, reinserimento di ragazze rimpatriate e appoggio a famiglie vittime di minacce.


Di Gelsonimo Del Guercio

FONTE: A Sua Immagine N. 99
29 novembre 2014


Una storia bellissima, che si commenta da sola.
Ragazzi, pensiamoci un attimo..... avere un buon lavoro (cosa al giorno d'oggi, tutt'altro che scontata), belle prospettive, una vita soddisfacente..... e nonostante questo lasciare tutto, per inseguire un sogno, un ideale, una vocazione..... e dedicarsi al prossimo, quello più disagiato, quello dei poveri, dei barboni, delle donne sfruttate. Ma l'Amore è anche questo, una forza irresistibile che ti porta a fare scelte anche radicali, lasciando la sicurezza per l'incertezza, la stabilità per l'incognita. Ma è grazie a persone come Paolo che la nostra società si regge ancora in piedi, a lui e quell'innumerevole stuolo di volontari, di cui si parla così poco, che dedicano tempo, energia e passione, laddove c'è bisogno, al prossimo bisognoso. E se non è Amore questo, allora cos'è?
Un grazie sentito a Paolo allora, alla sua splendida Associazione, e a tutti coloro che dedicano di loro stessi al prossimo e a Dio. Che mondo sarebbe questo senza di loro? Ma ci sono, grazie a Dio ci sono.... e sono molti di più di quanto si possa immaginare. Non dimentichiamocelo mai!

Marco

lunedì 20 ottobre 2014

Una stella nella malattia


Ritratto di una religiosa del Togo che cammina con malati e orfani dell’aids

I padri conciliari ricordano che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, 1). Per questo, in diverse zone dell’Africa, anche le persone consacrate cercano attraverso le loro opere di andare incontro alle persone in difficoltà per alleviarne le sofferenze. Come membri della comunità evangelizzatrice, sono chiamate, sull’esempio di Cristo, a prendere l’iniziativa, uscire e saper coinvolgersi. Così, mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorciano le distanze, si abbassano, fino all’umiliazione se necessario, e assumono la vita del popolo. Accompagnano l’umanità in tutti suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere (cfr. Evangelii gaudium, 24).

Un esempio concreto di come un discepolo di Cristo possa incarnare la sollecitudine paterna di Dio verso l’umanità sofferente, lo troviamo nell’esperienza di suor Marie Stella Kouak, gioviale religiosa togolese di quarantasette anni.

Appartenente all’Ordre des Hospitalières du Sacré Coeur de Jésus, suor Marie Stella conduce una battaglia di civiltà nella città di Dapaong, al nord del suo Paese, per aiutare gli orfani e i malati di aids. Suor Marie Stella ha da sempre sentito il desiderio di occuparsi dei malati, soprattutto di quelli che vivono in situazioni di precarietà. Questa sua inclinazione, maturata nel gruppo ecclesiale della Legione di Maria, l’ha portata, una volta sentita la chiamata a consacrare la sua vita al Signore, a entrare nell’allora congregazione des Soeurs Hospitalières de l’Immaculée Conception de saint Armand-les-Eaux, che aveva come apostolato l’attenzione ai malati. Nel 2011 vi sarà poi la fusione di questa congregazione con quella des Hospitalières du Sacré Coeur de Jésus per vari motivi, tra i quali la scarsità delle vocazioni nel vecchio continente e l’esigenza di unire le forze per la stessa missione. Tornado a suor Marie Stella, dopo i primi voti nel 1993, fu mandata in Belgio per formarsi come infermiera.

La regola di sant’Agostino e gli episodi evangelici del buon samaritano e della lavanda dei piedi — che sono alla base dei testi fondamentali del suo ordine — hanno fatto crescere in lei un’attenzione verso gli ammalati, in particolare verso quelli che hanno contratto il virus dell’aids. Attenzione che l’ha portata a creare l’associazione Vivre dans l’espérance che si occupa oggi di più di millequattrocentocinquanta adulti malati, di tanti ragazzi e ragazze orfani colpiti dall’aids. L’obiettivo dell’associazione — che assiste anche tanti musulmani — è ridare speranza intesa come dignità, come affetto agli ammalati di aids e offrire un futuro agli orfani.
Attualmente, l’associazione gestisce due orfanotrofi, un centro di formazione e un centro nel quale sono seguiti coloro che hanno contratto il virus dell’aids. C’è in progetto di allagare le strutture per andare incontro alle esigenze in continua crescita.

Suor Marie Stella ha sentito la necessità, insieme alle sue consorelle, di occuparsi di queste persone scartate dalla società dopo aver vissuto, in prima persona sulla sua pelle, l’esperienza di un fratello malato di aids. Chi contrae questa malattia, infatti, viene giudicato male dalla società, messo ai margini, non raramente nascosto dalla propria famiglia perché causa di vergogna.
Avendo vissuto quest’esperienza da vicino, la giovane religiosa ha deciso di impegnarsi affinché l’ammalato venga considerato come una persona, sia accettato e sostenuto dalla sua famiglia, perché i suoi figli non siano marginalizzati dal contesto sociale.

Oltre ad accogliere e accompagnare malati e orfani, e a sensibilizzare le famiglie, i membri dell’associazione cercano anche di educare a una vita sessuale responsabile, in una zona come quella del nord del Togo che sta al confine con altri Paesi dove c’è una grande mobilità della popolazione.

Le motivazioni che hanno spinto suor Marie Stella in quest’opera non sono certamente solo quelle di un operatore sociale. In quanto consacrata, questa donna ha cercato di incarnare nel quotidiano i voti professati. Oltre all’obbedienza espressa nella comunione d’intenti con le altre consorelle, oltre a combattere accanto a coloro che sono colpiti direttamente o indirettamente dal flagello dell’aids, suor Marie Stella trova nella sua maternità spirituale verso questi orfani e nell’amore gratuito verso i bisognosi l’espressione concreta del suo voto di castità. Quanto invece al voto di povertà, in un continente povero come quello africano e particolarmente in un Paese in via di sviluppo come il Togo, esso viene inteso anche come condivisione. Condivisione di ciò che ciascuno ha. Infatti, oltre a mettere a disposizione i mezzi e le energie umane del suo ordine, tra le altre cose suor Marie Stella coinvolge le mamme malate e alcuni ragazzi, già ospiti dei suoi orfanotrofi, nella cura dei bambini che hanno perso entrambi i genitori.

Essendo la sua opera frutto di una chiamata speciale, la nostra religiosa trova forza — come lei stessa ci ha raccontato — oltre nell’eucaristia e nella preghiera del rosario, anche nella parola di Dio. Per suor Marie Stella, infatti, il racconto evangelico del buon samaritano che si prende cura dell’uomo ferito, quello della lavanda dei piedi dove Gesù si fa servo di tutti e quello della donna adultera sono fonti d’ispirazione, sono luce che illumina e rassicura in questa sua battaglia per la dignità di tutti. Anche di coloro che sono considerati meritevoli di esclusione perché pubblici peccatori.
L’impegno di suor Marie Stella e dei suoi amici è proprio quello di liberare gli ammalati di aids così come ha fatto Gesù con la donna adultera. «Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch'io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Giovanni, 8, 9-11).
In queste parole trovano senso l’impegno ad accompagnare chi è caduto e ad aiutarlo a non cullarsi disperatamente nella sua caduta, ma piuttosto a guardare il futuro e vivere il presente nella speranza.

Suor Marie Stella trova conforto e coraggio anche nelle parole di Agostino: «Ama e fa ciò che vuoi: se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore, se perdoni, perdona per amore. Sia in te la sorgente dell’amore, perché da questa radice non ne può uscire che il bene».
La religiosa, infine, ci racconta di confidare molto nell’intercessione di coloro che lei e i membri della sua associazione hanno aiutato a traghettare serenamente alla casa del Padre, e nella Provvidenza divina che, al tempo opportuno, risponde alle attese e alle mille richieste di aiuto.

L’esperienza di questa suora africana mostra la bellezza delle religiose nel loro essere madri sull’esempio della Chiesa mater et magistra chiamata dal suo Maestro a versare l’olio di misericordia e di tenerezza sulla umanità piagata, carne sofferente dello stesso Signore Gesù.

di Gilbert Tsogli


Sentivo il bisogno di mettere, sulle pagine di questo blog, qualche bella storia di persone che hanno deciso di consacrare l'intera propria vita per servire il Signore e, nella fattispecie, di farlo servendo coloro che sono considerati nella scala sociale della nostra società gli ultimi tra gli ultimi, ovvero i poveri e i malati.
Che bella la storia di Marie Stella, completamente al servizio dei malati di Aids in Togo (Africa)... ma sempre con il sorriso sulle labbra, così come si conviene a chi ama veramente quello che si fa e in chi ama il prossimo e il Signore con tutto sè stessi.
Lasciatemelo dire..... queste sono le vere "perle" della nostra società, quelle persone che ci fanno veramente capire che nel cuore dell'uomo si annida un "potenziale" di Amore veramente immenso, e che c'è ancora e sempre tanto di buono nel nostro mondo. E ai missionari come Marie Stella (e sono tanti... grazie a Dio) dobbiamo veramente tanta gratitudine e, da parte mia, un ammirazione davvero sconfinata.
Grazie, grazie veramente di tutto..... e Lode e Grazie a Dio per elargire al mondo intero anime belle come questa.

Marco