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martedì 26 settembre 2023

Fratel Biagio e Padre Pio


Fratel Biagio Conte ci racconta qual'è il suo rapporto con Padre Pio e come lo ha conosciuto.

Fratel Biagio: “ Il momento in cui ho conosciuto Padre Pio, ve lo devo dire, non l'ho conosciuto direttamente, ma in cammino.
Quando me ne andai via di casa, che ho lasciato tutto, nel 1990 a 26 anni.... Palermo al mare davanti e dietro le montagne. Da quelle montagne ho vissuto un periodo di eremitaggio all'interno della Sicilia, quasi un anno isolato da questo mondo che mi aveva ferito, deluso, la società, egoistica e indifferente.
A piedi poi... il buon Dio mi accompagna fino ad Assisi da San Francesco. Perché prima inseguivo le cose del mondo... ero fan dei giocatori, cantanti, attori... ero nella moda. Ma da quel momento la mia vita ha un cambiamento... seguo invece... divento fan di Gesù, di Maria, di San Giuseppe, di tutti i Santi e le Sante di Dio.
Padre Pio lo incontro grazie a un frate cappuccino nella zona della Campania. Mentre mi avviavo per Assisi a piedi, incontro un frate che veniva dall'Africa, da una missione dell'Africa. Lui mi parla di Padre Pio e mi da un immaginetta di Padre Pio. Io ne avevo sentito parlare ma mai avevo avuto un diretto.... e lui mi disse: “Tieni questa preghiera di Padre Pio”. E da allora Padre Pio mi accompagna, mi ha accompagnato ad Assisi ed il ritorno. Poi qui, io non volevo più tornare a Palermo, in Italia.... volevo andare in Africa, in India. Ma il buon Dio mi ha detto: “L'Africa è qua, qui c'è tanto da fare. Volevi aiutare, ecco datti da fare!”.
Qui inizia la missione e Padre Pio mi accompagna da allora, anche con i francescani, i cappuccini. Inizia un primo incontro con i cappuccini qui a Palermo, alle catacombe, in quanto loro facevano già un servizio di carità, e andavo a portare i fratelli, che ancora non avevo la struttura, li portavo lì a fare la doccia. Mi davano la biancheria, il mangiare.
Allora ecco che nasce un incontro, un legame. Allora Padre Pio è presente, è qui con noi. E oggi tanti gruppi, come oggi in particolare, siete venuti a dare conforto, sostegno, a noi che operiamo in questa comunità. Con un impegno enorme, delicato, che il Signore ci ha inviato ad alleviare la sofferenza dei più deboli, degli ultimi, dei senzatetto ”.


Fonte: You Tube


sabato 13 febbraio 2021

Riccardo e Barbara, coppia di sposi missionari che vive insieme ai più fragili

Riccardo Rossi e Barbara Occhipinti hanno scelto di impegnarsi per le oltre 1.100 persone accolte nella Missione Speranza e Carità fondata da Biagio Conte a Palermo, con un'attenzione particolare alla cura della comunicazione sociale. Con il progetto "Ponti di bene" aiutano i poveri a trovare occupazione

PALERMO - Sono impegnati e sensibili verso i bisogni delle oltre 1.100 persone accolte nella Missione Speranza e Carità fondata da Biagio Conte a Palermo e con un'attenzione particolare alla cura della comunicazione sociale. Sono Riccardo Rossi e Barbara Occhipinti, la prima coppia di sposi che ha scelto di vivere in spirito missionario lasciando alle spalle la vita precedente. Da poco sono tornati da un viaggio nel nord Italia per portare avanti il progetto "Ponti di bene", pensato per favorire lo scambio e il trasferimento delle persone con fragilità da Sud a Nord in altri luoghi di accoglienza per poter trovare anche una occupazione lavorativa.
"Siamo appena tornati dal viaggio 'Ponti di bene' che ci ha permesso di conoscere parecchie realtà dove i nostri fratelli in povertà potrebbero trovare per un determinato periodo accoglienza e lavoro - spiega Riccardo -. L'obiettivo è quello di favorire scambi di bene e nello stesso tempo di creare una rete di servizi nazionale tra le realtà missionarie. Grazie ai primi contatti è già partito dalla missione il nostro primo fratello per un centro della Toscana".
"Io e Barbara siamo la prima coppia, la prima famiglia missionaria che ha deciso di fare questo cammino terziario che è previsto dallo statuto della Missione - dice ancora Riccardo -. In Missione siamo continuamente a servizio per tutti. In particolare, organizziamo e stampiamo il periodico La Speranza, seguiamo anche una piccola squadra di calcio di giovani immigrati e poi siamo impegnati a promuovere tutte le iniziative sociali e di solidarietà che ci sono".

"Come coppia, per noi è importante lavorare insieme - aggiunge Barbara -. Siamo continuamente immersi nelle fragilità di ogni tipo dove muoversi non è facile perché ci sono persone che hanno vissuto drammi e sofferenze diverse. La prima cosa da fare è cercare di trasmettere quella fiducia e quella motivazione necessaria che porta la persona, in forte stato di fragilità, a rinascere a poco a poco. La fatica è tanta ma la possibilità di ridare loro la dignità che meritano ci dà tanta gioia, energia e coraggio di andare avanti. Con 'Ponti di bene', in particolare dopo un viaggio di 15 giorni, ci stiamo impegnando molto per riuscire a creare una rete che favorisca la mobilità dei poveri e lo scambio di esperienze di servizio e di lavoro da Sud a Nord".
Riccardo Rossi è di Napoli ha 50 anni e per 10 anni ha lavorato come giornalista per diverse realtà ambientaliste e politiche. Un mondo da cui a poco a poco si è allontanato. "Dopo una conversione ai Valori Cristiani non mi sono più riconosciuto in quello che facevo - racconta -. Sono entrato, infatti, in una crisi depressiva allontanandomi da un mondo che mi appariva troppo superficiale e non ancorato alla verità". "Purtroppo ho avuto problemi familiari molto seri legati soprattutto alla grande sofferenza di avere un fratello tossicodipendente. Dopo quindi un periodo di ricerca interiore, grazie ad alcune persone che mi hanno preso per mano, ho deciso di vivere da missionario nella casa famiglia 'Oasi la divina provvidenza' per disabili mentali e fisici di Pedara (Ct) dove sono stato 15 anni, di cui gli ultimi due anni con Barbara. Per lungo tempo sono stato le braccia e le gambe di tante persone sofferenti alcune delle quali con malattie terminali che ho accompagnato anche alla morte".

"Dopo 5 anni che vivevo nella comunità di Pedara ho conosciuto a Palermo Biagio Conte con cui è nata subito una grande sintonia di fede, di pensiero e di azione - racconta ancora -. Essendo un giornalista mi ha proposto di coordinare all'inizio a distanza il periodico della Missione 'La speranza'. In Missione ho conosciuto Barbara con cui è nata a poco a poco un'intesa di progetto di vita molto forte che oggi ci impegna insieme - tanto che le ho chiesto di sposarmi e di vivere insieme nella comunità di Pedara (Ct) con oltre 100 persone". "Poi, un anno fa, quando Biagio ha protestato digiunando e dormendo sotto i portici della Posta centrale di Palermo, ho deciso di stargli a fianco dormendo anch'io in strada per 10 giorni con lui. Dopo questa esperienza straordinaria confrontandomi con Barbara è nato il desidero di fare insieme il grande salto di andare a vivere in Missione. Oggi siamo riusciti ad avere una stanza presso la Casa del Vangelo a Chiavelli fondata padre Palcido Rivilli molto vicino al beato Pino Puglisi".

Barbara Occhipinti, 48 anni, originaria di Ragusa, ha vissuto, invece, per molti anni da sola a Palermo dove ha studiato architettura e lavorato come arredatrice. "Nella mia vita ho sempre sentito il bisogno forte di mettermi a servizio di chi era più fragile - racconta -. Dopo la morte prematura del mio caro amico Toti che è andato via senza avere vicino i suoi amici più cari, ho riflettuto molto sul senso pieno e più profondo che dovevamo dare alla nostra vita che non poteva essere soddisfatta soltanto dal lavoro e dai piaceri personali". Anche a lei la conoscenza del missionario Biagio Conte ha cambiato completamente la vita. "Dopo avere conosciuto Biagio, a poco a poco è cresciuto sempre di più il desiderio di spendermi come volontaria per i tanti bisogni della Missione. Per lungo tempo ho partecipato all'unità di strada notturna per l'assistenza di chi vive in strada, toccando con mano la fragilità e povertà più disperata".

"La conoscenza poi di Riccardo mi ha fatto capire che proprio la Missione sarebbe stata l'anello di congiunzione della nostra vita insieme. Così con fede e con coraggio, dopo avere perso il lavoro, non ne ho cercato un altro ma mi sono lanciata nella scelta di camminare insieme a Riccardo dedicandomi alla casa dei più fragili dove già viveva. In questo nostra scelta di vivere insieme a Pedara Biagio ci ha benedetto e sempre sostenuto. Ci siamo sposati il 12 febbraio di tre anni fa per il compleanno proprio del mio amico Toti. Quasi un anno fa, poi, dopo l'ultima protesta in strada di fratello Biagio, che abbiamo sostenuto in vario modo con tutte le nostre forze umane e spirituali, abbiamo deciso di trasferirci a Palermo per vivere a servizio dei poveri della Missione". (set)


20 febbraio 2019

FONTE: La difesa del popolo

martedì 4 febbraio 2020

Alessandro Frigiola, l'“Angelo” dei bambini malati di cuore


Alessandro Frigiola è una di quelle persone che, per dirla in poche e semplici parole, “fanno del gran Bene alla nostra società”.
Nato nel 1942 a Bressanone, da una mamma casalinga e da un papà dipendente dell'Inps, all'età di 4 anni si trasferisce a Vicenza, città nella quale vive ancora oggi. Frequenta il liceo classico e nel 1970 si iscrive all'università, alla facoltà di Ingegneria a Padova. Il percorso del giovane Alessandro sembra scorrere su binari ben definiti, fino a quando, nell'estate del 1971, accade un fatto che cambia radicalmente le prospettive della sua vita. Quasi per caso gli capita tra le mani il libro "La cittadella" di Joseph Cronin, un romanzo che tratta la vita di un giovane e idealista medico scozzese, Andrew Manson, che tasta con mano l'arretratezza delle università e la superficialità con cui i medici trattano spesso i loro pazienti. Il romanzo colpisce "diritto al cuore" il giovane Alessandro, che cambia immediatamente facoltà e si iscrive a Medicina, con l'intento, una volta divenuto medico, di dedicarsi alle necessità dei più poveri e bisognosi. Già durante gli studi universitari Frigiola si iscrive al Cuamm, un'organizzazione umanitaria che cura i malati in Africa, quindi negli anni seguenti si reca più volte nei paesi del Terzo Mondo dove, tra l'altro, ha anche la Grazia di incontrare e conoscere padre Giuseppe Ambrosoli, il missionario medico che operò per trent'anni in Uganda.

Alessandro Frigiola decide di specializzarsi in cardiochirurgia infantile data l'altissima percentuale di mortalità (quasi il 50%) tra i bambini malati di cuore che ancora vi era negli anni Settanta. Una volta laureato, Frigiola si trasferisce per qualche anno a Marsiglia, dove il suo maestro, il professor José Aubert, lo inizia alla professione e dove avviene un episodio che segna indelebilmente la sua vita. Il piccolo Amadou, un bambino di appena quattro anni, entra nella sala operatoria dell'ospedale di Marsiglia per un operazione al cuore, in condizioni gravissime. Dopo ore di intervento, iniziano i tentativi di rianimare il cuore del bambino, tenuto in vita grazie alla macchina cuore-polmone e alla circolazione extracorporea del sangue. Per quattro lunghe ore l'equipe del professor Aubert con il professor Frigiola cercano di rianimare il bambino, ma invano. Quando tutto sembra ormai perduto il professor Aubert si arrende e chiede che la macchina cuore-polmone venga staccata, Frigiola però non ci sta e rimane per altre quattro ore a massaggiare qual piccolo cuore fino a quando, contro ogni aspettativa, riprende a battere... e il bambino a vivere. Questo episodio straordinario motiva grandemente il professore che comprende più che mai quanto questa sia la strada della sua vita.


Durante un viaggio missione in Vietnam compiuto in compagnia del professor Lecompte, Alessandro Frigiola rimane sconcertato nel vedere l'altissima percentuale di mortalità tra i bambini con malformazioni cardiache: “Non potevo vedere migliaia di bambini morire di cuore entro il primo anno di vita senza fare nulla!”. Per questa ragione, insieme alla professoressa Silvia Cirri, nel 1993 fonda l'associazione “Bambini Cardiopatici nel Mondo”, composta oggi da una squadra di oltre 300 medici ed operante in 27 paesi di tutto il mondo. L'associazione invia mensilmente medici in missioni per operare i bambini con patologie cardiache, trasformando spesso delle tende da campo in ospedali super attrezzati e tecnologici, con l'intento però di gettare delle solide "basi" affinché le missioni vadano avanti poi con le proprie gambe. All'Ospedale di San Donato Milanese (dove, dal 1990, Frigiola è primario della divisione di cardiochirurgia nel Centro Cardiovascolare Edmondo Malan) vengono invece formati i medici locali da inviare in ogni parte del mondo per operare e guarire bambini e neonati malati.

Il Professor Alessandro Frigiola ha operato ad oggi oltre dodicimila pazienti di cui più della metà bambini (con una percentuale d'insuccesso inferiore al 5%), e facendo parte di 435 missioni. Di indole positivo e ottimista non smette mai di definire gli italiani come “un popolo di persone estremamente generose”, anche se non manca di denunciare certe carenze dei nostri ospedali che a suo dire non sono “a misura di bambino” come invece sono in paesi quali gli Stati Uniti, il Canada e l'Inghilterra.
Il professore è passato recentemente anche agli onori della cronaca per avere contribuito a salvare la vita della piccola Amina, una bambina di appena dieci giorni, che necessitava di cure urgentissime e per la quale sembrava non esserci più alcuna speranza (vedi: Io sono una persona x bene). Del resto il professor Frigiola è fatto così, professionale, determinato e pieno di energia e progettualità. E nonostante le tante "primavere" sulle spalle, lotta costantemente per la vita dei suoi pazienti perché, per sue stesse parole non riesco mai ad abituarmi alla morte.

Grazie caro Professore, di tutto!

Marco


FONTI: “Eroi quotidiani” di Giovanni Terzi, Il Piacenza, Io sono una persona x bene

martedì 20 agosto 2019

Le suore che salvano gemelli e disabili dalla morte


Nell’ex colonia portoghese con capitale Bissau c’è la diffusa consuetudine, dettata dalla superstizione, di abbandonare il primo nato di due gemelli e anche i bimbi disabili, spesso lasciati morire nella foresta. È in tale contesto che agiscono le Suore Benedettine della Divina Provvidenza e le Missionarie dell’Immacolata, la cui opera è fondamentale per custodire queste vite indifese.

Se venire al mondo in Guinea-Bissau non è facile, lo è anche di meno per i nati da parto gemellare. Nell’ex colonia portoghese, infatti, continua a essere presente la consuetudine di abbandonare il primo nato di due gemelli, spesso lasciandolo morire nelle aree paludose della foresta o sulle rive del fiume.

Non a caso, da una ricerca realizzata dall’Odense University Hospital sull’andamento demografico nella capitale del Paese africano nel periodo tra il 2009 e il 2011, è emerso come i gemelli avessero una mortalità perinatale molto elevata, tre volte superiore a quella dei singoli. Una situazione legata alla sopravvivenza di credenze ancestrali che identificano questa categoria come portatrice di pericoli e sventure. Alla luce di queste rappresentazioni culturali dure a scomparire, queste esistenze vengono lette come un’incognita nel rapporto tra l’umano e il divino, da "risolvere" con l’alienazione o l’eliminazione fisica.

L’usanza continua a essere praticata nelle società Balanta e Mansoanca, dove questi bambini vengono spesso considerati posseduti da spiriti maligni, gli “iran”. La stessa sorte è riservata ai nati con disabilità, anch’essi ritenuti posseduti e per questo abbandonati nella foresta, dove vanno incontro a morti orribili; o sbranati dagli animali o uccisi nel corso di cerimonie rituali. In questi casi, le madri, per l’ostracismo della comunità in cui vivono, sono condotte a consegnare i propri figli nelle mani degli stregoni del villaggio.

Ci sono storie, però, di donne più forti delle superstizioni che, con coraggio, sono riuscite a salvare i loro pargoli da questa fine atroce: è il caso di Nita che riuscì, attraversando un fiume in canoa da sola, a portare in salvo la sua bambina nata senza una gamba e con una mano malformata, affidandola alle cure di una suora in missione. Oggi la piccola, arrivata in Sicilia con l’aiuto dell’associazione “Amici della Missione” di Acireale, ha 11 anni e grazie alle cure del Centro ortopedico Ro.Ga. di Enna ha imparato a camminare e persino a ballare.

Vicende come quest’ultima aiutano a comprendere l’importanza dell’azione missionaria della Chiesa, impegnata a difendere, per citare le parole che san Giovanni Paolo II ebbe a pronunciare nel 1990 proprio a Bissau, “l’inviolabile dignità della persona umana, in modo che tutti siano portati a riscoprirla alla luce del Vangelo”. È quello che fanno le Suore Benedettine della Divina Provvidenza che, nella città di Catió, si occupano di accudire nel Centro nutrizionale della missione i piccoli abbandonati, perché gemelli o disabili, o aiutano nell’allattamento e nell’istruzione quelle madri che hanno scelto, invece, di tenerli e crescerli nonostante i pregiudizi. Quest’attività viene affiancata da corsi di formazione rivolti alle donne dei villaggi vicini, con lezioni anche sulla disabilità e sulla gemellarità per sfatare le credenze popolari che sono all’origine della pratica degli infanticidi.

Un’altra realtà importante che agisce a difesa della vita in un Paese dove ignoranza diffusa, estrema povertà e instabilità politica rendono non poco complicata quest’opera, è rappresentata da Casa Bambaran a Bissau. Si tratta di una struttura gestita dalle Missionarie dell’Immacolata dove trovano accoglienza quei bambini strappati a una morte sicura perché disabili o gemelli nati per primi. Il centro, situato nella periferia della capitale, prende il nome dal tessuto che le donne africane utilizzano tradizionalmente per avvolgere i neonati. Qui i bambini abbandonati nelle strade e nelle foreste hanno la possibilità di iniziare un percorso scolastico e vengono aiutati, grazie a una sviluppata rete di contatti con le parrocchie, a trovare famiglie disposte a prenderli in affido.

La presenza della Chiesa cattolica costituisce in molti casi, come abbiamo visto per la storia di Nita e della sua piccola nata con una malformazione, l’unica opportunità di sopravvivenza per questi piccoli non accettati dalle comunità d’appartenenza per la loro "diversità".

Un argine contro quella cultura dello scarto che in questo caso specifico continua a fare vittime a causa della persistenza di credenze ancestrali, ma che negli ultimi decenni si vorrebbe ulteriormente rivitalizzare in Africa attraverso quella che Francesco chiama “colonizzazione ideologica” e che passa mediante la promozione di pratiche contro la vita come, ad esempio, l’aborto selettivo.

di Nico Spuntoni

4 agosto 2019

FONTE: La nuova Bussola Quotidiana


E' tristissimo vedere come, ancora nel 21° Secolo, debbano esistere in certe parti del mondo culture e credenze così macabre che portano alla morte un gran numero di piccole creature innocenti. Ma, grazie al Cielo, esistono i missionari, queste anime "belle" che si occupano di salvare questi bambini da questi assurdi infanticidi, causa di una mentalità retrograda e nefasta.
Non si potrà mai ringraziare abbastanza l'opera dei missionari nel mondo, uomini e donne che dedicano tutta la loro vita a favore dei più poveri, degli indifesi, degli anziani, dei malati, dei bambini.... per Amore loro e a Gloria di Dio. Da parte mia, posso solamente dire, con tanta gratitudine e riconoscenza, il mio più sentito "Grazie".

Marco

domenica 28 ottobre 2018

La bella storia di nonna Irma, a 93 anni in Kenia per aiutare i bambini dell'orfanotrofio


Se qualcuno pensa che una persona dopo i 90 anni non sia più in grado di fare niente di importante, se non forse stare a casa a guardare e accudire i propri nipoti o pronipoti (cosa comunque lodevolissima e di grande importanza) legga questa storia.... e si ricreda.

Lei si chiama Irma Dallarmellina, "nonna" Irma per tutti, e ha 93 anni. E' una persona forte, ha visto la guerra, è rimasta vedova a 26 anni, con tre figli a carico, e poi ha perso una figlia. Vive a Noventana Vicentina e circa 10 anni fa ha conosciuto Francesca Fontana e Giannino Del Santo, una coppia vicentina, moglie e marito, che vanno in missione tutti gli anni in Kenia per un mese all'anno. Coinvolta dal loro esempio ed entusiasmo, nonna Irma ha iniziato ad aiutarli come poteva, con piccole ma importanti donazioni in denaro, quello che la sua pensione gli ha permesso di fare. In questo 2018 però non si è accontentata di questo e ha voluto fare di più..... ovvero andare lei stessa, di persona, in Kenia, nonostante le sue 93 primavere. Così, assieme alla figlia, con il suo trolley rosso e il suo bastone di sostegno, il 20 febbraio di quest'anno è partita alla volta di Nairobi per rimanervi tre settimane e offrire le sue mani, la sua esperienza e la sua simpatia ai bambini dell’orfanotrofio.
Appena arrivata in Kenia nonna Irma ha voluto subito incontrare Don Remigio, un missionario "giovanotto" come lei, che da vari anni sostiene economicamente, e che da diverso tempo è ricoverato in ospedale perché malato. Dopo di ciò ha voluto incontrare immediatamente i bambini del posto.... ed è stata gioia grande per tutti! Con Francesca e Giannino, i volontari che l'hanno "coinvolta" in questa avventura, nonna Irma è andata a visitare l'orfanotrofio che la missione gestisce, quindi ha trovato il tempo di inviare qualche foto e un messaggio vocale a casa, poca roba perché le comunicazioni non sono facili, ma comunque molto significativi:
Sto bene. Il viaggio è stato lungo, ma sono già operativa. E sono felice!.

Questo semplice messaggio e queste foto sono state postate sui social network dalla nipote Elisa Coltro e in men che non si dica sono diventate “virali”, raccogliendo in breve tempo migliaia di like e condivisioni.Questa è la mia nonna Irma – scrive Elisa -  una giovanotta di 93 anni, che stanotte è partita per il Kenya. Non in un villaggio turistico, servita e riverita, ma per andare in un villaggio di bambini, in un orfanotrofio. Ve la mostro perché credo che tutti noi dovremmo conservare sempre un pizzico di incoscienza per vivere e non per sopravvivere. Guardatela... ma chi la ferma? Io la amo”.



La nipote Elisa, come si può ben comprendere da queste parole, è orgogliosa della sua amata nonna, e non lo nasconde:
Mia nonna ha sempre amato la vita e non si è mai fermata davanti a niente. Ha dedicato la sua esistenza alla famiglia e ad aiutare chi le stava vicino - racconta - Per me è sempre stata un esempio. Un esempio che la nipote ha raccolto nel migliore dei modi dal momento che in estate, da qualche anno a questa parte, anziché andare in vacanza come fa la maggior parte dei suoi coetanei, adopera le proprie ferie per aiutare i rifugiati siriani nei campi greci. Ed è proprio il caso di dire che "buon sangue non mente".

Nonna Irma in Kenia è diventata subito la nonna di tutti. Nella sua valigia rossa ha portato pochissimi indumenti, per lasciare spazio ad ago, filo colorato, forbici, colla e a tante cartoline, perché lei è sempre stata bravissima a cucire delle scatole con le vecchie cartoline. Lo fa a casa, per gli amici, e lo ha fatto in viaggio per i nuovi piccoli amici kenioti. In ogni scatola c'è l'amore di un oggetto fatto a mano e un sorriso.

La bella esperienza di nonna Irma in territorio africano, come detto, è durata tre settimane, al termine delle quali è rientrata nella sua casa di Noventana Vicentina. Un esperienza che le è rimasta nel cuore: “Ho visto tante cose belle, ma anche tanta miseria - afferma - Mi sono rimasti nel cuore i bambini, ma non hanno niente. Neanche l'acqua e le strade. E' una vergogna. Se avessi una proprietà mia venderei tutto e lo darei al Kenya. Ma sono povera e vivo solo della mia pensione”.
Nonna Irma è diventata un esempio per chi vuole partire per l'Africa, ma lei dice: “Non devono fare come me, che sono rimasta poco. Devono rimanere per dei mesi. Anziché andare in vacanza al mare, devono andare in Kenya”. Poco tempo dice lei.... ma quando si ha un età come la sua, ogni giorno speso in questo modo è oro puro.
Nonna Irma ha anche le idee molto chiare su ciò che andrebbe fatto, e non si nasconde certamente dal dirlo: “Mettere i soldi che si spendono per le guerre per costruire invece delle fabbriche. E mettere anche del sale in zucca a quei quattro che comandano il mondo: andate a farle voi le guerre, se vi piacciono tanto!”.
Parole forti e taglienti, da parte di chi di cose ne ha viste e fatte tante!


E' veramente una bella storia questa di nonna Irma e lei è un bellissimo esempio per tutti, che ci ricorda più che mai come questo Dono preziosissimo che si chiama "Vita" vada vissuta pienamente, con forza, coraggio e tanta buona volontà. Ma sopratutto ci ricorda di "spenderla bene", con tanto Amore, per aiutare il nostro prossimo, in particolar modo quello più bisognoso. Grazie di tutto nonna Irma!

Marco

Febbraio - Marzo 2018

FONTI: Repubblica, Greenme, Tg com24, La Stampa, Il Corriere, Volontariatoggi

domenica 21 ottobre 2018

Felicità è amare gli ultimi della terra


La missionaria laica Annalena Tonelli fu uccisa 15 anni fa in uno degli ospedali da lei fondati

«Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita; più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Questo non è un merito, è una esigenza della mia natura». La vita e la morte di Annalena Tonelli, uccisa quindici anni fa nel Somaliland, sono racchiuse in queste parole. Un grido che interpella l'attuale assopimento delle coscienze nei confronti degli “ultimi” e dei diversi.
Missionaria laica, questa esile donna che indossava la tunica africana e il copricapo delle donne musulmane, per diciassette anni, in Kenia, “fece fiorire il deserto”, condividendo la vita dei nomadi che salvò dal genocidio.
«Io sono nobody, nessuno», diceva. Quel nulla era il suo “tutto in Dio”. Giunta in Africa, depositò ogni privilegio, povera fra i poveri, senza sicurezze, senza istituzioni alle spalle. Sola, fra i somali che le furono amici, quando videro che rischiava la vita per loro. Più volte minacciata di morte, non se ne andò mai, anche quando ebbe la certezza che l'avrebbero uccisa. Accadde il 5 ottobre nel 2003, un colpo di fucile alla testa, nella sua stanzetta francescana, attigua all'ospedale di Borama. Era appena passata di letto in letto per dare la buona notte, con una carezza e una stretta di mano, agli ammalati dell'ultimo ospedale che aveva creato per curare ogni genere di malattia e accogliere bambini ciechi, sordi, disabili. La sua grande scommessa fu la tubercolosi, una delle prime cause di morte. Per debellarla creò un protocollo, riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della sanità, che ha salvato milioni di persone.
Tutta la sua esistenza è stata un canto d'amore: «La vita ha senso solo se si ama, nulla ha senso al di fuori dell'amore... allora la nostra vita diventa degna di essere vissuta, diventa bellezza, grazia, benedizione».

Di Mariapia Bonanate

FONTE: Famiglia Cristiana N. 40
7 ottobre 2018


Altro articolo, breve ma molto ben scritto, sulla figura di Annalena Tonelli, a 15 anni dalla sua scomparsa. Lo riporto con molto piacere sulle pagine di questo blog, perchè questa splendida figura di Carità Cristiana, che pure non amava affatto che si parlasse di sè, merita veramente di essere conosciuta e amata.

Marco

mercoledì 17 ottobre 2018

“Io sono nessuno”: Annalena Tonelli

Quindici anni fa, per l'esattezza il 5 ottobre 2003, veniva uccisa da un colpo di fucile alla testa Annalena Tonelli, missionaria laica dal cuore grande come il mondo intero, figura meravigliosa di autentica Carità Cristiana, tutta dedita ai poveri e ai malati africani.
Si potrebbero utilizzare tantissime parole per descrivere Annalena, ma credo che nulla sarebbe mai abbastanza.... preferisco allora riportare sulle pagine di questo blog questo magnifico articolo incentrato sulla sua figura trovato sul web. Un mio piccolissimo omaggio ad una persona che ha tanto da dirci con il suo esempio, con la sua dedizione e con il suo Amore totale e incondizionato. Una figura stupenda che consiglio veramente a tutti di conoscere e approfondire. Da parte mia mi sento solamente di elevare un sentitissimo “Grazie” a Dio, per averci donato un anima così bella, il cui ricordo, ne sono certo, non verrà mai meno nel cuore delle persone.



"Io sono nessuno": Annalena Tonelli



Religiosa nell’intimo, senza vestire un abito. Medico e madre. Dolcissima e forte. Per chi ha vissuto con lei, queste contraddizioni, solo apparenti, si scioglievano in una quotidianità intessuta di gioia. E di passione, come emerge dalla sua prima biografia, pubblicata ad un anno dalla sua uccisione presso il suo ospedale per i malati di tubercolosi a Borama in Somaliland.
Annalena infatti è morta il 5 ottobre, il giorno prima di vedere completata la nuova ala dell’ospedale che lei aveva fatto costruire per uno di quei miracoli della buona volontà che sembra possano accadere solo grazie all’impegno di qualcuno che crede fino in fondo in quello che fa.
Lei che aveva inventato un particolare metodo di cura delle TBC, malattia endemica tra la popolazione somala, aveva dato vita, grazie agli aiuti che le venivano in gran parte dal Comitato contro la fame nel mondo di Forlì, a una piccola ma efficace struttura da 200 posti letto a cui facevano capo oltre 1000 malati. Ancora oggi l’ospedale continua a funzionare anche senza di lei. Proprio come desiderava questa grande donna che iniziava il suo testamento con queste parole: “Non parlate di me, non avrebbe senso”, e che non si stancava di ripetere di se stessa “Io sono nessuno”.
Non è stato facile per gli autori del libro ricostruire la sua complessa e avventurosa vita. Fuggiva le occasioni ufficiali, rifiutava tutte le interviste; prima di accettare il prestigioso Premio Nansen dell’UNHCR, c’era voluta tutta la pazienza degli amici per convincerla ad andare a Ginevra… Eppure in questa biografia, sembra che sia Annalena stessa a parlare di sé. Sono infatti raccolte in fondo alla biografia molte lettere inedite e una lunga dichiarazione da lei rilasciata nel 2002, in Vaticano, durante una delle rarissime occasioni pubbliche a cui aveva accettato di partecipare in occasione della Giornata internazionale per il volontariato.
Volevo seguire Gesù e scelsi di essere per i poveri. Da allora vivo al servizio dei poveri. Per Lui feci una scelta radicale, anche se povera come un vero povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamenti di contributi per quando sarò vecchia”.
Quella dell’"Ut unum sint" è stata ed è l’agonia d’amore di tutta la mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto per essere buona e veritiera, mai violenta, nei pensieri, nell’azione, nella parola. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola. Dobbiamo imparare a perdonare. Oh, com’è difficile il perdono. I miei musulmani fanno tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo nella loro vita… eppure la vita ha un senso solo se si ama. Nulla ha senso fuori dell’amore.
La mia vita ha conosciuto tanti e tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. E ne sono uscita con la convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Ed è allora che la vita diventa degna di essere vissuta. Perdo la testa per i brandelli di umanità ferita: più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia
”.
Si scherniva di non avere meriti speciali, di fare solo quello che la sua natura di donna giusta e appassionata le dettava. Però, spiegava che nei poveri non poteva fare a meno di vedere “Gesù l’Agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo”. E poi ringraziava Dio per il dono più grande che aveva ricevuto nella sua vita: “I miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico ma è rocciosa e arroccata in Dio. I miei nomadi mi hanno insegnato a fare tutto in nome di Dio”.

Sconvolge che al termine di questo suo lungo cammino d’amore, Annalena sia stata uccisa con un colpo d’arma da fuoco sparato a distanza ravvicinata, dopo avere terminato la visita serale ai suoi degenti. Aveva 60 anni, più di metà dei quali dedicati a servire i somali più poveri, i relitti di una società tanto particolare e dilaniata dalla guerra civile. Ma lei, missionaria laica, forlivese di nascita, somala per scelta, questo servizio l’aveva scelto per amore, e la preghiera la riconfermava ogni giorno in questa dimensione.
La chiamavano infatti la "Madre Teresa della Somalia" per la sua vita spesa ogni giorno al servizio degli ultimi, dei malati, dei poveri, nelle pieghe di un nascondimento da cui nemmeno il conferimento di importanti riconoscimenti era riuscita a tirarla fuori. La sua morte, come spesso avviene per i missionari che scelgono il silenzio della carità, ce l’ha svelata in tutta la sua dolcezza, in tutto il suo coraggio.
Annalena era preparata a morire, da molti anni. Qualche mese prima aveva scritto agli amici: “Vorrei che ciascuno di quelli che amo imparasse a vedere la morte con molta più semplicità. Morire è come vivere. Camminare consiste tanto nell’alzare il piede che nel posarlo. La mia morte, la mia malattia, il mio dolore non sono assolutamente diversi dalla morte, dalla malattia, dal dolore di uno di questi adulti e dei bambini che muoiono sotto i nostri occhi ogni giorno, sul gradino di casa nostra. La mia vita è per loro, per questi piccoli ammalati, per i feriti, per chi ha mutilazioni nel corpo e nello spirito, per gli oppressi, per gli sventurati senza averlo meritato. Potessi io vivere e morire d’amore. Mi sarà dato?”.
La preghiera di Annalena è stata ascoltata.
La sua biografia rivela il profilo di una donna straordinaria. Dormiva solo quattro ore per notte, il suo ritmo di lavoro era senza soste. Mangiava fagioli e riso a pranzo. Tornava raramente in Italia a trovare la famiglia, non ne aveva il tempo. Di suo non aveva che due tuniche, uno scialle, un paio di sandali regalati da qualcuno che l’aveva vista andare in giro scalza. Era una piccola donna tutta pelle e ossa ma piena di energia, infaticabile.
La sua giornata in ospedale cominciava alle 7,30 con la riunione con i medici con cui aveva ideato e attuava un progetto sanitario innovativo, il DOTS (Directly Observed Therapy), ovvero l’attenta osservazione dei malati di tubercolosi provenienti da tribù di nomadi o seminomadi. Poi si fermava con gli ammalati, accanto ai letti per parlare con ognuno. Una carezza speciale era sempre per i bambini che si specchiavano nei suoi grandi, disarmanti occhi azzurri cerchiati di occhiaie, arrossati dalla stanchezza di giornate interminabili di lavoro, fino a notte inoltrata. Eppure Annalena era felice. Diceva: “Nella mia vita non c’è rinuncia, non c’è sacrificio. Rido di chi la pensa così. La mia è pura felicità. Chi altro al mondo ha una vita così bella?”.
Oltre all’ospedale seguiva scuole di alfabetizzazione per bambini e adulti tubercolotici, corsi di istruzione sanitaria, una scuola per piccoli sordomuti e handicappati. Si batteva contro le pratiche di mutilazioni genitali femminili, e questo impegno in favore della donna le aveva attirato addosso minacce e persecuzioni. Forse perfino il colpo di pistola che l’ha uccisa.

Annalena era arrivata in Africa nel 1970 dopo avere conseguito una laurea in giurisprudenza. Si ritrova nel nord est del Kenya, presso la missione di Wajir tra tribù nomadi, rigidamente musulmane ad insegnare ai bambini e curare i malati. Si trova per la prima volta di fronte alle vittime della tubercolosi, allontanate dalle famiglie, abbandonate da tutti per la paura del contagio, condannate ad una fine lenta. “In quel momento mi sono innamorata di loro…” racconta Annalena, sempre sproporzionata nella sua grande capacità di amore. Li accoglie, li veste, regala loro piccole cose e la felicità di essere curati. Apre una piccola struttura di cura fatta di capanne: prima 40, poi 100, 200… Qui inizia a sperimentare un nuovo metodo di cura contro la TBC, poi adottato dall’Oms con la sigla Dots e ancora oggi applicato in tutto il mondo.
Viene espulsa dopo 17 anni di volontariato per avere denunciato l’eccidio dell’etnia dei Degodia, in cui in governo keniota era coinvolto: rientra in Italia in tempo per assistere suo padre malato sino alla fine. Ma nella sua città natale, Forlì, sente che l’Africa le manca, la chiama. L’anno dopo riparte per la Somalia. La gente è la stessa, anche la lingua e la religione, ma c’è la guerra civile dopo la cacciata del dittatore Siad Barre. Si stabilisce a Mogadiscio dove dà da mangiare agli sfollati, viene derubata, rapinata e sequestrata, la sua casa è bersaglio di raffiche di mitra. Mentre imperversano i combattimenti lei recupera i cadaveri dalle strade per seppellirli, cura i malati, nasconde i rifugiati. Poi si trasferisce a Merca, sull’Oceano Indiano, dove fa riattivare il porto in disuso da 25 anni per permettere l’arrivo di aiuti umanitari. Lavora come medico presso l’Ospedale della Caritas che ospita 500 malati: spende un milione di vecchie lire al giorno (una bella cifra per la fine degli anni ’80) che le arrivano da benefattori di tutto il mondo dopo che qualche coraggioso giornalista è riuscito a arrivare sino a lei…Malgrado il fisico minuto ha una grande forza fisica e una buona dose di coraggio che le permette di non piegarsi di fronte ai ricatti e alle prepotenze dei ras locali che cercano di impadronirsi degli aiuti scaricati dalle navi.
Lascia Merca nel 1995, a causa della situazione insostenibile creatasi in seguito ai sanguinosi conflitti tra clan rivali. Il medico italiano che la sostituisce nel servizio all’ospedale della Caritas è Graziella Fumagalli, uccisa solo pochi mesi dopo il suo arrivo.
L’ultima tappa del viaggio africano di Annalena è Borama, una cittadina vicina alla frontiera con l’Etiopia, nel Somaliland. Un centro di 100.000 persone, fatto di baracche di legno affacciate su strade polverose. Recupera una vecchia struttura e con i fondi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la trasforma in ospedale, che riesce a far funzionare grazie agli aiuti che riceve dall’Italia, in particolare dal "Comitato contro la lotta alla fame nel mondo" e dalla diocesi di Forlì. Grazie alla rete di solidarietà attivata da “doctor Tonelli”, i primi 30 malati diventano rapidamente 300, riescono finalmente ad avere un letto vero, medicinali e terapie sistematiche e continue come è necessario per combattere malattie come la tubercolosi e l’AIDS.
Quando nel giugno del 2002 le viene comunicata l’assegnazione del premio Nansen da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Annalena rimane stupita, perché di questo premio, confessa candidamente agli amici, non ne conosce nemmeno l’esistenza. Con il premio Nansen, si legge nella motivazione, le viene riconosciuto a livello internazionale "l’impegno eccezionale per migliorare la sorte di coloro che in Somalia non hanno alcuna protezione. Attraverso di voi, l’UNHCR vuole ricordare che i rifugiati… hanno diritto ad essere trattati con dignità, di essere nutriti, ospitati, curati. Grazie alla vostra opera, ricordate al mondo che i diritti hanno un’anima e che è nel quotidiano, concretamente, che i diritti dell’uomo devono essere rispettati e fatti vivere…".
Annalena è la dimostrazione vivente, ormai agli occhi di tanti, delle trasformazioni e dei cambiamenti che un solo individuo, anche sprovvisto di mezzi particolari, può costruire per migliorare la vita degli altri.


di Miela Fagiolo D’Attilia e Roberto Italo Zanini

FONTE: Note di pastorale giovanile

giovedì 20 settembre 2018

“Anche il carcere è meglio dell'Africa!”. Parola di Marie Anne Molo, Missionaria del Vangelo


In Africa in tante zone rurali non esistono servizi di base, come l’acqua potabile e l’illuminazione. Non esiste uno stato sociale

In Africa in tante zone rurali non esistono servizi di base, come l’acqua potabile e l’illuminazione. Non esiste uno stato sociale, i cittadini non hanno diritto ad alcun servizio da parte dello stato, tutto è a pagamento: l’istruzione, la copertura sanitaria. Il lavoro manca e si vive disussistenza e di vendita di prodotti agricoli. Chi non ha la casa, vive dove capita. La libertà di stampa non esiste, in molti Stati scrivere un articolo di politica significa essere uccisi, in Camerun si finisce a volte in prigione. I servizi per i disabili non ci sono, una pensione sociale non esiste”.

Lo racconta Marie Anne Molo una donna consacrata Missionaria del Vangelo del Camerun di 52 anni che vive a Palermo che afferma:
In molti Paesi africani c’è la dittatura, in altri la guerra, in altri il terrorismo, in tanti altri la povertà estrema e si muore di fame”.

È meglio per un africano vivere in un carcere italiano che vivere in Africa. Nelle galere italiane si vive bene: c’è un tetto, c’è la luce, c’è l’acqua potabile, c’è da mangiare, c’è la sicurezza, ci sono cure mediche, non c’è la guerra e né tanto meno la tortura”.
Marie Anne è venuta in Italia diversi anni fa con l’obbiettivo di studiare e acquisire competenze per poi tornare in Camerun per impegnarsi nella promozione dello sviluppo dell’area rurale da dove proviene. Già da alcuni anni Marie Anne, con il supporto delle Missionarie del Vangelo, realizza diversi microprogetti (frantoi, mulini, pollai, coltivazioni, un pozzo per l’acqua potabile) per aiutare in Camerun il suo popolo.

Io sogno di cambiare la vita della mia gente e di sfruttare bene le nostre risorse: legname, minerali, petrolio. Sin da bambina desideravo consacrarmi al Signore per dedicare tutta la mia vita ad aiutare la mia gente. Tant’è che mi sono sempre prodigata nell’aiutare chi era nel bisogno.

Da grande allora ho deciso di venire in Italia per cominciare sia la mia formazione religiosa e per consacrarmi al Signore, sia per studiareeconomia dello sviluppo alla Pontificia Università Gregoriana, per lo sviluppo umano integrale.

Noi siamo tutti vittima di un sistema che sfrutta le risorse e le persone sia in Italia, sia in Africa. Invito tutti i cittadini a fare una rivoluzione culturale per cambiare questo sistema che non pensa alle persone, ma ai soldi. Noi del Cristianesimo ci riempiamo la bocca, ma facciamo poco di quello che c’è scritto nel Vangelo. L’Italia è il mio Paese – dice Marie Anne - occorre uno sforzo per capire le altre culture, noi in Camerun abbiamo la cultura dell’accoglienza, ascoltiamo l’altro.

Nella mia famiglia, quando vivevo in Camerun, diverse volte non si mangiava, ma ogni giorno pregavamo: la mattina presto e la sera. Abbiamo ancora le lampade a petrolio e nelle strade non c’è illuminazione pubblica, beviamo spesso acqua sporca. Un pozzo realizzato dalla cooperazione internazionale è a vari chilometri. La pioggia per noi è una benedizione con la quale ci facciamo una doccia naturale
”.

Questo è il contenuto del primo appuntamentoche si è svolto nella "Cittadella del Povero e della Speranza" nella chiesa "Casa di preghiera per tutti i Popoli" nel mese di agosto, in attesa dell'incontro con Papa Francesco che verrà prossimamente in missione per condividere il pranzo con i fratelli ultimi.

di Antonio Lufrano

8 agosto 2018

FONTE: Quotidiano Sociale

domenica 17 dicembre 2017

Costruire il futuro? E' un gioco da ragazzi


LE MISSIONI DON BOSCO OPERANO IN CIRCA 50 PAESI

Dalla Liberia alla Cambogia, dall'India alle Filippine, anche in Siria, sotto le bombe. Scuole, centri di formazione professionale e oratori aperti a tutti, cristiani e non. Parla il presidente Giampietro Pettenon

Sono in Liberia e in Cambogia, in India e nelle isole Salomone, in Congo e nelle Filippine. Sono perfino ad Aleppo (Siria), dove, anche sotto le bombe, organizzano “estate ragazzi”. Dei 16 mila religiosi che compongono la congregazione salesiana, circa 10 mila vivono sparsi nel mondo, a fianco dei giovani. «La dimensione missionaria ci appartiene fin dalle origini» spiega Giampietro Pettenon, un coadiutore salesiano presidente delle Missioni don Bosco. E nonostante la straordinaria diversità di ambienti di vita, ci sono alcune costanti. «Le nostre scuole e i nostri centri di formazione professionale sono aperti a tutti, cristiani e non e ovunque sono riconosciuti per il loro impegno formativo». Poi, naturalmente, c'è l'oratorio. «Un cortile, un pallone e una persona pronta ad accoglierti. Questo modello funziona a tutte le latitudini. Senza mai rinnegare quello che siamo» riflette Pettenon, «sappiamo avere uno stile molto “laico” che ci consente di raggiungere le realtà più lontane. Siamo accettati e rispettati in Myanmar, un Paese ateo».
In tempi di grande instabilità, molti missionari sono esposti a pericoli e a volte pagano con la vita: «Tra le aree più critiche lo Yemen e la Siria». Ma anche quando non ci sono forti tensioni politiche, ogni giorno si combatte la battaglia contro vecchie e nuove forme di disagio, «a cominciare dalla durissima realtà dei ragazzi di strada, presente in tante grandi città del mondo».
Per sostenere questo straordinario impegno ci sono le Missioni don Bosco, collegate a una cinquantina di Paesi. Oltre 200 mila sono i benefattori che scelgono di dare un contributo. «Sono la nostra forza. Su indicazione del fondatore, ogni giorno preghiamo per loro durante la prima Messa mattutina celebrata nella basilica di Maria Ausiliatrice a Torino, punto d'origine dell'esperienza salesiana». Per saperne di più: www.missionidonbosco.org 011/3990101

di Lorenzo Montanaro


NEL CUORE DELL'AFRICA

Dalla strada alla vita, i miracoli di Lubumbashi


Nella terza città del Congo i Salesiani ofrono ai ragazzi poveri ed emarginati una concreta possibilità di riscatto sociale


Quando lo vedono arrivare, a bordo del suo furgone, i bambini di strada gli corrono incontro e lo abbracciano. Padre Eric Meert, sacerdote belga, è uno dei salesiani presenti a Lubumbashi, la terza città del Congo. Per migliaia di giovani costretti a vivere di espedienti, senza famiglia né un tetto, lui è uno dei pochissimi punti di riferimento, è un sorriso da incontrare, una carezza da ricevere, insieme con una concreta proposta di cambiamento.
Quella congolese è una missione storica, la più antica presenza salesiana in Africa: la sua fondazione risale al 1911. Nel tempo questa realtà ha dovuto e saputo trasformarsi, per servire i nuovi poveri e modellarsi sui cambiamenti di una terra dai mille contrasti.
«A Lubumashi da anni la situazione dei bambini di strada è divenuta un'emergenza» ci racconta Alessia Andena, del dipartimento progetti Missioni don Bosco, appena rientrata dal Congo. «Arrivano da tutto il paese, nella speranza di trovare un'alternativa alla desolante povertà delle campagne». Ma quando, completamente soli, raggiungono la città, incontrano un destino duro e pieno di pericoli.
Tra le baracche sgangherate si possono raccogliere tante storie. «Molti ragazzi finiscono sulla strada perchè i genitori non li possono mantenere: manca il cibo e l'istruzione non è gratuita. Altri vi arrivano a seguito di disgregazioni familiari». Ma ci sono anche fattori culturali. «Vi sono bambini che vengono accusati di stregoneria. Può bastare un'anomalia del comportamento, magari dovuta a forme di disabilità, oppure una disgrazia in famiglia per la quale si cerca un capro espiatorio. E' una ferita profonda: se non si interviene in tempo lascia i segni per tutta la vita».
A questo si aggiungono tutti i pericoli legati alla vita di strada: il degrado, il rischi di subire abusi, il consumo di droghe. Ecco i mille volti che padre Eric incontra ogni notte, mentre gira i quartieri periferici insieme a un confratello burundese. Ogni ragazzo, con il suo nome e la sua storia, riceve un'attenzione unica e personale. E per tutti c'è la proposta di andare al centro di Bakanja Ville, il primo passo verso una nuova vita. In questa struttura salesiana (una ventina i padri che vivono a Lubumashi, cui si affianca il lavoro di assistenti sociali, psicologi, educatori) i ragazzi ricevono una prima assistenza in una casa sicura. «Quando possibile si cerca di reinserirli nelle famiglie d'origine. E si offre loro la possibilità di studiare, gratuitamente, per costruirsi un futuro» spiega ancora Alessia Andena.
Sul modello di don Bosco, anche in Congo i Salesiani hanno avviato scuole e centri di formazione professionale, che formano meccanici, falegnami e molti altri professionisti. «Grazie a questi percorsi tanti giovani riescono a uscire dal disagio. Quando capiscono di essere amati, il cambiamento diventa possibile». Una storia, tra tante? «Ho incontrato un bimbo di soli nove anni. Timido e gentile, era in strada da quattro giorni e dormiva da solo. Gli ho promesso che a Bakanja Ville ci saremmo incontrati. E lui mi ha dato fiducia».

di Lorenzo Montanaro

FONTE: Famiglia Cristiana N. 30
24 luglio 2016


Che opera straordinaria che compiono i missionari nel mondo! Essi portano Fede, speranza, aiuto morale e materiale, amicizia.... e tanto altro ancora. E lo portano sopratutto nei luoghi dove la povertà, l'ignoranza, l'anarchia e le guerre la fanno spesso da padrone. I missionari sono veramente una grande "Luce" accesa nel mondo!
Ricordiamoci spesso di loro.... ricordiamoci di loro e sosteniamoli sia materialmente che spiritualmente, perchè essi hanno bisogno di noi, così il mondo ha bisogno di loro!

Marco

venerdì 30 ottobre 2015

Lorenzina Guidetti, da un secolo Figlia di S. Paolo



E' bello per me, sulle pagine di questo blog, parlare ogni tanto di anime Consacrate, di persone che donano tutta la propria vita a Dio e al prossimo, nell'Amore, nel lavoro, nella preghiera, nella donazione di sè, nella dedizione e nel nascondimento. Sono anime di cui, nella maggior parte dei casi, non si sa nulla o quasi, vivendo quasi sempre nel nascondimento della propria Vocazione, ma che fanno tanto, tanto del Bene, un Bene spesso nascosto ai più, ma preziosissimo, un Bene del cui vero valore ci potremo veramente rendere conto solamente in Cielo. E certamente queste anime, portatrici di Amore e "parafulmini" per il mondo intero, risplenderanno luminosissime in Cielo come astri brillanti.

Una di queste anime consacrate è Lorenzina Guidetti, all'anagrafe Olga Guidetta, 96 anni, dal 1931 facente parte delle Figlie di S. Paolo, ordine monastico fondato dal Beato Giacomo Alberione.
Consiglio vivamente di guardare questo video, molto bello, intenso, nel quale Lorenzina si racconta, parla di sè, della sua Vocazione, nata prestissimo, e del suo incessante lavoro svolto tra le Figlie di S. Paolo fino ai giorni nostri. Un lavoro che passa anche attraverso la fondazione del settimanale femminile "Così", voluto sempre dal fondatore Giacomo Alberione e dalla co-fondatrice dell'Ordine, Tecla Merlo, una rivista moderna e innovativa che dal 1955 al 1966 si rivolgeva al grande pubblico femminile con argomenti molto attuali come la moda, la formazione, l'attualità e la cultura Cristiana.
La vita di Lorenzina prosegue poi in Missione per il mondo, prima in Asia, attraverso l'India, le Filippine, il Giappone, la Corea, la Malesia, e poi negli Stati Uniti a Boston, quindi come Superiora in Inghilterra e in Australia, prima di far ritorno nuovamente in Italia.

Oggi Lorenzina, vicina ai 100 anni, è ancora una suora presente e vivace, che si occupa sopratutto delle sue consorelle anziane e malate, e passa molto del suo tempo nella preghiera, nella lettura e meditazione delle Sacre Scritture e un pò di corrispondenza.  E come lei stessa dice orgogliosamente alla fine di questo video:
Sono ancora una Figlia di S. Paolo!.
Felice di esserla stata, per 85 anni, e di esserla tutt'ora.


Grazie suor Lorenzina.

Marco