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martedì 20 dicembre 2022

Addio a Sinisa Mihajlovic, campione nello sport e nella vita, con tanta Fede e un rapporto “speciale” con Medjugorje

Venerdì 16 dicembre 2022 ci ha lasciati Sinisa Mihajlovic, indimenticabile campione di calcio e allenatore, vincitore di due Coppe dei Campioni con la Stella Rossa di Belgrado all'inizio degli anni novanta e poi militante in diverse squadre italiane come la Roma, la Sampdoria, la Lazio e l'Inter. Giocatore dal carattere forte e indomabile, ma leale e carismatico, si ricordano in particolar modo i suoi famosi calci di punizione, dalle traiettorie spesso imparabili per i portieri avversari.
Notevole anche la sua carriera come tecnico, in cui ha allenato squadre come Bologna, Sampdoria, Fiorentina Milan e Torino.

La Malattia, la sua Fede e il legame forte con Medjugorje

Nel 2019 Sinisa scopre di essere affetto da leucemia mieloide acuta, malattia terribile con la quale lotterà fino alla fine, e causa del suo decesso avvenuto pochi giorni fa all'età di 53 anni.

Per chi lo ha conosciuto ci sono solamente parole buone per Sinisa, vero e proprio campione dello sport ma anche nella vita, e persona dalla vera e genuina Fede.
Da sempre credente, lui amava definirsi metà ortodosso e metà cattolico, e viveva la propria Fede, a detta di sua figlia Viktorija, in maniera discreta e riservata.
Indimenticabile, per lui, è stato un pellegrinaggio fatto a Medjugorje nel 2008, che lo ha profondamente toccato e cambiato. Come lui stesso ha raccontato al giornale Tuttosport: «In quel posto mi è successa una cosa che non mi era mai accaduta, non avevo mai provato. Quando sono arrivato là mi sono sentito di colpo come un bambino. Mi sono seduto su una panchina e sarei potuto stare così all’infinito, stavo benissimo. È stato il momento più bello della mia vita, ero beato! In quella circostanza ho pianto tre o quattro volte ma non so dire perché. Su quella panchina è come se mi fossi ripulito, come se avessi tolto una pietra dal cuore. Da lì ho iniziato a pregare. Solo che commettevo uno sbaglio, pregavo solo quando avevo bisogno, un po’ come tutti. Sono andato un po’ in conflitto, a volte Dio mi aiutava a volte no. Poi ho capito che bisogna pregare sempre, da prima della malattia prego due volte al giorno. Ma non bisogna dire “voglio, voglio…”, ma “grazie, grazie…”».

La figlia Viktorija rivela che c'era l'intenzione di tornare a Medjugorje tutti insieme con la propria famiglia, ma purtroppo, a causa della pandemia, questo pellegrinaggio non si è potuto attuare.

Belle e profonde anche le parole di Chiara Amirante, fondatrice della Comunità Nuovi Orizzonti, e di don Davide Banzato, giovane sacerdote della stessa Comunità, che lo ricordano con molto affetto. A questo proposito Chiara Amirante, sui social dove è presente, ricorda di lui: «Al suo primo viaggio a Medjugorje era venuto a trovarci nella comunità Nuovi Orizzonti incontrando e ascoltando le storie dei ragazzi usciti da diversi inferni. C'era anche Mirijana presente (una dei sei veggenti di Medjugorje) che ha fatto la sua testimonianza personale e abbiamo vissuto un momento intimo molto intenso di condivisione, dove avevo potuto raccontare la storia della comunità, e ricordo le sue lacrime di commozione e un abbraccio unico, di uomo davvero fuori dal comune, a pochi anni da una guerra tremenda nell'ex Jugoslavia. Sinisa Mihajlovic non aveva nascosto le sue lacrime da guerriero con un cuore immenso, dicendo parole, per chi ha vissuto quel momento, straordinarie quanto la sua anima, sigillate da un abbraccio autentico e spontaneo che a noi potrebbe sembrare semplice, ma che invece è stato potente per i ragazzi presenti».

Importante, per la sua vita di uomo e di Cristiano, è stato anche un incontro avvenuto con Papa Francesco durato ben tre ore. Sinisa ricorda il Papa come un «uomo saggio, gentilissimo e anche simpatico con la battuta pronta».

Uomo profondamente buono e sempre disponibile, la scomparsa di Sinisa lascia un grande vuoto dietro di sé, soprattutto nella propria famiglia, ma da persona di Fede non dubitiamo affatto che il buon Dio lo accoglierà tra le Sue Braccia e gli riserverà un posto meraviglioso nel Suo Beatissimo Regno.

Ciao caro Sinisa, fai tanto del Bene da Lassù e intercedi per tutti quanti noi, pellegrini su questa terra. Sii eternamente Felice!


Marco

mercoledì 18 maggio 2022

Un sogno che si avvera: nasce a Medjugorje il Pronto Soccorso della Pace

Alle volte i desideri che si hanno nel cuore diventano realtà, soprattutto se alle spalle di un desiderio c'è tanta determinazione, lavoro e, in questo caso, anche tanta Fede.

E' quello che sta accadendo a Medjugorje, cittadina della Bosnia Erzegovina conosciuta in tutto il mondo per le Apparizioni della Regina della Pace che stanno avvenendo dal 1981, quindi da oltre 40 anni.
Paolo Brosio, uno dei più grandi estimatori di Medjugorje, sei anni fa ha avviato un progetto per realizzare un grande Pronto Soccorso in questa cittadina, terra di Fede autentica per tantissimi pellegrini, ribattezzato “Pronto Soccorso della Pace”.
Dopo un iter costituito da un lungo percorso di raccolta fondi, organizzazione e produzione, si è giunti finalmente al termine, e nel giro di qualche settimana prenderanno il via i primi lavori sul posto, partendo con la prima parte del progetto denominata “Mattone del Cuore”.

Tutto questo è stato reso possibile grazie al grande impegno di Paolo Brosio e della sua Associazione Olimpiadi del Cuore Onlus, ma anche grazie al presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, che ha dimostrato subito un grande entusiasmo per il progetto di Paolo, cercando di supportarlo in ogni modo.
Non si può tralasciare la collaborazione del Comune di Forte dei Marmi e quello di tante altre istituzioni e poi, naturalmente, alla base di tutto c'è la grande generosità della gente, che con numerosissime donazioni ha permesso a questo grande sogno di divenire presto una concreta realtà.

Questo Pronto Soccorso costituisce un vero e proprio “segno” di Pace in questo particolare periodo storico in cui i “venti di guerra” soffiano più forti che mai, soprattutto a causa dell'orribile conflitto tra Russia e Ucraina.

La soddisfazione di Paolo Brosio per questa bellissima opera ormai prossima ad essere avviata è evidente, un opera rivolta a tutti, senza nessuna distinzione di ceto sociale, credo politico, religione o altro. Un opera che sorgerà, e non a caso, in una zona costituita dagli altopiani dell'Erzegovina caratterizzata dalla presenza di molti piccoli villaggi, frazioni e comuni, a circa 40 Km da Mostair (dove è presente l'unico, vero, ospedale della zona), in cui non esiste alcun sistema sanitario di pronto soccorso d’urgenza, ma solo ambulatori medici.

Anche Papa Francesco è informato di questa bellissima opera, ed esso stesso, nel 2015, ha voluto benedire personalmente il simbolo di questo pronto soccorso che dovrà diventare un messaggio di pace per tutte le etnie e le religioni.

Chiunque volesse sostenere questo progetto, molto impegnativo da un punto di vista economico, col proprio obolo, lo può fare attraverso il sito internet dell'associazione Olimpiadi del Cuore Onlus fondata da Paolo Brosio, alle coordinate indicate.

Pensiamo sempre che l'oceano è formato da tante piccole gocce e, ciascuno di noi, può rappresentare quella goccia di Solidarietà e Amore che può permettere a questo progetto di realizzarsi e andare avanti.
Chiunque non fosse nelle condizioni di poter fare delle donazioni, può comunque contribuire a questa opera facendola conoscere e supportandola con la propria preziosissima preghiera.
Grazie di vero cuore a chi lo farà.


Marco

lunedì 10 maggio 2021

Vicinanza del Papa alle persone affette da fibromialgia

L’appello del Papa al Regina Coeli anticipa la Giornata Mondiale della Fibromialgia, che cade il prossimo 12 maggio. Si tratta di una forma comune di dolore muscoloscheletrico diffuso e di affaticamento che in Italia colpisce oltre 2 milioni di persone. La testimonianza di Edith Aldama, infermiera e referente delle malattie reumatiche per la Pastorale della Salute della Diocesi di Roma

Città del Vaticano - Le parole del Papa al Regina Coeli sulla fibromialgia pongono l’attenzione su una patologia sottovalutata e poco conosciuta.
Saluto - ha detto Francesco - le persone affette da fibromialgia. Esprimo la mia vicinanza a auspico che cresca l’attenzione a questa patologia a volte trascurata. Il 12 maggio le piazze e i monumenti italiani si coloreranno di viola per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni del paziente fibromialgico, sofferente di una patologia che la pandemia ha contribuito ad aggravare ulteriormente. È l’iniziativa "Illuminiamo la Fibromialgia" voluta dall’Associazione Italiana Sindrome Fibromialgica, in occasione della giornata mondiale dedicata a questa invalidante e dolorosa malattia.

Una sofferenza spesso taciuta

Chi si trova a vivere questa malattia spesso, prima di riuscire ad avere la giusta diagnosi, deve attraversare un calvario fatto di molte visite specialistiche, tanti esami clinici, numerosi medici che troppe volte non riescono a capire che cosa succede nella persona. E questa situazione troppo spesso si dilunga anche per vari anni. “La fibromialgia in Italia colpisce due milioni e mezzo di persone
, racconta Edith Aldama, infermiera e referente per le malattie reumatiche della Pastorale della Salute della Diocesi di Roma. La caratteristica fondamentale di questa sindrome, è il dolore muscolo scheletrico diffuso. Un dolore continuo e intenso, che ci accompagna giorno e notte. Specifico, ‘ci accompagna’, perché anch'io sono una malata fibromialgica. Questa malattia è caratterizzata anche da altri disturbi, come la stanchezza cronica ed altri problemi. Sono proprio queste caratteristiche che la portano ad essere un’affezione molto invalidante”.

Una malattia difficilmente diagnosticabile

Questa patologia colpisce maggiormente le donne, ma anche gli uomini non ne sono indenni, indistintamente dall’età. Si va dall’adolescenza fino alla terza età. “Purtroppo non c'è un protocollo diagnostico terapeutico – continua a spiegare Edith Aldama – e i pazienti si trovano tante volte a non avere un ciclo unico di cure. Le cause non si conoscono ancora: si parla di un'alterazione della soglia del dolore, quindi le cure sono mirate a cercare in qualche modo di alleviare questa sofferenza. Perciò si utilizzano farmaci antidolorifici, ma anche antidepressivi, non perché possa esserci per forza nel paziente una forma di depressione, ma poiché aiutano ad alzare la soglia di sopportazione del dolore. Anche per la stanchezza cronica si utilizzano tanti integratori, però non c'è un vero e proprio protocollo di cure previsto”.

Vivere il dolore in solitudine

Troppo spesso chi soffre di fibromialgia si ritrova solo ad affrontare una malattia ancora troppo poco conosciuta, dove la ricerca medica è ferma e non ci sono cure valide per ottenere dei miglioramenti concreti. “Fondamentalmente siamo invisibili, perché non è una malattia riconosciuta dallo Stato Italiano - sottolinea l’infermiera - anche se c'è comunque una proposta di legge in Parlamento per il riconoscimento di questa patologia come malattia cronica invalidante. La ricerca è ferma. E’ dunque fondamentale sensibilizzare sull'esistenza della patologia e favorire anche la formazione del personale sanitario, per far conoscere questa affezione ed arrivare a un unico protocollo diagnostico terapeutico. Purtroppo il fatto di non essere ancora riconosciuta comporta per i pazienti un mancato accesso alle cure attraverso il sistema sanitario nazionale. Per questo ci capita di incontrare persone diventate invisibili, che vivono la loro esistenza nella sofferenza e nel buio più totale”.


di Marina Tomarro

9 maggio 2021

FONTE: Vatican News

sabato 16 gennaio 2021

Lino Banfi: “Prego la Madonna di poter morire insieme a mia moglie”

Una vita intera vissuta assieme e, ora che la malattia ha colpito uno dei due, c’è il desiderio di andare in Cielo insieme. La preghiera di Lino Banfi.
“Prego la Madonna di poter morire insieme a mia moglie”. Una frase che fa commuovere, ma che allo stesso tempo, racconta il calvario di Lino Banfi.


Lino Banfi: “La mia devozione a Maria”

Più di 50 anni di vita passati insieme, mai un tradimento, mai una discussione. Ma ora la malattia c’ha messo il suo zampino. Lino Banfi si racconta e, in particolare, sceglie di spiegare perché la sua devozione alla Madonna è così forte e radicata.

Appena ti svegli, prima di tutto devi pregare e ringraziare la Madonna. Perché parlare proprio con la Madonna? Perché lei parla col Padreterno” – spiega l’attore. La sua fede particolare inizia all’età di 5 anni, quando suo nonno Giuseppe comincia a parlargli di Gesù e di Maria. Il pregare prima di andare a scuola ma, soprattutto, pregare come prima cosa da fare ogni giorno. Lei mi ha guarito quando avevo il tifo”.

Ma c’è stato un episodio particolare grazie al quale Lino Banfi ha capito che Maria aveva steso la mano sulla sua testa: “A dieci anni stavo morendo, avevo il tifo e la malaria […] Il medico veniva a visitarmi tutti i giorni e mi faceva delle iniezioni. Non mangiavo più, ero magrissimo, pieno di croste. Quando la malattia si aggravò, giacevo nel letto e non riuscivo più a parlare. All’improvviso, una mattina mi svegliai e chiesi a mia madre la gazzosa. Nella notte, le croste erano cadute”.

Un miracolo? Assolutamente sì: “Mia madre mi raccontò che quella notte avevo sognato una donna con un bambino in braccio ed ero guarito […] Penso fosse la Madonna di Canosa” – continua.

Lino Banfi: “Il mio incontro con Papa Francesco”

La fede, la preghiera, il suo sentirsi "il nonno d’Italia", ma anche un attaccamento particolare a Papa Francesco: “Quando ho incontrato Papa Francesco, gli ho fatto notare che abbiamo la stessa età. E, presentandomi come il nonno d’Italia, lui candidamente, in spagnolo, mi ha risposto: “Lei è il nonno del mondo” – ha raccontato, con gioia, l’attore pugliese. “Oggi prego Maria per mia moglie. Le chiedo di farci morire insieme

Oggi, la preghiera a Maria di Lino Banfi è per sua moglie, malata di Alzheimer: “In questo periodo le chiedo di aiutarmi con mia moglie Lucia […] Nessuno ti dice quello che devi fare con le persone care che non stanno bene. Alla Vergine imploro: “Se tu e Gesù mi amate, fatemelo sentire” […]
Ditemi la verità: quanti anni di vita mi date ancora? Se possibile, cercate di far morire insieme mia moglie e me perché l’uno senza l’altro non riusciremmo a stare” – conclude.

Un amore indissolubile, quasi come se fossero nati per stare sempre l’uno accanto all’altro. Ed ora, davanti alla sofferenza, Lino prega sì, ma chiede soprattutto di non staccarsi mai da sua moglie, neanche in punto di morte.


di Rosalia Gigliano

8 gennaio 2012

FONTE: la luce di Maria

venerdì 8 gennaio 2021

Don Alberto “star del web”: in rete seguendo il Concilio

Don Alberto Ravagnani, sacerdote ambrosiano diventato in pochi mesi un fenomeno mediatico con i suoi video su YouTube, spiega quanto sia decisivo oggi annunciare il Vangelo in rete. “Attenzione al linguaggio, dobbiamo parlare a tutti, non solo a chi viene in parrocchia”.

Città del Vaticano - Lo scorso 20 giugno, durante l’udienza ad alcune delegazioni della Lombardia, la regione italiana più colpita dal Covid-19, Papa Francesco ha voluto evidenziare lo “zelo pastorale e la sollecitudine creativa” dei tanti sacerdoti che, durante i mesi più difficili della pandemia, “hanno aiutato la gente a proseguire il cammino della fede e a non rimanere sola di fronte al dolore e alla paura”. Un esempio di creatività “digitale” è giunto sicuramente in quel periodo da un giovane sacerdote ambrosiano, don Alberto Ravagnani, che presta servizio pastorale presso l’oratorio di San Michele Arcangelo di Busto Arsizio, in provincia di Varese. Nel mese di marzo, all’inizio della quarantena, come tanti altri preti, per restare vicino ai suoi ragazzi don Alberto ha utilizzato la rete. Ha aperto una pagina su YouTube e ha iniziato a condividere video dove con linguaggio rapido e un montaggio vivace rispondeva a dubbi di fede relativi alla pandemia e più in generale alla vita cristiana.

Risposte ai dubbi di fede, in una pagina con 72mila iscritti.

L’iniziativa ha avuto, com’è noto, un grande riscontro, tanto che la sua pagina ha oggi più di 72mila iscritti e i suoi video raggiungono di media le 60mila visualizzazioni, mentre alcuni hanno superato quota 100mila (ora, gennaio 2021, i numeri sono ben superiori n.d.r.). “È stato un grande esperimento. Ho voluto provare ed è andata bene a quanto pare”, ha spiegato con semplicità don Alberto ai microfoni di Radio Vaticana Italia. Il sacerdote 26enne racconta di non essersi preparato in modo particolare per comunicare attraverso i social, ma di aver fatto esperienza sul campo, con l’unica certezza che come evangelizzatori oggi nel web bisogna proprio esserci.

Don Alberto - Usare YouTube per me è stato come imparare a parlare una lingua nuova. Sono sbarcato in una terra straniera di cui più o meno sapevo qualcosina e ho fatto pratica sul campo, senza avere tanta esperienza, un po' alla volta, tentando di apprendere qualche segreto dagli altri youtuber o da altri preti che avevano già pubblicato qualcosa sui social. Così ho trovato un po' la mia strada, il mio stile e poi basta, sono partito.

Molti osservatori della blogosfera cattolica la hanno considerata uno dei fenomeni più interessanti tra le novità digitali prodotte nel mondo ecclesiale durante la pandemia. Che impressione le ha fatto?

Don Alberto - Mi ha molto colpito, sinceramente. Trovare il mio nome sui giornali è stato un colpo, perché non me lo sarei mai aspettato. Ma mi fa piacere essere stato apprezzato nel mio tentativo di trovare dei modi per poter parlare del Vangelo in questo mondo, in questo tempo, sui canali e sui mezzi che oggi i giovani utilizzano. Quindi queste critiche positive sono state per me una conferma e un invito ad andare avanti ancora.

Lei è anche insegnante di religione presso il Liceo scientifico Tosi di Busto Arsizio. Che reazioni hanno avuto i suoi studenti a questa improvvisa notorietà del loro prof?

Don Alberto - Sono stati molto colpiti, anche perché hanno scoperto che anche i loro amici di altre classi e di altre scuole facevano lezione di religione con i miei video. Quindi erano contenti di poter dire che io sono il loro insegnante! Ma soprattutto debbo dire che sono stati loro ad aiutare me. Più volte consultandoli ho cercato di capire quale tematica dovevo affrontare nei miei video o di avere qualche altro consiglio. Insomma li ho utilizzati come veri e propri “tester” per alcuni video che ho poi pubblicato.

Il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ha appena pubblicato un nuovo Direttorio per la Catechesi in cui si parla a lungo di digitale e si afferma l'importanza di garantire nella rete una presenza che testimoni i valori del Vangelo. Come commenta questa affermazione?

Don Alberto - Devo dire che essere presenti sul web per testimoniare il Vangelo è secondo me oggi fondamentale. Io me ne sono reso conto adesso, perché non appena mi sono affacciato in questo mondo, in maniera così decisa e convinta, ho raccolto subito tanto e non solo in termini virtuali, ma anche in termini reali. Questa mia esposizione mediatica ha avuto cioè dei risvolti interessanti non solo nella mia vita on-line, ma anche nella mia vita off-line. E questo sia per quanto riguarda ragazzi e persone di Busto Arsizio, sia per quanto riguarda nuovi rapporti che sono nati in Italia o altrove o anche l’intervista che stiamo facendo in questo momento. Credo che oggi il web, la rete, sia un polo che raduna tante persone, tante relazioni, tante istituzioni. Tutto il mondo passa attraverso il web per cui “starci” credo che sia oggi decisivo. Io non ho ancora approfondito i testi del nuovo Direttorio, ma posso dire che in questi mesi a guidarmi è stato proprio l’intento principale del Concilio Vaticano II. Papa Giovanni XXIII proprio in apertura del Concilio aveva indicato come suo obiettivo quello di riuscire a dire in maniera nuova le cose di sempre, e cioè il Vangelo e la Tradizione della Chiesa. Io penso che oggi il web sia il territorio più adatto per poter dire in maniera nuova le cose di sempre.

C'è anche un lato oscuro del web che bisogna temere?

Don Alberto - Ovviamente, come dovunque. Io penso che i pericoli che sono presenti in rete sono in fin dei conti gli stessi che sono presenti nella vita reale. Alcuni certamente amplificati, altri potenziati, però fondamentalmente sono gli stessi. Quindi credo che con lo stesso atteggiamento, la stessa disposizione d'animo, le stesse virtù con cui evangelizziamo nella vita reale, in oratorio, in parrocchia, al lavoro, dobbiamo evangelizzare anche su web. L’importante è mantenersi coerenti con le proprie posizioni, i propri valori, la propria vocazione, puntando lo sguardo sempre sul bene, su Gesù e sul magistero della Chiesa. Poi è chiaro che ci sono delle insidie, ma penso che se questi punti rimangono fissi allora è più facile districarsi.

Quale consiglio daresti a chi volesse utilizzare YouTube o i socialnetwork per evangelizzare?

Don Alberto - Consiglierei soprattutto di prestare attenzione al linguaggio che si utilizza. Con linguaggio non intendo solo le parole che si pronunciano, ma anche il modo con cui si sta davanti alla telecamera o dietro lo schermo. Cioè quello che comunichiamo attraverso il nostro corpo, le nostre espressioni, il nostro modo di vestire… Perché la sfida oggi si gioca sulla comunicazione, sul linguaggio. Dobbiamo capire che in rete non abbiamo di fronte l'assemblea della Santa Messa o i ragazzi dell'oratorio, che sono già predisposti ad ascoltarci. Qui abbiamo davanti gente che magari è lontanissima da noi e dalla Fede. Per cui per intercettarli dobbiamo trovare un modo che sia convincente, affascinante, credibile e che possa suscitare poi un’ulteriore frequentazione virtuale, attraverso internet e poi magari reale.

Come tutte le star della rete anche lei ha i suoi “haters” e cioè i suoi odiatori. Che impressione le fa questo fenomeno?

Don Alberto - Credo sia normale quando ci si espone sul web ricevere attestazioni di disistima o addirittura manifestazioni di odio. Normalizzando la questione penso che sia il segno che in questo momento mi sono esposto e la mia voce è stata raccolta e sentita. Non mi scandalizzo. Mi dispiace molto, ma non mi scandalizzo.

di Fabio Colagrande

5 luglio 2020

FONTE: Vatican News


Sono venuto a conoscenza di don Alberto Ravagnani dalla trasmissione televisiva "A Sua Immagine" e da quel momento ho approfondito la cosa. Sono entrato sul suo canale You Tube e ho visto alcuni dei suoi video. Devo dire che sono rimasto molto colpito dal linguaggio "moderno" e "al passo coi tempi" di questo giovane sacerdote, un linguaggio che credo dovrebbe piacere molto ai giovani d'oggi. Mi sento quindi d'invitare i giovani a vedere qualcuno di questi video.... così che ciascuno si possa fare la propria idea.
Comunque è bello constatare come ci siano ancora dei giovani che sentono il "richiamo" di Dio e vogliono dedicare a Lui e al prossimo tutta la propria vita. Perchè, come lo stesso don Alberto dice: "Vivere con Dio la propria vita è la sola cosa che ti può rendere veramente FELICE. La vita con la Fede è molto più BELLA!"

Marco

venerdì 30 ottobre 2020

Anna voleva abortire. Papa Francesco la chiama e la convince a non farlo


La donna, divorziata, era rimasta incinta di un uomo che aveva già una famiglia. Dopo la gravidanza indesiderata ha iniziato a pressarla...

Non doveva proseguire la gravidanza. Perché l’uomo che l’aveva lasciata incinta non avrebbe riconosciuto il figlio. Di fronte a lei la soluzione che si prospettava era l’aborto.

Poi una chiamata, inattesa, improvvisa. Dall’altro capo del telefono c’è Papa Francesco, che come un buon padre la fa ragionare e le spiega perché vale la pena di portare avanti la gravidanza. Anna, originaria di Arezzo, riceve la chiamata che le cambia la vita. Accetta il consiglio di Francesco e decide di non interrompere la gravidanza. Una favola a lieto fine.

La richiesta dell’uomo

Anna è una donna divorziata. Che dopo aver perso il lavoro, decide di trasferirsi da Roma in Toscana. Qui scopre di essere incinta di un uomo che però ha già una famiglia. E non intende riconoscere il bambino. Lui la pressa, lei è debole, e cede alla sua richiesta: abortire.

Prima di farlo, però, decide di scrivere una lettera a una persona speciale. Mette nero su bianco tutta la sua storia; sulla busta l’indirizzo è semplice: «Santo Padre Papa Francesco, Città del Vaticano, Roma». imbuca la lettera senza pensarci troppo. Poi, pochi giorni dopo il telefono inizia a squillare.

“Ho letto la tua lettera”

Sul display un numero sconosciuto, con il prefisso di Roma. Risponde e resta pietrificata: «Pronto Anna, sono Papa Francesco. Ho letto la tua lettera. Noi cristiani non dobbiamo farci togliere la speranza, un bambino è un dono di Dio, un segno della Provvidenza».

«Le sue parole mi hanno riempito il cuore di gioia – è il racconto di Anna – Mi ha detto che ero stata molto coraggiosa e forte per il mio bambino».

In quei lunghi minuti al telefono con Papa Francesco, Anna avverte che la sua volontà non è uccidere la vita che porta in grembo. Esprime a Francesco il suo vero desiderio, cioè di non interrompere la gravidanza, e poi gli dice che ha intenzione di battezzare quel figlio in arrivo, ma che ha paura non sia possibile perché divorziata.

“Sappi che ci sono sempre io”

Il Papa le risponde con la semplicità di un autentico pastore: «Sono convinto che non avrai problemi a trovare un padre spirituale e poi – ha aggiunto – in caso contrario, sappi che ci sono sempre io».

E così si è conclusa la telefonata che ha cambiato per sempre la vita di Anna.

Una storia emblematica, quella di Anna, rilanciata da Famiglia Cristiana (22 maggio) in occasione dei 40 anni della legge sull’aborto (22 maggio 1978).


di Gelsomino Del Guercio

23 maggio 2018

FONTE: Aleteia

venerdì 2 ottobre 2020

Carlo Acutis verrà beatificato il 10 ottobre: chi era


Indicato dal Papa come modello di santità giovanile, è sepolto ad Assisi. Il vescovo: "Una gioia anche per i giovani, che trovano in lui un modello di vita". È stato proposto come patrono di internet

La diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino è in festa per la notizia della beatificazione del venerabile Carlo Acutis che avverrà ad Assisi sabato 10 ottobre, alle 16, nella basilica papale di San Francesco. “La gioia che da tempo stiamo aspettando ha finalmente una data – afferma il vescovo Domenico Sorrentino –. Parliamo della beatificazione del venerabile Carlo Acutis. La presiederà il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione per le Cause dei santi. È bello che la notizia arrivi mentre ci prepariamo alla festa del Corpo e del Sangue del Signore. Il giovane Carlo si distinse per il suo amore per l’Eucaristia, che definiva la sua autostrada per il Cielo”. “La notizia – aggiunge il presule – costituisce un raggio di luce in questo periodo in cui nel nostro Paese stiamo faticosamente uscendo da una pesante situazione sanitaria, sociale e lavorativa. In questi mesi abbiamo affrontato la solitudine e il distanziamento sperimentando l’aspetto più positivo di internet, una tecnologia comunicativa per la quale Carlo aveva uno speciale talento, al punto che Papa Francesco, nella sua lettera Christus vivit rivolta a tutti i giovani del mondo, lo ha presentato come modello di santità giovanile nell’era digitale”.

Lo scorso 22 febbraio, ricevendo il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Papa Francesco aveva autorizzato il Dicastero a promulgare tra gli altri, il decreto riguardante il miracolo, attribuito alla intercessione del ragazzo morto a 15 anni per una leucemia fulminante.

Il corpo del venerabile Carlo è sepolto al Santuario della Spogliazione di Assisi.
Una gioia grande per questa Chiesa particolare - aveva scritto già allora la diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino - , che lo ha visto camminare sulle orme di San Francesco verso la santità. Una gioia grande per la Chiesa ambrosiana, che gli ha dato i natali e lo ha accompagnato nel suo incontro con Gesù. Una gioia grande per gli ormai tanti devoti di Carlo in tutto il mondo. Una gioia grande soprattutto per i giovani, che trovano in lui un modello di vita.

Noti alcuni i suoi "slogan": “Non io ma Dio”,
Tutti nasciamo originali, molti moriamo fotocopie”. “L’Eucaristia è la mia autostrada per il Cielo”. Al Santuario della Spogliazione - conferma la diocesi - Carlo sta già attirando migliaia di giovani e devoti da tutto il mondo. Mi auguro - conclude monsignor Domenico Sorrentino - che la sua beatificazione possa farne ancor più un punto di riferimento e un incoraggiamento alla santità. Essa è vocazione per tutti. Anche per i giovani.

Acutis è uno dei giovani indicati da Papa Francesco come modelli nella Christus vivit, insieme a tre italiani (san Domenico Savio e i beati Piergiorgio Frassati e Chiara Badano) e altre figure, europee ed extraeuropee. In virtù della sua buona frequentazione della Rete è stato proposto come patrono di Internet.

Carlo Acutis: chi era (di Andrea Galli)

Carlo Acutis è morto il 12 ottobre 2006 a Monza; aveva 15 anni ed è spirato a causa di una leucemia fulminante. Una tragedia, umanamente parlando. Una fine assurda per la repentinità e per la parabola che si veniva ad interrompere, così in ascesa, così ricca di prospettive.

Rampollo di una famiglia di primo piano del mondo finanziario italiano, adolescente prestante, dal carattere vivace e particolarmente socievole, Acutis era un ragazzo che, come si suol dire, avrebbe potuto fare di tutto nella vita. Ma Dio aveva su di lui un piano diverso.

La sua fama di santità è esplosa a livello mondiale, in modo misterioso – spiegava qualche tempo fa monsignor Ennio Apeciti, responsabile dell’Ufficio delle cause dei santi dell’arcidiocesi di Milano - come se Qualcuno, con la "Q" maiuscola, volesse farlo conoscere. Attorno alla sua vita è successo qualcosa di grande, di fronte a cui mi inchino.

Carlo, nato a Londra nel 1991, dove i genitori si trovavano per motivi di lavoro, fu segnato da una pietà profonda quanto precoce. Fece la Prima Comunione, con un permesso speciale, a sette anni. Fu un adolescente da Messa e Rosario quotidiani. Maturò un amore vivo per i santi, per l’Eucaristia, fino ad allestire una mostra sui miracoli eucaristici che oggi è rimasta online e ha avuto un successo inaspettato, anche all’estero.

Sportivo e appassionato di computer, come tanti coetanei, brillava per la virtù della purezza. Padre Roberto Gazzaniga, gesuita, incaricato della pastorale dell’Istituto Leone XIII, storica scuola della Compagnia di Gesù a Milano, ha ricordato così l’eccezionale normalità di Acutis, arrivato lì, a liceo classico, nell’anno scolastico 2005-2006:
L’essere presente e far sentire l’altro presente è stata una nota che mi ha presto colpito di lui. Allo stesso tempo eracosì bravo, così dotato da essere riconosciuto tale da tutti, ma senza suscitare invidie, gelosie, risentimenti. La bontà e l’autenticità della persona di Carlo hanno vinto rispetto ai giochi di rivalsa tendenti ad abbassare il profilo di coloro che sono dotati di spiccate qualità.

Carlo inoltre
non ha mai celato la sua scelta di fede e anche in colloqui e incontri-scontri verbali con i compagni di classe si è posto rispettoso delle posizioni altrui, ma senza rinunciare alla chiarezza di dire e testimoniare i principi ispiratori della sua vita cristiana. Il suo era il flusso di un’interiorità cristallina e festante che univa l’Amore a Dio e alle persone in una scorrevolezza gioiosa e vera. Lo si poteva additare e dire: ecco un giovane e un cristiano felice e autentico.

Grazie al suo esempio e al suo carisma anche il domestico di casa Acutis, un induista di casta sacerdotale bramina, decise di chiedere il battesimo. In ospedale, posto di fronte alla morte, nella tenerezza dei suoi 15 anni, Carlo disse:
Offro tutte le sofferenze che dovrò patire al Signore, per il Papa e per la Chiesa, per non fare il purgatorio e andare dritto in Paradiso. Scrisse un giorno questa frase: Tutti nasciamo come degli originali, ma molti muoiono come fotocopie. Non fu il suo caso.


15 giugno 2020

FONTE: Avvenire

lunedì 9 dicembre 2019

Roma, a 90 anni cucina per 250 senzatetto al giorno: ecco chi è lo "Chef dei poveri"


L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), nello State of Food and Agriculture 2019, pubblicato il 14 ottobre 2019 – denuncia che il 14% del cibo presente nel mondo viene scartato e diviene immangiabile, ancora prima di arrivare nei negozi e nei supermercati. Ma molte altre sono le tematiche nella Giornata Mondiale dell’Alimentazione (World Food Day) come la fame nel mondo e la sicurezza alimentare, nel senso di nutrirsi in modo sano e ecosostenibile.

Fra i piccoli grandi attori che da anni combattono lo spreco del cibo e la fame dei più poveri c’è il 90enne Dino soprannominato "lo Chef dei Poveri". Da più di 10 anni sfama più di 250 senzatetto e poveri presso le stazioni ferroviarie di Roma.


Chi è lo “Chef dei poveri”

L’89enne Dino Impagliazzo casualmente, da un caffè donato ad un senzatetto, da più di dieci anni sfama più di 250 senzatetto al giorno, trascinando nel suo progetto senza fine di lucro, 350 volontari e 27.000 pasti serviti ogni anno. Dino è conosciuto a Roma come "lo chef dei poveri". Confida Impagliazzo: “Ho anche avuto l’occasione di incontrare Papa Bergoglio, di salutarlo da parte di tutti i barboni di Roma e di invitarlo a servire la mensa dei poveri assieme a noi”.

Un povero, nei pressi di una stazione ferroviaria, chiede al signor Dino un caffè e Dino intuisce che questa persona, al di là del caffè, ha bisogno di mangiare e di una relazione. Nelle stesse parole di Dino: “Ho pensato che era il giorno del Signore, Domenica, come posso ignorare questa persona che poi in fondo è mio fratello?”.

Il Signor Impagliazzo viene a sapere che la mensa non porta da mangiare ogni giorno nella stazione ferroviaria. Così Dino chiama amici, vicini di casa, e il passaparola si allarga a conoscenti comuni che intendono dare una mano. La moglie Fernanda è il primo aiuto di Dino e poi si comincia a distribuire panini, quindi si passerà a offrire pasti caldi, rispettando le religioni e le preferenze di ognuno. La metà dei poveri sono italiani, l’altra metà è proveniente da altre nazioni. Gli italiani sono figli di storie sfortunate, ma anche tante persone che ieri avevano una vita normale e oggi si ritrova sulla strada per via di un divorzio o per la perdita del lavoro. L’altra metà arrivano in prevalenza dall’Europa dell’Est e dal Nord Africa.

Da pochi amici, si passa a centinaia. Racconta Dino Impagliazzo ancora emozionato: “Acquistavo allora molti panini per poterli farcire per questi nostri amici senzatetto e il commerciante, notando tale quantità di pane, mi chiede per chi fossero. Gli risposi che i panini erano per alcuni senzatetto che vivono nei pressi della Stazione Tuscolana e che noi sfamiamo. Il commerciante da quel momento ci offre gratuitamente il pane per i nostri poveri e da allora è un nostro stretto collaboratore”.

Associazione RomAmor Onlus

Oggi i volontari che aiutano Dino sono 350 persone, aiutano quotidianamente per la raccolta dei cibi presso i centri commerciali, la logistica, la preparazione e la consegna dei cibi. Dino è il presidente dell’Associazione RomAmor Onlus. Dino è un po’ il papà di tutti. Dino è riuscito inoltre a costruire una rete di assistenza per i poveri e senzatetto, un servizio medico, di istruzione e degli alloggi per ospitare le persone che momentaneamente non hanno una casa.

Dino Impagliazzo è stato recentemente insignito del Premio Cartagine 2.0, ha incontrato Papa Francesco invitandolo a servire la mensa dei barboni e il noto personaggio televisivo Chef Rubio ha visitato la mensa di Dino, cucinando con lui.


16 ottobre 2019

FONTE: Il Corriere della Città

lunedì 17 giugno 2019

E’ morto don Michał Łos: la sua storia aveva commosso il mondo


Questa mattina si è spento alle 11.53 a Varsavia, don Michał Łos, il sacerdote orionino di 31 anni che ha affrontato la propria malattia terminale testimoniando la sua Fede in Dio dal proprio letto di ospedale, nella capitale polacca. In 350mila sui social hanno visualizzato il video della sua prima Messa il mese scorso

Don Łos, aveva ricevuto lo scorso 22 maggio da Papa Francesco le dispense necessarie per la professione perpetua come Figlio della Divina Provvidenza e, il giorno dopo, era stato ordinato diacono e sacerdote nel reparto di oncologia dell’ospedale militare di Varsavia da mons. Marek Solarczyk, vescovo ausiliare di Varsavia-Praga.
Il suo gesto e la determinazione a celebrare la Messa “per essere ancora più unito a Cristo”, si sono trasformati in una testimonianza di Fede che ha raggiunto ogni parte del mondo, e che ha unito in preghiera migliaia di persone che hanno conosciuto la sua storia.

La notizia – dichiara Padre Tarcisio Vieira, direttore Generale dell’Opera Don Orione – sapevamo sarebbe arrivata, ma ci lascia ugualmente profondamente tristi. Sappiamo, però, che non è stata la morte a togliergli la vita, ma è stato lui che ha voluto donarla per amore a Cristo e ai poveri. Questo suo messaggio e la sua testimonianza hanno insegnato qualcosa a tutti noi e faremo in modo che non andranno perduti. Ringraziamo il Signore per avercelo donato come testimone di grande Fede e di Amore”.

17 giugno 2019

FONTE: Aleteia

giovedì 18 aprile 2019

“La mia vita rinata negli inferi di Roma”


CHIARA AMIRANTE RACCONTA I 25 ANNI DI NUOVI ORIZZONTI

«Tutto cominciò nel tunnel sotto la stazione Termini davanti a un ragazzo che stava per uccidersi. Avevo da poco riscoperto la Fede. Chiesi a Dio se fosse quella la strada giusta e mi rispose guarendomi da una grave malattia»

di Antonio Sarinancesco

Quando nei sotterranei della Stazione Termini di Roma Chiara Amirante, appena ventiseienne, si trovò faccia a faccia con lo sguardo agonizzante di Angelo, un ragazzo che per farla finita era arrivato alla terza overdose, si chiese se fosse quella la strada giusta per lei. Poi alzò lo sguardo e lesse quello che Angelo aveva scritto su un muro: “Nonostante la vostra indifferenza noi esistiamo”. «Era Gesù che sulla croce gridava a Dio perché lo avesse abbandonato. Capii che dovevo andare avanti».
Voce sottile, quasi impercettibile. Sorriso radioso. C'è qualcosa di folle in tutto quello che ha fatto e continua a fare questa donna la cui salute è tornata a essere malferma dopo la guarigione inspiegabile (e non richiesta) di tanti anni fa. Quell'incontro di una notte di inverno del 1991 avvia un percorso che nel marzo 1994 porta alla nascita di Nuovi Orizzonti, un'associazione internazionale di volontariato che, partita da Trigoria, alle porte di Roma, oggi è presente in vari Paesi del mondo.

Che ricordo hai di quella notte?

«Facevo già volontariato in stazione tra i senzatetto e gli immigrati, ma nei sottopassaggi non ci andava nessuno. Io sapevo che i più disperati erano proprio lì: alcolizzati, tossicodipendenti, donne costrette a prostituirsi, ex detenuti, clochard. Quando arrivai c'era una rissa. Vidi Angelo, per terra, che aveva tentato la terza overdose per farla finita. Cercai un posto dove portarlo ma non trovai nulla. Mi tornarono in mente le parole del Vangelo: “Non c'era posto, per loro, nell'albergo”. L'impotenza di non poter far nulla fu per me uno shock fortissimo».

Che fine fece quel ragazzo?

«Si salvò. Due giorni dopo venne a portarmi un regalino per ringraziarmi di avergli salvato la vita. Restai di stucco: Mi disse: “In vent'anni di strada nessuno si era mai fermato per chiedermi come stavo. Voglio incontrare anch'io questo Gesù che ti ha portato a rischiare la vita per me”».

E lei?

«Capii perfettamente che la nostra indifferenza può uccidere e il semplice ascolto può salvare la vita di una persona».

Che cosa l'ha spinta, quella notte, a scendere negli inferi?

«Fu il culmine di un percorso. Avevo riscoperto la fede da poco. Ero assediata dalla malattia. Stavo per perdere completamente la vista a causa di un'uveite che presto mi avrebbe portato alla cecità totale. Ero a un passo dalla disperazione, eppure sperimentavo nel mio cuore una pace e una gioia profondissime. Mi proposi di portare questa serenità ai disperati come me. Sembrava un'idea matta».

Lo era, sopratutto per le sue condizioni di salute.

«Infatti chiesi a Dio un segno: “Signore, se sei tu che mi metti nel cuore questo folle desiderio di andare di notte nei deserti delle nostre metropoli, mettimi anche nelle condizioni di poterlo fare”».

Cosa accadde dopo?

«L'indomani andai a Messa. Il Vangelo del giorno era quello in cui il lebbroso chiede a Gesù di guarirlo. Io non chiesi nulla, ma arrivò la mia guarigione all'improvviso, completa, inspiegabile dopo tre anni di dolori atroci e otto anni quasi da cieca. Interpretai quella risposta come la risposta che cercavo. Da quel momento il popolo della notte è diventata la mia nuova famiglia».

La strada era tutta in salita...

«Quando vedi giovani imprigionati nell'inferno della droga, della tratta, della schiavitù ti senti impotente. Cercavo di indirizzare questi disperati nelle strutture ma non era facile tutti i giorni trovare per loro un pasto caldo e un alloggio. Pensai di dover fare qualcosa per queste persone, cominciare un percorso di spiritualità partendo dal Vangelo».

I media chiamano “popolo della notte” chi vuole divertirsi. E' così?

«Si comincia con il volersi divertire e si finisce con il perdersi. La notte, pian piano, da fisica, diventa notte dell'anima».

Di cosa soffrono queste persone?

«Di solitudine. Il resto è una conseguenza: anoressia, bulimia, sessodipendenza, droga, dipendenza da Internet. Il popolo della notte non sta solo in periferia, ma nei quartieri più chic. Non c'è coscienza di quanto siano devastati i nostri ragazzi oggi perché le loro sono povertà invisibili. Il barbone lo vedi, chi ha ricevuto una coltellata al cuore no».

Nuovi Orizzonti com'è nata?

«In quegli anni chiedevo a vari politici e alle istituzioni di darmi una mano. Risposte zero. I giovani continuavano a morire e i politici a promettere. Feci un salto di fede. Il 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice, decisi di lasciare tutto e andare a vivere in strada con la mia nuova famiglia. In quello stesso giorno mi chiamarono per offrirmi gratis tre strutture. Nacque così il centro d'ascolto nel tunnel della Stazione Termini. Ancora una volta la Provvidenza mi era venuta incontro».

C'è qualche storia di disperazione che l'ha particolarmente colpita?

«Quelle che mi hanno raccontato relative a tre donne costrette a prostituirsi che hanno provato a scappare dai loro aguzzini. Una è stata legata a una macchina e trascinata nuda sull'asfalto, un'altra squartata viva e data in pasto ai maiali, a un'altra ancora misero topi e serpenti nelle parti intime».

Ma di fronte a tanto male lei non si scoraggia mai?

«Tutti i giorni. Se avessi basato quest'avventura sulle mie sole forze sarei scappata dopo una settimana. Però ho visto e continuo a vedere continuamente tante persone passare dalla morte alla vita. Questo mi dà la forza di andare avanti anche se le energie sono sempre meno e la mia salute è messa a dura prova. San Paolo dice che è quando siamo deboli che siamo forti e che, per fare tutto, basta soltanto la Grazia di Dio».

Il suo ultimo libro, La guarigione del cuore (Piemme), è un manuale sulla spiritoterapia. Cos'è?

«L'esperienza che in questi anni ho fatto nel cercare di accompagnare tante persone sprofondate in tunnel terribili. Se è vero che nella nostra mente ci sono tante potenzialità, è altrettanto vero che queste immense potenzialità, il più delle volte inespresse, ci sono anche nel nostro spirito dove possiamo trovare le chiavi fondamentali per la guarigione del cuore, per riscoprire la pace interiore e la gioia piena che ci ha promesso Gesù».

Chi sono i cavalieri della luce?

«Persone che hanno affrontato questo cammino di guarigione e da disperati sono diventati portatori di speranza per gli altri. Sono uomini di buona volontà che credono nella potenza dell'amore e nella forza rivoluzionaria del Vangelo».

A Nuovi Orizzonti si sono avvicinati tanti vip. Cosa li accomuna?

«La voglia di fare qualcosa di buono insieme. La gioia attira sempre, anche coloro che per il mondo sembrano uomini realizzati e di successo ma nel cuore conservano una profonda inquietudine. Tra i cosiddetti vip non ci sono meno disperati rispetto a quelli che trovi in strada. Solo che le loro ferite non si vedono».

Lei ha conosciuto gli ultimi tre Papi. Che rapporto ha avuto con loro.

«Di grande comunione. Però in questi anni mi sono sentita molto sola, non ho sentito il sostegno della maternità della Chiesa. Come se accogliere gli invisibili delle metropoli fosse una missione solo mia e non di tutti i cristiani».

La Chiesa in uscita predicata da Papa Francesco.

«Appunto, ma c'è una Chiesa che preferisce starsene comoda nel suo recinto. In quest'ospedale da campo di cristiani se ne vedono pochi. E' un'omissione di soccorso».

Dov'è Dio oggi?

«Ovunque. Il problema è che noi non abbiamo più gli occhi per vederlo».


L'INTERNAZIONALE DELLA GIOIA DOVE I PROTAGONISTI SONO GLI SCARTATI


Dall'esordio a Trigoria alle Cittadelle Cielo nel mondo

«Non ho mai voluto fondare nulla, il mio sponsor è sempre stata la Provvidenza», dice Chiara. Oggi la Comunità conta 228 centri di accoglienza in vari Paesi

All'Origine della Comunità Nuovi Orizzonti, nata venticinque anni fa, c'è la scelta di Chiara di dedicare la sua vita al popolo della notte: tossicodipendenti, ex detenuti, clochard, alcolizzati, donne vittime di tratta, ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi. La missione è quella di portare, a chi ha perso la speranza nei ghetti delle metropoli, la gioia di Cristo Risorto ponendo una particolare attenzione al mistero della sua discesa agli inferi. «Non ho mai voluto fondare nulla, è stata la Provvidenza a farmi da sponsor», spiega Amirante. Oggi Nuovi Orizzonti è un'associazione internazionale di volontariato no profit presente in vari Paesi del mondo. La sede principale, che coordina tutte le altre, è la Cittadella Cielo di Frosinone. L'8 dicembre 2010 è stata riconosciuta dal Vaticano come associazione internazionale privata di fedeli di diritto pontificio.
Dalla prima comunità di accoglienza residenziale aperta a Trigoria (Roma) nel marzo 1994, si è arrivati oggi a 5 Cittadelle Cielo, piccoli villaggi di accoglienza e formazione; 228 centri di accoglienza, reinserimento e formazione; 1020 equipe di servizio; 700 mila cavalieri della luce e 6 milioni di amici e simpatizzanti.
Già alla fine degli anni Novanta, Nuovi Orizzonti sperimenta a Roma le “missioni di strada”, un nuovo metodo pastorale di evangelizzazione. Dopo essere entrata in contatto con tante giovani vittime di varie situazioni di disagio, Chiara Amirante ha elaborato un cammino di conoscenza di sé e di guarigione del cuore (la spirit therapy, spiritoterapia) che diventa la peculiarità della sua proposta formativa anche nel mondo delle comunità di recupero.
Nel 2004 Giovanni Paolo II nomina Amirante consultrice del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti, incarico poi rinnovato da Benedetto XVI e da Francesco. Dal 2011 è membro del Comitato scientifico per la rivista People on the Move dello stesso Dicastero. Nel 2012 viene nominata da Benedetto XVI consultore del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Ha scritto vari libri. In l'Amore resta (Piemme, 2012) racconta la sua storia personale e come ha iniziato a occuparsi dei ragazzi di strada. Sono molti i personaggi del mondo dello spettacolo e dell'imprenditoria che si sono avvicinati alla Comunità: dal cantante Nek ad Andrea Bocelli, da Lorella Cuccarini a Simona Ventura a Matteo Marzotto.
I cavalieri della luce, nati su idea della Amirante nel 2006, sono persone che aderiscono al carisma dell'associazione. Alcuni sono riuniti in gruppi per impegnarsi insieme in varie iniziative di evangelizzazione.

A. S.

FONTE: Famiglia Cristiana N. 12
24 marzo 2019

sabato 12 gennaio 2019

Ecumenismo e incontro, i 50 anni di Bose


ANNIVERSARIO  NEL 1968 NASCEVA IN PIEMONTE LA COMUNITA' CHE OGGI CONTA CIRCA 90 MONACHE E MONACI. UNA LETTERA DI FELICITAZIONI DA PAPA FRANCESCO

«L'accoglienza di tutti, credenti e non» e la «capacità di ascolto» sono due caratteristiche evidenziate da Bergoglio che ha anche lodato l'impegno profuso per l'unità dei Cristiani

Cinquant'anni possono essere un tempo infinito oppure un battito di ciglia. E' difficile affidarsi alle misure convenzionali in un luogo dove si abita il silenzio e le giornate sono scandite dal respiro del canto più che dal ticchettio degli orologi. Eppure cinquant'anni sono anche una ricorrenza solida e tangibile, come una pietra posta lungo il cammino. La Comunità monastica di Bose (Biella), fondata da Enzo Bianchi (che ha dato inizio alla vita comune nell'autunno del 1968, dopo tre anni di vita solitaria, e che è stato priore del monastero fino al gennaio 2017) festeggia il primo mezzo secolo di vita.
E lo fa nel suo stile: con sobrietà, senza autocelebrazioni, con uno sguardo che sa far memoria del passato restando però concentrato sul presente. L'anniversario è anche un'occasione per rileggere un'esperienza unica, che porta nel suo Dna l'ecumenismo e l'apertura all'incontro: a Bose infatti vivono monaci di entrambi i sessi, provenienti da Chiese diverse. Lo ha sottolineato Papa Francesco nella lettera inviata al fondatore Enzo Bianchi: «Mi associo spiritualmente al vostro rendimento di grazie al Signore per questi anni di feconda presenza nella Chiesa e nella società, mediante una peculiare forma di vita comunitaria sorta nel solco del Concilio Vaticano II. La vostra Comunità si è distinta nell'impegno per preparare la via dell'unità delle Chiese cristiane». Non solo. C'è un'accoglienza che va anche oltre i confini del cristianesimo: «Desidero esprimere il mio apprezzamento», scrive il Papa, «specialmente per il ministero dell'ospitalità che vi contraddistingue: l'accoglienza verso tutti senza distinzione, credenti e non credenti; l'ascolto attento di quanti sono alla ricerca di confronto e consolazione».
Dove cercare le radici di questa intuizione? «Nella mia storia, fin dai primi anni di vita» risponde Enzo Bianchi. «Mia madre aveva una fede profonda, mio padre invece si professava ateo. Fin da ragazzo sono venuto a contatto con esperienze religiose diverse. Ricordo di quando mi portarono a visitare una sinagoga. Allora si parlava degli ebrei come di “perfidi giudei”, ma a casa mi dicevano che erano nostri fratelli».
Privilegiare l'incontro e il dialogo: una scelta profetica quanto faticosa, sopratutto agli inizi. Nel 67 Bianchi, appena ventiquattrenne, ricevette un interdetto dall'allora vescovo di Biella. «Ero giovane. Ed ero un laico, non provenivo dalla vita religiosa. In quegli anni, poi, l'ecumenismo non era ancora un dato acquisito per la Chiesa cattolica italiana». Fu il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, a sostenere la comunità e ad approvarne la regola nel 73. Una regola che vive nel solco della grande tradizione monastica, ma che sa anche essere molto innovativa. Uomini e donne, insieme in cammino: «Le differenze non si appiattiscono, si armonizzano» racconta Bianchi, specificando che «le sorelle possono avere tutti gli incarichi previsti per i fratelli».
Pensando a quel primo gruppetto di religiosi e alla loro vita in casupole semidiroccate, sorprende vedere oggi una comunità che conta una novantina di monaci e monache, non solo a Bose, ma anche nelle fraternità gemelle fiorite in Italia e nel mondo.
«Noi siamo i primi testimoni, stupiti, di quel che il Signore ha compiuto» ha sottolineato l'attuale priore, Luciano Manicardi. «Per noi ricordare i 50 anni di storia della comunità è anche prendere coscienza di un'eredità, di un lascito, e dunque di una responsabilità, a tanti livelli». Oggi come cinquant'anni fa, la Comunità di Bose vive di incontri, «con un'attenzione speciale per la dimensione umana. E con uno stile di vita che punta all'essenziale». Tante persone (anche molti giovani) vanno a cercare questo “magnete” nascosto nel silenzio delle colline. Hanno domande profonde e la consapevolezza di potersi sentire a casa.

Di Lorenzo Montanaro

FONTE: Famiglia Cristiana N. 51
23 dicembre 2018

giovedì 20 settembre 2018

“Anche il carcere è meglio dell'Africa!”. Parola di Marie Anne Molo, Missionaria del Vangelo


In Africa in tante zone rurali non esistono servizi di base, come l’acqua potabile e l’illuminazione. Non esiste uno stato sociale

In Africa in tante zone rurali non esistono servizi di base, come l’acqua potabile e l’illuminazione. Non esiste uno stato sociale, i cittadini non hanno diritto ad alcun servizio da parte dello stato, tutto è a pagamento: l’istruzione, la copertura sanitaria. Il lavoro manca e si vive disussistenza e di vendita di prodotti agricoli. Chi non ha la casa, vive dove capita. La libertà di stampa non esiste, in molti Stati scrivere un articolo di politica significa essere uccisi, in Camerun si finisce a volte in prigione. I servizi per i disabili non ci sono, una pensione sociale non esiste”.

Lo racconta Marie Anne Molo una donna consacrata Missionaria del Vangelo del Camerun di 52 anni che vive a Palermo che afferma:
In molti Paesi africani c’è la dittatura, in altri la guerra, in altri il terrorismo, in tanti altri la povertà estrema e si muore di fame”.

È meglio per un africano vivere in un carcere italiano che vivere in Africa. Nelle galere italiane si vive bene: c’è un tetto, c’è la luce, c’è l’acqua potabile, c’è da mangiare, c’è la sicurezza, ci sono cure mediche, non c’è la guerra e né tanto meno la tortura”.
Marie Anne è venuta in Italia diversi anni fa con l’obbiettivo di studiare e acquisire competenze per poi tornare in Camerun per impegnarsi nella promozione dello sviluppo dell’area rurale da dove proviene. Già da alcuni anni Marie Anne, con il supporto delle Missionarie del Vangelo, realizza diversi microprogetti (frantoi, mulini, pollai, coltivazioni, un pozzo per l’acqua potabile) per aiutare in Camerun il suo popolo.

Io sogno di cambiare la vita della mia gente e di sfruttare bene le nostre risorse: legname, minerali, petrolio. Sin da bambina desideravo consacrarmi al Signore per dedicare tutta la mia vita ad aiutare la mia gente. Tant’è che mi sono sempre prodigata nell’aiutare chi era nel bisogno.

Da grande allora ho deciso di venire in Italia per cominciare sia la mia formazione religiosa e per consacrarmi al Signore, sia per studiareeconomia dello sviluppo alla Pontificia Università Gregoriana, per lo sviluppo umano integrale.

Noi siamo tutti vittima di un sistema che sfrutta le risorse e le persone sia in Italia, sia in Africa. Invito tutti i cittadini a fare una rivoluzione culturale per cambiare questo sistema che non pensa alle persone, ma ai soldi. Noi del Cristianesimo ci riempiamo la bocca, ma facciamo poco di quello che c’è scritto nel Vangelo. L’Italia è il mio Paese – dice Marie Anne - occorre uno sforzo per capire le altre culture, noi in Camerun abbiamo la cultura dell’accoglienza, ascoltiamo l’altro.

Nella mia famiglia, quando vivevo in Camerun, diverse volte non si mangiava, ma ogni giorno pregavamo: la mattina presto e la sera. Abbiamo ancora le lampade a petrolio e nelle strade non c’è illuminazione pubblica, beviamo spesso acqua sporca. Un pozzo realizzato dalla cooperazione internazionale è a vari chilometri. La pioggia per noi è una benedizione con la quale ci facciamo una doccia naturale
”.

Questo è il contenuto del primo appuntamentoche si è svolto nella "Cittadella del Povero e della Speranza" nella chiesa "Casa di preghiera per tutti i Popoli" nel mese di agosto, in attesa dell'incontro con Papa Francesco che verrà prossimamente in missione per condividere il pranzo con i fratelli ultimi.

di Antonio Lufrano

8 agosto 2018

FONTE: Quotidiano Sociale

giovedì 6 settembre 2018

La storia di suor Jacinta, in Italia per aiutare chi è in difficoltà


Sono venuta in Italia solo per seguire Gesù Cristo. Il buon Dio ha voluto che venissi a Palermo, nel quartiere Brancaccio, per mettermi al servizio del Centro Padre Nostro per aiutare chi è in difficoltà”. A parlare è suor Jacinta delle Maestre Pie Venerini, originaria dell'Uganda ma da tanti anni in Italia. Nella Cittadella del povero e della speranza in via Decollati, a Palermo, ha raccontato perché ha deciso di arrivare in Italia e cosa l'ha spinta a dedicarsi a chi ha bisogno in uno dei quartiere più difficili della città. “Vengo da una famiglia unita, con genitori santi, che mi hanno trasmesso grandi valori - dice -. E’ importante avere una famiglia che ti formi con amore, ci sono tanti figli che hanno avuto solo schiaffi e mai una carezza. Quando avevo 15 anni ho detto a mio padre che volevo diventare suora, che mi ha risposto dicendomi di finire gli studi e se dopo avessi avuto ancora quel desiderio potevo seguirlo”.

Da diplomata in lingua inglese suor Jacinta va a insegnare subito, ma dopo un anno sente forte il desiderio di venire in Italia per diventare suora. “Amo moltissimo i miei genitori e loro amano me, amo l’Uganda e amo insegnare ai miei studenti, ma seguire Dio è un amore ancora più grande - spiega -. Ho detto che sarei partita per l’Italia solo per tre mesi per dare loro una speranza, in realtà sono rimasta 6 anni in Italia per prendere i voti e solo allora sono tornata in Africa”. E’ stata una grande festa quando suor Jacinta è tornata nella sua città Foct-Portal. Quando è rientrata a Roma il suo provinciale le ha chiesto di andare a Palermo e suor Jacinta ha subito accettato. “Ho messo tutto nelle mani del Signore - racconta -, io conoscevo la mafia, la storia di Palermo e per non fare preoccupare la mia famiglia non ho detto che sarei andata a Brancaccio”.


Tante suore mi hanno chiamata preoccupate per il mio trasferimento - dice ancora -. Circa un anno fa, il 17 settembre 2017, ho messo piede a Brancaccio, al servizio del Centro Padre Nostro voluto dal beato Padre Pino Puglisi. All’inizio gli abitanti del quartiere non mi davano confidenza, ora invece sono molto accoglienti, si confidano sui loro figli per avere un consiglio, un sostegno, sanno che possono contare su di me e io su di loro”. Suor Jacinta è sempre sorridente e presta il suo servizio alla casa per anziani del Centro Padre Nostro dove sono accolte 80 persone. Tante le attività insieme: gite, pranzi fuori porta, lavori in ceramica, danza, preghiere ed esperienze di condivisione.

Nel Centro si occupa anche di recupero scolastico per bimbi delle scuole elementari e per ragazzi delle scuole superiori. Li aiuta ad imparare l'inglese. Nella casa museo Padre Pino Puglisi accoglie tanti visitatori a cui racconta la vita del beato ed è anche una volontaria della parrocchia San Gaetano, dove insegna catechismo e canta nel coro. “La sera sono stanca perché ogni giorno mi muovo solo con la macchina di San Francesco (a piedi) - dice -. In Africa siamo liberi di lasciare le porte aperte delle nostre case e possiamo andare a trovare ogni persona senza preavviso. Tra gli africani c’è molta solidarietà, ci sentiamo tutti fratelli e qui in Europa tra di noi ci aiutiamo. Qui in Italia, invece, non potete lasciare la porta aperta e per andare a mangiare a casa di qualcuno avvisate con diverso anticipo, non esiste presentarci all’improvviso come facciamo noi in Africa” conclude.

L'incontro testimonianza è stato il terzo appuntamento nella Missione di Speranza e Carità di Biagio Conte in vista della visita pastorale di Papa Francesco che a metà settembre si recherà alla Cittadella del povero e della speranza per condividere il pranzo con immigrati e carcerati.

29 agosto 2018

FONTE: Adnkronos

venerdì 13 luglio 2018

Le lacrime di Padre Pio


Quando pensiamo o parliamo di Padre Pio, spesso rimaniamo affascinati dai tanti Doni e Carismi straordinari di cui il Signore lo aveva così generosamente dotato, nonché dagli aspetti più “mirabolanti” della sua vita, così ricca di episodi significativi a stretto contatto col soprannaturale. Viene quasi spontaneo legare la figura del Santo di Pietrelcina a questa cose, mentre spesso tendiamo a mettere in secondo piano altri aspetti più “ordinari” della sua vita, perché “solleticano” meno il nostro interesse. Ma la Santità di uomo non si vede solamente dagli eventi straordinari della propria esistenza, ma anche, e forse ancor di più, da quegli aspetti della vita che rientrano nell'ordinarietà, vissuti però con Amore straordinario. E in questo contesto vorrei mettere in evidenza un aspetto peculiare della vita di Padre Pio: quello delle lacrime!
Padre Pio ha sempre avuto il Dono delle “lacrime”, ovvero quello di piangere spesso.... ma non per frivoli o superficiali sentimentalismi, ma bensì per Amore, Amore vero nei confronti delle anime che spesso, spessissimo gli laceravano il cuore con i loro peccati, con il loro cattivo comportamento, con la loro lontananza o indifferenza nei confronti del Signore. E per questi peccati Padre Pio piangeva molto, soprattutto durante la notte, nelle sue lunghe, intense e spesso dolorose notti passate nella propria celletta del convento di San Giovanni Rotondo, quasi sempre senza dormire. Ma il Santo di Pietrelcina piangeva anche per altri motivi, aveva tante ragioni per farlo, ma sempre a motivo del suo grande, sconfinato Amore per Gesù e la Madonna. A questo proposito c'è un aneddoto molto significativo che ho appreso attraverso l'emittente televisiva Padre Pio TV e raccontato da quel bravissimo frate cappuccino che risponde al nome di Frate Marciano Morra. Questo aneddoto riguarda il Santo di Pietrelcina nel suo periodo di noviziato, e penso sia una bella cosa farlo conoscere.
Durante questo periodo, il giovane Francesco Forgione (non aveva ancora assunto, naturalmente, il nome di Padre Pio) assieme ai suoi giovani confratelli, passava tutti i giorni un certo periodo di tempo meditando la Passione e Morte di nostro Signore Gesù Cristo, così come prevedeva la regola di allora. Al termine di questo tempo di meditazione ogni aspirante frate, a turno, doveva riassettare la stanza dove si erano riuniti insieme, sistemando i banchi, spazzando per terra e così via. Uno dei compagni di noviziato del futuro Santo, ci ha lasciato a questo proposito una preziosa testimonianza. Lui, come ciascun altro novizio, al termine di questa meditazione, poteva perfettamente capire in quale posto si era seduto Padre Pio, perché dovunque lui si mettesse rimaneva sempre una piccola “pozzanghera” di acqua sul pavimento. Ma donde veniva quest'acqua? Veniva dagli occhi del futuro Santo, occhi che piangevano lacrime di Amore e di Dolore nel meditare la Passione di Gesù, una meditazione che non lasciava certamente indifferente il giovane Francesco il quale non riusciva mai, mai a trattenere le lacrime.... era più forte di lui! Queste lacrime erano la prova più tangibile del suo vero, grandissimo Amore per Gesù, un Amore profondo, vissuto, partecipato.... così partecipato che, di lì a poco, lo avrebbe persino rivissuto nella propria carne! La Santità del resto è proprio questo: non si è Santi perché si hanno Doni o Carismi straordinari.... questi semmai vengono donati dallo Spirito Santo come conseguenza di questa Santità. Ma la Santità consiste nell'amare, nell'amare intensamente, fortemente, anche dolorosamente..... e amare significa fare dono di sé, fare la Volontà di Colui che si ama, Gesù in questo caso, e volergli piacere in tutto e per tutto! E le lacrime sono una prova tangibile di questo Amore!
Le lacrime sono un grande Dono, e lo stesso Papa Francesco ci invita a chiederlo al buon Dio questo Dono! Le lacrime, come ci ha lasciato detto il Papa, sono “una lente d'ingrandimento” che ci aiuta a vedere meglio Dio!

Marco

martedì 27 febbraio 2018

Anna Maria, la mistica del lago che vive in clausura da 44 anni


La religiosa Anna Maria Cànopi sull’isola di San Giulio: incontro i pellegrini e anche chi non crede. «Chi viene sull’isola di San Giulio trova misericordia»

Ogni giorno Anna Maria Cànopi, madre badessa dell’abbazia benedettina Mater Ecclesiae, abbraccia l’umanità sofferente del mondo, l’umanità che grida, che si sente naufragare nel mare tempestoso della storia, che cerca conforto. Nell’isola San Giulio, sul lago d’Orta, vive in ascolto e preghiera da 44 anni: è un riferimento mistico della presenza di Dio, capace di contagiare con la fede chi ha bisogno di aiuto. Nel silenzio della clausura si parla di speranza, del coraggio di vivere, della forza del perdono e della visita a Milano di Papa Francesco, «una meteora nel cielo che si porta dentro le ferite dell’anima».

Alleviare le sofferenze

Fuori c’è gente in attesa, una famiglia, è venuta a pregare, due giovani sono in viaggio per monasteri, alcuni pensionati parlano della cattiveria del mondo. «Ce n’è tanta — dice madre Cànopi — perché c’è cattiveria nei nostri cuori. Bisogna sempre tornare lì, al combattimento spirituale dentro di noi contro le tentazioni e le passioni. È lì che bisogna combattere e vincere la battaglia, con l’aiuto di Dio. Ogni giorno, senza mai stancarsi, senza mai perdersi di coraggio per le inevitabili sconfitte, ma gridare aiuto come Pietro quando si è sentito affondare sulle acque del mare in tempesta. E Gesù è pronto a tendere la mano...».
Nell’atrio del monastero ci sono i suoi libri, alcuni titoli hanno la forza della semplicità: Incontro con Gesù, Silenzio, Fammi sapere perché, Preghiera, Un angelo anche per te. Aiutano chi è stato azzerato nella vita e deve trovare ogni giorno la forza per superare le avversità.
«Oggi soffrono i poveri privi del necessario per vivere, ma soffrono anche i ricchi, quando si accorgono che la loro ricchezza non li mette al riparo dalle grandi prove della vita. Soffrono i giovani per la disoccupazione dilagante e per le ingiustizie sociali che urtano con i loro ideali. Soffrono gli anziani spesso lasciati ai margini della società. Soffrono le famiglie in difficoltà economiche, provate da malattie e lutti, e tanto spesso divise... Ma soffrono soprattutto i bambini...». Un dolore innocente, che piega le gambe. «Tanta della loro sofferenza è dovuta a veri e propri scandali sociali: i bambini soldato, la pedofilia, il lavoro minorile, i genitori divisi... Ma vi è nei bambini anche tanta sofferenza fisica per malattie incurabili. Non passa giorno che non ci vengano segnalati casi di bambini molto piccoli, e già malati di tumore, leucemia... È un grande mistero: sembra quasi che il Signore voglia associarli più strettamente a sé nella Passione redentrice». E cosa si può dire a chi arriva con un buco nel cuore? «Una persona che soffre non cerca parole. Si sta in ascolto del suo dolore. A volte è proprio di questo che c’è bisogno. Trovare un cuore che ascolti e accolga le lacrime. E poi pregare insieme».

Le periferie e il carcere

Chi bussa al monastero trova un percorso di fede, che vale anche per chi non crede. «A chi è disperato perché ha perso la dignità e non ha una fede per invocare l’aiuto di Dio, si può soltanto dire che il suo grido di dolore non è inascoltato, perché Dio stesso, inviando suo figlio Gesù, è venuto a condividere la nostra condizione umana, si è caricato delle nostre colpe e dei nostri dolori per trasformarli in salvezza e gioia. Nessuno è abbandonato». Ci sono periferie umane ed esistenziali, ricorda Papa Francesco, dove l’ascolto è un antidoto alla disperazione. Il carcere è una di queste. «Ho molti amici nelle carceri — dice madre Canopi — qualcuno è venuto a trovarmi appena rimesso in libertà. Chiedono anche solo una parola che possa far loro compagnia. Hanno bisogno di passare da un senso di colpa all’esperienza sanatrice della Divina Misericordia». L’anno giubilare e i gesti di attenzione del Papa, in ginocchio davanti ai piccoli detenuti nel suo primo giovedì santo, anticipano la visita a San Vittore. «Dalle tenebre si esce solo se c’è una finestra che si apre. Papa Francesco ci aiuta a vedere che Dio è luce, Gesù è luce. Luce di vita risorta. Il Giubileo lascia un patrimonio di fede e di bontà. Un forte incentivo ad una vita buona, altruista, accogliente e generosa verso tutti, pronta al perdono e alla riconciliazione. La misericordia è il mantello che copre le colpe del fratello, protegge gli indifesi, raduna i dispersi e si allarga all’infinito. Ci lascia pellegrini sulla via dell’amore».
Madre Cànopi ha 86 anni e la sua vita è stata amare gli altri. Da bambina si incantava con le stelle e con il vento. «Mio padre guardava il cielo e si chiedeva: che cosa ci sarà mai dopo? Non finisce mai l’eterno, il senso del mistero...». Per studiare si alzava all’alba. «All’uscita dalla scuola, giocavo alle belle statuine. Un bambino sceglieva sempre me e un giorno mi sono arrabbiata: perché lo fai? Mi ha risposto così: con quegli occhi...». Madre Cànopi è sottile come un filo, dal mantello e dal velo spuntano due occhi abbaglianti, azzurri, con la luce dentro. «Dicevano che guardavano il cielo. E io pensavo: il Cielo è il Signore, Lui mi guarda e mi bacia». Nella sua giovinezza c’è la guerra, la scuola, la Cattolica, laurea in Lettere, tesi su Boezio. La chiamata matura quando fa l’assistente dei giovani carcerati, su richiesta della Procura di Pavia. «Erano ragazzi perduti, disadattati, senza riferimenti, senza morale. La loro richiesta di aiuto era immensa. Volevo fare di più per loro, per quelli come loro. Ho sentito una spinta dal Cielo: mi invitava a raggiungere tutta l’umanità sofferente. E io avevo un desiderio: volevo abbracciare il dolore del mondo».

Le monache e i pellegrini

La clausura illumina la realtà contemporanea. Il convento distilla quel che serve per vivere. Madre Cànopi è arrivata sull’isola nel lago d’Orta senza nulla di superfluo. L’ha chiamata il vescovo di Novara, Aldo Del Monte, dall’abbazia di Viboldone. Il vecchio convento era un luogo morto. Non c’erano i draghi e le serpi della leggenda, quelli scacciati da San Giulio, l’evangelizzatore del Quattrocento. C’erano i rovi dell’abbandono. Con le monache sono tornati i pellegrini. Chi sono oggi? «Nella luce della fede mi sembra che i veri pellegrini oggi siano le immense moltitudini di profughi che in estrema povertà lasciano la loro patria, la loro casa, i loro cari e vanno, fidandosi, consapevolmente o inconsapevolmente, di Dio. Ma tutti noi siamo pellegrini e viandanti sulla Terra, in cammino verso la Patria Celeste». Che cosa chiedono quelli che vengono qui? «Sant’Agostino risponderebbe che cercano la felicità. Ed è vero, lo scopo del pellegrinaggio è venerare le spoglie di un Santo o mettersi in contatto con un luogo di culto, per chiedere una Grazia o per ringraziare d’averla ricevuta. Ma nel pellegrinaggio non è importante solo la meta, conta anche il cammino per giungere alla meta, a volte si scoprono motivazioni diverse da quelle per cui si è partiti...». La felicità, spiega madre Canopi, è «aver scoperto di essere amati da Dio e sentire il desiderio di riamarlo. La felicità ha la sua sorgente nell’amore». Si può essere felici davanti a un’alba luminosa o a un bel tramonto, ma lo si è certamente quando si sente l’amore degli altri. «Per renderci felici Dio ci da’ Se Stesso al punto di farsi panel’Eucaristiache crea unità».
Nel monastero è di nuovo silenzio. È l’ora di Compieta, la preghiera della sera. Alle nove le monache si ritirano. Erano sei, 44 anni fa. Oggi sono più di settanta. Nel silenzio Madre Canopi custodisce l’intensità dei pensieri. Prega, legge, studia, risponde alle lettere, scrive poesie. L’ultima raccolta si intitola "Ancora cantando" editore Morcelliana, a cura di Arnoldo Mosca Mondadori. Madre Cànopi lavora fino a tardi, anche all’una di notte. Alle quattro è di nuovo in piedi. Ora et labora, dice la regola benedettina.
Le capita di pregare per l’Italia? «Io prego per l’umanità sparsa su tutta la terra. Ovviamente, in primis, prego per il nostro Paese, l’Italia, che mi sembra il più bello del mondo, perché lo amo. Così come un bambino vede la sua mamma e il suo papà come i più belli del mondo. Vorrei che i suoi abitanti fossero degni di stima, di onore, di ammirazione davanti a tutti gli altri Paesi del mondo».
Ci si allontana con l’eco dei passi. Dal traghetto l’isola di San Giulio è ancora più bella. Anche la bellezza è consolatrice.

di Giangiacomo Schiavi

18 marzo 2017

FONTE: Corriere.it


Personalmente amo tantissimo le suore di clausura, queste anime "belle" che dedicano tutta la loro vita a rendere Gloria a Dio e a intercedere per il prossimo, nell'umiltà e nel nascondimento. Esse hanno sempre uno sguardo speciale, particolare, una "luce" negli occhi che parla più di tante parole.... la Luce dell'Amore di Dio! E quanto bene che fanno queste anime.... un bene di cui potremo renderci veramente conto solamente quando saremo in Paradiso.
Siate sempre benedette anime belle.... raggi di Luce donate al mondo intero!

Marco