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lunedì 28 dicembre 2020

Napoli, la Comunità di Sant'Egidio distribuisce doni e pasti ai poveri

Nella chiesa di San Severino e Sossio gli auguri del cardinale Sepe che non ha voluto far mancare la sua vicinanza nel suo ultimo Natale da arcivescovo di Napoli

Distribuzioni di doni e pranzi di Natale da asporto a centinaia di senzatetto. Così, nel giorno di Natale, la Comunità di Sant'Egidio a Napoli è stata vicina ai poveri. Non potendo fare i tradizionali pranzi, in diversi luoghi della città sono stati predisposti centri di accoglienza dove, nel rispetto delle norme anti-covid, le persone che vivono per strada hanno potuto ritirare cibo e regali. Nella chiesa di San Severino e Sossio erano in cento. Ognuno aveva ricevuto un invito personale e un numero, corrispondente al posto dove sedersi. Poi i volontari vestiti da Babbo Natale hanno consegnato la busta rossa con doni e pasti.

A fare gli auguri è intervenuto il cardinale Crescenzio Sepe, che non ha voluto far mancare la sua vicinanza nel suo ultimo Natale da arcivescovo di Napoli, e rivolgendosi agli ospiti ha affermato: "Con la nascita di Gesù non siete soli, siete figli e fratelli, e anche se quest'anno non possiamo pranzare insieme il Covid non ci può impedire di festeggiare il Natale". Il cardinale ha voluto poi ringraziare i volontari della Comunità con Antonio Mattone per il loro impegno in favore dei poveri.

L'evento è stato animato dalla cantante Marina Bruno che ha intonato "Quanno nascette ninno", e poi all'improvviso, venti Babbo Natale hanno distribuito i doni agli ospiti, che sono rimasti rispettosi ai loro posti per poi tornare nelle strade e nelle piazze dove dimorano. Dentro una busta rossa, c'erano confezioni di pasta al forno, polpettone, patate, frutta, dolci e un piccolo panettoncino, con un giubbotto per proteggersi dal freddo in regalo per tutti. Nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli, invece sono intervenuti 60 clochard che gravitano nella zona del Museo Archeologico Nazionale, a cui si è unito un anziano di 78 anni dei Quartieri Spagnoli che alla fine ha voluto ringraziare per essere stato accolto: vive da solo e, saputo dell'avvenimento, si è voluto recare in chiesa a prendere il suo pacco. Altri 30 poveri sono stati raggiunti tra la chiesa di S.Maria delle Grazie e Toledo e la Galleria Umberto dove un gruppo era rimasto per ripararsi dalla pioggia.
Nel quartiere napoletano di San San Giovanni a Teduccio, poi ad Aversa, nel Rione napoletano del Vasto si sono svolte altre distribuzioni, mentre nella zona di Fuorigrotta, sempre a Napoli, un furgone guidato da Babbo Natale ha distribuito pranzi da asporto e doni ai senzatetto della zona, con pasta al forno cucinata dai ragazzi dell'istituto di Nisida. Infine, alcuni anziani soli del Rione Sanità e dei Quartieri Spagnoli hanno ricevuto regali e pranzo.

"In questo Natale insolito, sicuramente più essenziale, abbiamo voluto essere vicini ai poveri che incontriamo durante l'anno in modo diverso ma con l'amicizia e il calore di sempre" afferma il portavoce della Comunità di Sant'Egidio Antonio Mattone. Iniziative rese possibili dalla presenza di tanti volontari e dalla generosità di numerose aziende, perché se è vero che aumenta la povertà è altrettanto vero che cresce anche la solidarietà. "Anche senza tavolate e abbracci, la Comunità di Sant'Egidio ha voluto preparare un Natale ricco di calore per i più fragili e più soli" aggiunge il portavoce.


26 dicembre 2020

FONTE: La Repubblica

sabato 16 giugno 2018

Corridoi umanitari: «Questo viaggio per noi vale una vita»


Siamo andati in Etiopia a seguire i 113 rifugiati del corridoio umanitario organizzato da Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Gandhi Charity. Chi sono questi profughi? Eritrei, sudsudanesi, somali. Scappati dalla guerra e dall’oppressione. Alle spalle storie di violenza e privazioni. il futuro? Parla italiano.

Ghennet cammina un po’ curva sotto il borsone che tiene sulla testa. Le poche cose che possiede sono tutte là dentro. Il resto è la sua Africa, quella che si porta nel cuore e nei ricordi. Quella bella dell’infanzia e quella terribile della fuga, dei campi profughi, della fame, delle violenze, della paura. Arriva all’hotel Ghion di Addis Abeba, che fa da punto di ritrovo. Stasera Ghennet (nome di fantasia, come tutti gli eritrei citati, le cui famiglie potrebbero subire ritorsioni), insieme a tutto il gruppo – 113 rifugiati più gli operatori – si sposterà all’aeroporto: le pratiche finali, il volo notturno, l’arrivo, domattina alle 4.30 a Fiumicino. L’Italia. Piena di una neve prima mai vista e di un freddo mai provato. Troverà i volti sorridenti della parrocchia che l’accoglierà. Come lei arrivano tutti, alla spicciolata. Una sessantina provenienti dai campi profughi del Nord, popolati di eritrei, e dell’Ovest, al confine con il Sud Sudan in guerra civile. Una mamma con due bambini disabili viene anche dall’altro infinito con­itto del Corno d’Africa, quello somalo. Gli altri vivevano già ad Addis Abeba, con lo status di rifugiati.

Sfila Tesfay, tenendo per mano il figlio di 7 anni. Porta con sé una valigia e dieci anni da soldato, la fuga dall’Eritrea nel 2003 verso l’Egitto, l’anno di carcere nelle sue prigioni, gli ultimi dieci anni da rifugiato in Etiopia. Vorrebbe liberarsi dei terribili ricordi del Sinai. «Preferisco non parlarne», dice. Passa Abraham, aspirante sacerdote copto, imprigionato e torturato all’Asmara per aver rifiutato di arruolarsi nella leva obbligatoria, e senza data di congedo, nell’esercito eritreo. «Come ho fatto a resistere? La guida è stata questa», dice, sollevando la grande croce che porta in petto. Arriva a passo lento Nebyat con i due bambini, Shewit e Teame, uno per parte. Lei non è scappata solo dalla dittatura dell’Asmara, ma anche da un marito soldato che la picchiava. A due passi dalla piscina vociante dei bambini ospiti dell’albergo compare il gruppo dei sudsudanesi, due sole grandi famiglie di 10 e 12 membri. Loro sono rifugiati da oltre vent’anni. La guerra civile che ora insanguina il loro Paese non l’hanno nemmeno conosciuta. Sono scappati durante il confl­itto precedente, quando la gente del Sud voleva liberarsi dall’oppressione del regime di Khartoum. «Venire in Italia per noi è la salvezza», dice una di loro, Sara. «Nel campo profughi dov’eravamo si replicavano le tensioni etniche che stanno distruggendo il nostro Paese. Subivamo violenze continue». Nyhal, giovane membro dell’altra famiglia sudsudanese, apre la valigia: «Vedi, del mio Paese porto con me la bandiera e questi bracciali tipici della nostra tradizione. Nient’altro».

Questo volo porterà a Fiumicino e poi in 18 diverse diocesi italiane il gruppo di profughi. Tutte situazioni di vulnerabilità, non solo perché in fuga dalla guerra o da un regime oppressivo, ma anche perché si tratta di famiglie nelle quali un figlio ha bisogno di cure, o è disabile, o ancora donne sole con bambini (talvolta frutto di violenza), oppure giovani che sono passati per l’inferno delle prigioni eritree o i sequestri delle bande di beduini del Sinai. «Mi hanno liberato perché la famiglia e gli amici hanno messo insieme 30 mila dollari», spiega Isaias, «altrimenti mi avrebbero reciso le dita una alla volta. Quando vedono che uno non ce la fa o la famiglia non paga gli prelevano gli organi. Questo, noi sequestrati, lo sapevamo tutti».

È il secondo corridoio umanitario dall’Etiopia. Il primo ha condotto in Italia 25 profughi, ne giungeranno altri 362, per un totale di 500,
con le missioni programmate a giugno e in autunno del 2018. Questo è il progetto di Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e l’Ong Gandhi di Alganesc Fessaha. Un modello di corridoio umanitario senza precedenti, perché non prevede solo il “viaggio sicuro”, ma anche un lungo lavoro preparatorio di individuazione delle persone da portare in Italia, diversi colloqui con ciascuno dei profughi, la collaborazione con l’Unhcr, con l’ente di protezione dei profughi etiope (Arra), con l’Ambasciata italiana di Addis Abeba per le procedure di identificazione e di visto. Non solo. Ogni rifugiato o nucleo familiare sa già in quale parrocchia e famiglia italiana verrà accolto. Finora sono venti le diocesi che hanno dato disponibilità, alla fine del progetto saranno una settantina. Dopo l’arrivo in Italia, si prospetta un lavoro altrettanto intenso, di accoglienza e integrazione: apprendimento della lingua, ricerca del lavoro, l’autonomia entro un anno (ma l’inserimento nel nostro Paese sarà monitorato per cinque anni).

«Una grande gioia, ma anche mille paure. Questo viaggio per me e mio figlio è l’inizio di una nuova vita», dice Ezgharya, scappata dalla famigerata caserma eritrea di Sawa quand’era sotto leva. Intercettata e arrestata, e fuggita una seconda volta dopo il reintegro nell’esercito. La lunga fuga – sei anni nei campi profughi – le lascia la ferita di un marito che l’ha abbandonata e un bambino di 5 anni. «Potrò farlo studiare», spiega, «anche se so che l’Italia è una sfida difficile, ma da vincere».

«Vuoi sapere se avrei tentato la sorte della traversata del deserto e del mare? Sì, se non avessi avuto questa occasione l’avrei fatto», aggiunge. «Sì, anche sapendo che forse saremmo morti o temendo di finire nelle carceri libiche. I campi profughi ti annullano il futuro. Quando non hai più niente da sperare tanto vale tentare il tutto per tutto. Meglio rischiare la vita che vivere una non vita in una tenda dove a malapena riesci a bere e a sfamarti».

Nella notte il volo. In pochi minuti regna il silenzio, grandi e piccoli sono sopraffatti dalla stanchezza. Qualcuno non dorme, dagli oblò guarda sotto, il Sahara, poi il Mediterraneo. Noi li sorvoliamo. Laggiù, migliaia di altri profughi giocano la loro scommessa con la vita e la morte.


CORRIDOI UMANITARI, IL MODELLO ITALIANO

“Protetto. Rifugiato a casa mia”. Così Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Ong Gandhi hanno denominato il progetto dei corridoi umanitari dall’Etiopia. Un lavoro iniziato a fine 2017 e che terminerà – per la fase dei trasferimenti – nel prossimo autunno.
«Abbiamo iniziato con i rifugiati siriani nel 2015», spiega Giancarlo Penza, che con Cecilia Pani coordina per la Comunità di Sant’Egidio questo progetto. «Ma l’esperienza maturata ci ha spinto a elaborare ulteriormente il modello di corridoio umanitario, la cui vera novità è il coinvolgimento della società civile ed ecclesiale. Perciò l’apporto da un lato della Ong Gandhi (la cui fondatrice, Alganesc Fessaha, da 18 anni lavora nei campi profughi etiopici, ndr) che ha curato l’individuazione dei rifugiati, e dall’altro di Caritas che ha trovato le realtà ospitanti e ha messo in collegamento i profughi con chi li ospiterà, ne fa oggi il modello più avanzato di integrazione». Si tratta di 500 persone. Poche, se pensiamo che la sola Etiopia, Paese poverissimo, accoglie 900 mila rifugiati. «Ma se il modello fosse adottato dagli Stati», aggiunge Penza, «i numeri sarebbero ben diversi».

L’apporto delle diocesi e delle famiglie è determinante: «Ogni rifugiato avrà un tutor che gli starà accanto», sottolinea Daniele Albanese, responsabile con Oliviero Forti del progetto per Caritas italiana. «Inoltre, la mobilitazione dei volontari consente un notevole contenimento dei costi: 15 euro al giorno per persona, nell’anno in cui i profughi sono in carico a noi. Dopo il quale dovranno raggiungere l’autonomia». «La formazione e la preparazione della comunità che dà ospitalità è fondamentale», insiste Albanese. «La gente sa poco o nulla di quanto avviene in Eritrea o in Sud Sudan. Chi accoglie conosce i contesti da cui provengono i rifugiati, e loro sanno dove andranno. In molti casi hanno già ricevuto un video dalla famiglia italiana che li accoglierà». La gran parte dei 113 rifugiati di questo corridoio umanitario erano già seguiti da tempo da Alganesc Fessaha, la fondatrice della Ong Gandhi Charity: «Sono famiglie dove manca un genitore», dice, «o con bambini malati e disabili. Alcuni sono coloro che ho liberato dalle carceri egiziane o dalle mani dei sequestratori nel Sinai».

A ricevere a Fiumicino il gruppo ci sono mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, Mario Giro, viceministro degli Esteri, Marco Impagliazzo, presidente della Sant’Egidio. Tutti e tre hanno sottolineato che questa è la risposta al dramma delle morti nel deserto o in mare. Ma è anche la via maestra per una vera integrazione. «Esiste l’alternativa allo sciacallaggio economico e politico, anzi pseudopolitico», ha concluso Galantino, «ed è la bella lezione che viene dai corridoi umanitari». Una lezione che, dall’Etiopia, anche l’arcivescovo di Addis Abeba, cardinale Berhaneyesus Souraphiel, invita a seguire: «Tutti i Paesi europei», ci ha detto, «dovrebbero fare come l’Italia».

di Luciano Scarlettari

FONTE: Famiglia Cristiana N. 10
11 marzo 2018


Quando sentiamo parlare di profughi provenienti dall'Africa o da altre parti del mondo, in cerca di ospitalità qui in Italia o, in generale, in Europa, dovremmo capire bene di cosa stiamo parlando. Credo che questo articolo renda bene l'idea del DRAMMA che queste persone vivono nel loro paese, un dramma così grande che li "costringe" a scappare e a cercare disperatamente ospitalità altrove a rischio concreto della propria stessa vita. E questo perchè nel proprio paese non c'è futuro e speranza, a causa della guerra, dell'anarchia e della violenza! Non si emigra dal proprio paese di appartenenza, a rischio stesso e consapevole della propria vita, se non c'è dietro una ragione veramente, ma veramente valida!
Quella dei "corridoi umanitari" è certamente la strada migliore da seguire per poter ospitare questi profughi, una strada che assicura loro una sistemazione, una protezione e anche un futuro. Ciò nondimeno non credo sia ipotizzabile pensare che, attraverso i corridori umanitari, si possa ospitare per intero l'enorme mole di profughi proveniente dal continente africano o da altre zone della terra martoriate dalla guerra e dalla violenza. E' chiaro che il primo e più importante obiettivo dev'essere quello di portare la Pace laddove la Pace ora non c'è, quindi quello di aiutare gli stati più bisognosi a risolvere i propri problemi interni. Non è una cosa semplice naturalmente, tutt'altro.... ma la vera conquista sarebbe proprio questa! E se la Pace, unita ad un sano e pacifico benessere giungesse dov'è ora odio, disordine e violenza, il problema profughi cesserebbe immediatamente di esistere, perchè nessuno più avrebbe motivo di lasciare la propria terra. La speranza di tutti, naturalmente, è che in un futuro, speriamo prossimo, si possa giungere proprio a questo!

Marco

martedì 26 dicembre 2017

Quelle coperte che scaldano le notti degli ultimi di Roma


La signora Tina ha cominciato a fare coperte per i poveri per colmare il dolore della perdita del figlio

La lana scivola tra le dita e due ferri che l'intrecciano sbaragliano le teorie dell'invecchiamento come tempo desolato e privo di consolazione. In punta di economia quel mucchio di coperte colorate che ricopre il divano di casa potrebbe essere definito "investimento produttivo residuale". Ma Tina non è sazia di giorni e continua a credere, faticare e amare. Impiega tre o quattro giorni a tessere con i ferri una coperta. Sorride: «Dipende dalla lana, ma le più ruvide le filo con le più gracili».
Ha 95 anni e non sferruzza per passatempo. Tina fa coperte per i poveri che dormono per strada, per i letti dei dormitori che ogni sera cambiano ospite. Tina fa coperte colorate, perché un po' è il suo modo di riempirle di amicizia e un po' è questione pratica, perché quei gomitoli hanno tutti i colori del mondo. Ma soprattutto Tina e le sue coperte raccontano la forza degli anni, perché anche la vecchiaia ha i suoi valori e la sua bellezza. Non sa nemmeno quante ne ha cucite, non ha mai tenuto il conto. Mostra il fuso di legno, ricordo di anni passati, costruito dal marito falegname, tanto, tanto tempo fa. Campagne romagnole delle colline di Pennabillí, terra da lavorare, case da costruire. La lana affidata alle donne, quando tutti erano poveri e ci si aiutava tenendosi vicini. Alla mattina se il sole è caldo sferruzza seduta sul balcone di casa, periferia di Roma.
Ha cominciato per colmare un dolore estremo, che non passa. Accade quando un genitore sopravvive al figlio e quella morte è come un buco nero che inghiotte tutto, non c'è dolore più forte e non ci sono parole per colmarlo. Tina invece c'è riuscita, anche se ora le lacrime cadono sulla lana, mentre parla di Franco, che andava dai poveri sulla strada tutte le sere insieme ai volontari di Sant'Egidio, anni da pionieri della misericordia e di minestre calde. Ora Franco è memoria in quelle coperte e il dolore è più lieve.
Nella Comunità di Sant'Egidio, a Roma, c'è un battaglione di donne che sferruzzano appena possono. Tina ne è solo la decana. Ci sono mamme, nonne, nipoti. Ci sono gomitoli di lana che passano di mano, perché qualcuno li trova in casa e non sa che farsene, perché un negozio chiude, perché una nonna muore. Sembra niente fare coperte. Eppure è un modo anche per tramandare sapienza manuale. Tina usa anche i quattro ferri quando intreccia le lane per i calzerotti. Si fanno coperte, calze, cappelli di lana per i carcerati, il lato sconosciuto della solidarietà della capitale e insieme una grande lezione di vecchiaia per i giovani. Le coperte di queste settimane finiranno sui letti di "Casa Heidi", ex scuola del Laurentino, periferia romana, dormitorio invernale che Sant'Egidio e le parrocchie della zona aprono a dicembre e chiudono ad aprile. Ne occorrono una sessantina, ma Tina è veloce con quelle dita che mai si sono fermate e oggi accarezzano i poveri nell'arte della lana. Alza gli occhi chiari, ferma i ferri e dice in un soffio: «Ho quello che basta e ho tempo per fare come il Signore vuole e come Dio ci dà».

di Alberto Bobbio

FONTE: Famiglia Cristiana
23 novembre 2017


Storia semplice ma veramente edificante, che ci insegna che non è mai troppo tardi per fare del Bene e per vivere con Amore!
Grazie cara Tina per il tuo bellissimo esempio e grazie a tutti coloro che si "spendono" con tanta buona volontà per il Bene del proprio prossimo. La nostra società si regge di questo. Grazie di cuore!

Marco