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martedì 20 dicembre 2022

Addio a Sinisa Mihajlovic, campione nello sport e nella vita, con tanta Fede e un rapporto “speciale” con Medjugorje

Venerdì 16 dicembre 2022 ci ha lasciati Sinisa Mihajlovic, indimenticabile campione di calcio e allenatore, vincitore di due Coppe dei Campioni con la Stella Rossa di Belgrado all'inizio degli anni novanta e poi militante in diverse squadre italiane come la Roma, la Sampdoria, la Lazio e l'Inter. Giocatore dal carattere forte e indomabile, ma leale e carismatico, si ricordano in particolar modo i suoi famosi calci di punizione, dalle traiettorie spesso imparabili per i portieri avversari.
Notevole anche la sua carriera come tecnico, in cui ha allenato squadre come Bologna, Sampdoria, Fiorentina Milan e Torino.

La Malattia, la sua Fede e il legame forte con Medjugorje

Nel 2019 Sinisa scopre di essere affetto da leucemia mieloide acuta, malattia terribile con la quale lotterà fino alla fine, e causa del suo decesso avvenuto pochi giorni fa all'età di 53 anni.

Per chi lo ha conosciuto ci sono solamente parole buone per Sinisa, vero e proprio campione dello sport ma anche nella vita, e persona dalla vera e genuina Fede.
Da sempre credente, lui amava definirsi metà ortodosso e metà cattolico, e viveva la propria Fede, a detta di sua figlia Viktorija, in maniera discreta e riservata.
Indimenticabile, per lui, è stato un pellegrinaggio fatto a Medjugorje nel 2008, che lo ha profondamente toccato e cambiato. Come lui stesso ha raccontato al giornale Tuttosport: «In quel posto mi è successa una cosa che non mi era mai accaduta, non avevo mai provato. Quando sono arrivato là mi sono sentito di colpo come un bambino. Mi sono seduto su una panchina e sarei potuto stare così all’infinito, stavo benissimo. È stato il momento più bello della mia vita, ero beato! In quella circostanza ho pianto tre o quattro volte ma non so dire perché. Su quella panchina è come se mi fossi ripulito, come se avessi tolto una pietra dal cuore. Da lì ho iniziato a pregare. Solo che commettevo uno sbaglio, pregavo solo quando avevo bisogno, un po’ come tutti. Sono andato un po’ in conflitto, a volte Dio mi aiutava a volte no. Poi ho capito che bisogna pregare sempre, da prima della malattia prego due volte al giorno. Ma non bisogna dire “voglio, voglio…”, ma “grazie, grazie…”».

La figlia Viktorija rivela che c'era l'intenzione di tornare a Medjugorje tutti insieme con la propria famiglia, ma purtroppo, a causa della pandemia, questo pellegrinaggio non si è potuto attuare.

Belle e profonde anche le parole di Chiara Amirante, fondatrice della Comunità Nuovi Orizzonti, e di don Davide Banzato, giovane sacerdote della stessa Comunità, che lo ricordano con molto affetto. A questo proposito Chiara Amirante, sui social dove è presente, ricorda di lui: «Al suo primo viaggio a Medjugorje era venuto a trovarci nella comunità Nuovi Orizzonti incontrando e ascoltando le storie dei ragazzi usciti da diversi inferni. C'era anche Mirijana presente (una dei sei veggenti di Medjugorje) che ha fatto la sua testimonianza personale e abbiamo vissuto un momento intimo molto intenso di condivisione, dove avevo potuto raccontare la storia della comunità, e ricordo le sue lacrime di commozione e un abbraccio unico, di uomo davvero fuori dal comune, a pochi anni da una guerra tremenda nell'ex Jugoslavia. Sinisa Mihajlovic non aveva nascosto le sue lacrime da guerriero con un cuore immenso, dicendo parole, per chi ha vissuto quel momento, straordinarie quanto la sua anima, sigillate da un abbraccio autentico e spontaneo che a noi potrebbe sembrare semplice, ma che invece è stato potente per i ragazzi presenti».

Importante, per la sua vita di uomo e di Cristiano, è stato anche un incontro avvenuto con Papa Francesco durato ben tre ore. Sinisa ricorda il Papa come un «uomo saggio, gentilissimo e anche simpatico con la battuta pronta».

Uomo profondamente buono e sempre disponibile, la scomparsa di Sinisa lascia un grande vuoto dietro di sé, soprattutto nella propria famiglia, ma da persona di Fede non dubitiamo affatto che il buon Dio lo accoglierà tra le Sue Braccia e gli riserverà un posto meraviglioso nel Suo Beatissimo Regno.

Ciao caro Sinisa, fai tanto del Bene da Lassù e intercedi per tutti quanti noi, pellegrini su questa terra. Sii eternamente Felice!


Marco

lunedì 30 maggio 2022

Bambini autistici imparano ad andare in bicicletta nella scuola di ciclismo “Franco Ballerini” di Bari, ed acquistano maggiore fiducia in sé stessi

La scuola di ciclismo “Franco Ballerini” di Bari, intitolata al campione delle 2 ruote degli anni 80 e 90, vincitore di 2 Parigi-Roubaix, è da oltre 20 anni un punto di riferimento per tanti bambini della città pugliese che vogliono imparare ad andare in bicicletta, tenendosi lontani dai pericoli urbani e con il solo scopo di divertirsi.

L'area scelta per questa scuola è quella che circonda il Municipio della città e quella di San Paolo, una zona resa accessibile a tutti per permettere di praticare questo bellissimo sport senza pericoli, così da diventare ideale anche per ragazzi che hanno delle difficoltà psicofisiche, come i ragazzi autistici. Inizialmente questi ragazzi possono avere delle difficoltà, spiega l'istruttrice Tamara Loiacono, ma poi, col tempo, prendendo maggiore confidenza col mezzo, acquistano sicurezza e fiducia in sé stessi.

I genitori di questi ragazzi sono entusiasti che i loro figli si dedichino a questo sport con tanta passione, dopo aver superato quella fase iniziale di comprensibile timore, dovuta al fatto che i ragazzi autistici, inizialmente, sono piuttosto “rigidi” alle novità, e quindi abbisognano di un po' di tempo per imparare ad andare in bicicletta. Ma quando poi viene “rotto il ghiaccio” e i ragazzi imparano ad andare in bici da soli, in piena autonomia, allora il divertimento diventa assicurato, soprattutto quando possono uscire in gruppo.


Marco

giovedì 15 luglio 2021

Roberto Mancini: «Credo nelle apparizioni di Medjugorje, un posto che mi ha fatto crescere»

«Sono sempre stato religioso: sono cresciuto in parrocchia, anche calcisticamente, credo in Gesù e nella Madonna. Sono nato il 27 novembre, il giorno della Vergine della Medaglia Miracolosa. La fede? Ti aiuta nei momenti di difficoltà, anche a maturare», aveva detto appena un anno fa Roberto Mancini alla Gazzetta dello Sport. Che lo schivo ct degli azzurri fosse credente era risaputo. E si conosceva anche il fatto che Medjugorje esercita un certo richiamo su di lui. Ma a tanti era sfuggito il legame particolare che l’allenatore coltiva de tempo con la Vergine Maria e con i sei veggenti ai quali sarebbe apparsa nella piccola e aspra cittadina della Bosnia Erzegovina per la prima volta il 24 giugno 1981, esattamente 40 anni fa. A dire il vero, la storia l’aveva già raccontata con dovizia di particolari Paolo Brosio nel libro La Madonna scende in campo in cui racconta lo slancio di tanti sportivi per Medjugorje e i suoi fenomeni celesti. Ma a riportare alla grande attenzione questo lato poco conosciuto del “Mancio” è stata l’intervista introspettiva e a tratti emozionanti rilasciata dall’allenatore a Pierluigi Diaco, nella prima puntata del nuovo programma, Ti sento, trasmessa lo scorso 19 gennaio su Rai, in seconda serata.

Il vissuto di Roberto è emerso in modo coinvolgente, legato a suoni, immagini, suggestioni varie, riabbracciando nel percorso gli esordi calcistici, la famiglia, gli affetti, la fede. A un certo punto, Diaco gli ha chiesto: «Tu credi nelle apparizioni della Madonna a Medjugorje?». E lui, con gli occhi luccicanti d’emozione, ma senza incertezza alcuna nella voce: «Io credo. Sì io ci credo. Sono andato diverse volte, ho parlato con Vicka (Ivankovic, ndr), con gli altri veggenti...». «È vero che lei ti è apparsa in sogno, prima che tu la incontrassi? E questo sogno come la rappresentava?», gli ha domandato ancora il conduttore. E Mancini: «Mi aveva parlato di Medjugorje tanti anni fa il nostro parroco di Genova, il padre spirituale della Sampdoria. Lui andava nel periodo in cui era impossibile quasi andare, quindi stiamo parlando degli anni '80, '82-'83, era quando c'erano problemi. Io non l'avevo mai vista, cioè non l'avevo mai conosciuta, eppure prima di andare mi è apparsa in sogno, non ho proprio la minima idea del perché o del significato di tutto questo. Non lo so, è stata una cosa veramente stranissima. Poi sono andato e gliel'ho anche detto. Ci siamo parlati diverse volte, capisco che ci possano essere persone che non credono in questo, e penso che il loro pensiero vada rispettato. La mia è una posizione diversa. Sono per la libertà di pensiero assoluta. La fede mi ha aiutato nei momenti un po' più difficili della mia vita. Mi aiuta anche adesso... Quando vado a Messa passo un'ora migliore probabilmente delle altre volte. Ci sono stati momenti di difficoltà e mi ha aiutato».

L’esternazione ha fatto il giro del mondo come quando Mancini, l'ex tecnico di Inter e Manchester City, il 25 marzo 2012, casualmente giorno in cui la Chiesa ricorda l’Annunciazione andò per la prima volta a Medjugorje. Un mese prima Brosio gli aveva spedito un pacco con dei rosari benedetti dalla Regina della Pace venerata a Medjugorje. Nell’involucro c’erano anche delle pietre raccolte nel punto in cui ci sarebbero state altre apparizioni della Vergine al veggente Ivan Dragicevic. Il giorno dopo Mancini telefonò a Brosio e gli confiò del sogno, al quale ha accennato di recente a Diaco: «Ero in una stanza con un po' di gente e c'era con me la veggente Vicka che, a un certo punto, mi ha sorriso fissandomi negli occhi, tanto che, a un tratto, mi sono girato per vedere se stesse guardando un altro. Ma, di colpo, Vicka si è mossa e si è diretta verso di me, tanto che, a quel punto, non ho più avuto alcun dubbio. Mi è venuta incontro, si è avvicinata, mi ha fissato ancora guardandomi dritto negli occhi. Poi mi ha dato un bacio sulla fronte. Ho avvertito proprio la sensazione del contatto fisico di una persona che, però, non avevo mai visto né conosciuto in vita»

E così 9 anni fa ecco Mancini volare a Mostar e da lì raggiungere Medjugorje per la sua prima visita. Con l'allora allenatore del City viaggiano la moglie Federica e la figlia Camilla. Mancini incontra la veggente Vicka: «Come siamo entrati in casa Vicka ci ha accolti abbracciandoci e salutandoci con un affetto particolare. Ha parlato con Camilla e Federica e poi ci siamo messi in un angolo e le ho spiegato nei dettagli la sensazione che ho avuto quando ho ricevuto il suo bacio in questo sogno che sembrava reale. Vicka mi guardava con attenzione e sorrideva come se sapesse già tutto e mi ha detto: "È la Madonna che fa tutto, noi apriamo il nostro cuore e Lei ci dice cosa fare”. Poi ha cominciato a pregare su di noi, incessantemente e con grande intensità».
La cosa soprendente è che in quel frangente i Citizen di Manchester la sua squadra era dietro di otto punti dalla storica rivale lo United allenato da Ferguson e mancavano sei giornate. Dopo il viaggio a Medjugorje è iniziata un’imprevedibile rimonta, culminata con il sorpasso all’ultima giornata e la vittoria della Premier League, il 13 maggio 2012, festa della Madonna di Fatima. Per Brosio è certo segno dell’aiuto della Vergine. Mancini ha ripetuto più volte: «La fede mi ha aiutato molto nella vita, non nel lavoro, perché credo che il Signore e la Madonna abbiano cose ben più importanti da risolvere. Però, sono convinto che chi prega con fede riceve un aiuto». José Duque, dirigente portoghese del City, nato vicino a Fatima, comunque notò la coincidenza della data della sfida decisiva e gli fece intendere che «la Madonna ci avrebbe aiutato. Sono convinto che chi prega è aiutato da Dio».

Nell’intervista con Diaco, Mancini ha ricordato la sua maestra delle elementari «Si chiamava Anna Maria Bevilacqua. Io ero un po' vivace quando ero piccolo e quindi a scuola qualche volta creavo qualche problema, durante le lezioni... Ero poco attento o magari non studiavo molto, la maestra parlò con mia mamma e mio papà: “La mattina prima di venire in classe, anziché il latte, dategli la camomilla...” E quindi per un po' mi diedero la camomilla la mattina. Questa maestra mi voleva veramente bene, era molto affezionata». Alla domanda «Che cos'è che ti commuove?», Mancini ha risposto: «Mi commuovono i bambini o pensare che un bambino possa perdere i genitori da piccolo. Questa è una cosa che mi commuove molto perché penso che non sia giusto. Penso che non sia giusto che un bambino non possa crescere con i propri genitori». Roberto aveva spiegato già a Brosio «Dio è sempre stato nella mia vita. Perché sono nato e cresciuto nella mia parrocchia. Andavo a Messa tutte le domeniche e facevo il chierichetto, fin quando a 14 anni non sono andato a giocare al Bologna. E quindi mi ero poi allontanato e oggi ho anche capito il perché. Questo luogo ha qualcosa di particolare, parla al tuo animo. Se tutti ci comportassimo come le persone che vivono e operano a Medjugorje tutto andrebbe in modo diverso. Molti dicono che non hanno tempo per pregare, lo facevo anche io, ma bisogna fare come ci dice la Madonna: iniziare poco alla volta ed essere costanti, perché poi ci si rende conto che non se ne può più fare a meno. Dalla curiosità che mi portò per la prima volta a Medjugorje sono passato a una frequentazione più consapevole. Ho conosciuto e parlato con persone che mi hanno insegnato qualcosa. Anche il confronto con il dolore ti fa crescere. È un po' che non vado, ma ci tornerò presto».

La parrocchia d’infanzia cui accenna sempre il Mancio è quella di San Sebastiano a Jesi. Nel 2014 quando si è spento quasi novantenne don Roberto Vigo, il sacerdote che l’ha retta per oltre mezzo secolo, Mancini si è precipitato ai funerali, ricordando come, proprio nel campetto adiacente alla chiesa anche lui, che abitava proprio di fronte, mosse i primi passi e prese a calci un pallone come tutti i giovani del quartiere. Con lo stesso trasporto e spirito grato ha partecipato di recente a una messa in suffragio per Boskov, il mitico allenatore dei blucerchiati, officiata da don Mario Galli, quell’ex cappellano della Samp, che, per primo, gli parlò della Regina della Pace e delle mariofanie di Medjugorje.


di Tancredi Peschi

7 luglio 2021

FONTE: Famiglia Cristiana

mercoledì 7 aprile 2021

Alain, l'educatore nel pallone che salva i bimbi di Yaoundé

Arrivato in Italia col sogno del calcio e abbandonato dal procuratore senza scrupoli si ritrovò abbandonato e senza soldi. L'incontro con un prete e una comunità lo ha fatto rinascere

Alain sognava quello che sognano tanti bambini africani vedendo giocare i campioni di pelle nera applauditi dai tifosi negli stadi italiani: diventare uno di loro. Le premesse sembravano esserci: giocando nella scuola di calcio Des Brasseries du Camerun nel capoluogo della provincia dell’Ovest, era stato notato da un procuratore che gli aveva fatto balenare un futuro stellare.

Per questo quando aveva solo 15 anni era venuto in Italia con un visto turistico. Qualche provino, poi un giorno un colloquio del procuratore con il manager di una squadra. La prima domanda non è "come si chiama", non è "da dove viene", ma "quanto costa il ragazzo?".

Comincia a giocare nel Brera Calcio, una squadra milanese che milita nella categoria Promozione. Ma mentre il sogno sembra prendere forma, un brutto infortunio lo costringe in ospedale per otto mesi. Lui non demorde, troppo forte è la passione per il calcio, troppo forte il desiderio di sfondare e diventare un campione. Torna a giocare, ma quando il procuratore che aveva alimentato i suoi sogni lo abbandona, Alain si ritrova solo, senza neppure il biglietto aereo per tornare in Camerun da sua madre e dai suoi dodici fratelli.

Un giorno mentre vaga sconsolato per Milano entra nell’oratorio di Lambrate, un quartiere alla periferia della città, per tirare due calci al pallone con altri ragazzi. Conosce il prete che segue i giovani, don Claudio Burgio, gli confida i suoi sogni e la sua amarezza, il sacerdote cerca ospitalità per lui in alcune famiglie della parrocchia che a turno lo accolgono nelle loro case.

«Sono state la mia ancora di salvezza, la mia seconda famiglia – racconta Alain – . Grazie a loro ho ricominciato gli studi e ho trovato una strada per me».

È dall’esperienza di ospitalità condivisa tra quel gruppo di famiglie che nel 2000 è nata Kayròs, una comunità di accoglienza per minori in difficoltà diretta da don Burgio. Lui è stato il primo ospite, oggi sono una cinquantina i giovani che vivono insieme a Vimodrone, alle porte di Milano.

Ora Alain Ngaleu ha 37 anni, è sposato e ha tre figli, è diventato cittadino italiano, lavora come educatore nella comunità che lo aveva accolto, ma la passione per il calcio non ha smesso di scorrere nelle vene.
Da quella passione alcuni anni fa è nata la decisione di prendere il patentino da allenatore e di metterlo a frutto nel suo Paese. Con l’aiuto di alcuni amici ha raccolto magliette, palloni e scarpette, ha caricato tutto in un container, è tornato in Camerun e nella capitale Yaoundé ha aperto Kayròs Camerun, un luogo dove da dieci anni centinaia di giovani imparano a giocare a pallone, vengono aiutati negli studi e accompagnati a trovare lavoro.

Qualcuno ha pure fatto carriera: uno ha partecipato ai campionati mondiali in Brasile under 17 nel 2019, uno gioca nel campionato professionistico camerunense ed è stato selezionato per la nazionale.

Alain non nasconde la soddisfazione per questi risultati, ma ha fatto tesoro della sua storia. «L’esperienza fatta con don Burgio e gli amici della comunità Kayròs è stata decisiva – racconta –. Ho imparato che le passioni vanno assecondate ma senza che ti facciano andare fuori di testa diventando un assoluto. Non bisogna mai smettere di sognare evitando però che il sogno porti fuori dalla realtà, come è accaduto a tanti ragazzi inseguendo il mito di diventare come Eto’o, il mio connazionale più famoso, e di fare soldi a palate. Ci sono ragazzini che si mettono in mano a gente senza scrupoli che sfrutta le loro attese illudendoli di ottenere un facile successo e poi li molla, lasciandoli magari a chiedere l’elemosina sulle strade per poter campare. I giovani hanno bisogno di qualcuno che scommetta su di loro e sappia proporre una strada positiva da seguire, seguendola lui per primo. Come è capitato a me incontrando don Claudio, che mi ha preso per mano e mi ha aiutato a capire che la vita è più grande di un pallone».


di Giorgio Paolucci

29 dicembre 2020

FONTE: Avvenire

domenica 15 aprile 2018

Dal calciosociale all'impegno civico il passo è breve


A Corviale i ragazzi possono giocare e giocando diventare Giovani Custodi del territorio. Perché lo sport aiuta a maturare una coscienza civile


«Le scuole calcio non possono più trasmettere solo la tecnica, ma hanno il dovere di coltivare nei ragazzi qualità umane che formino una coscienza civile e sociale». Una scommessa vinta da Massimo Vallati insieme agli operatori e volontari dell’associazione CalcioSociale, che dal 2014 offre ai ragazzi del quartiere Corviale di Roma una struttura dove potersi formare alla legalità e all’impegno civico. Una casa dove loro stessi sono i custodi.

Partecipare ad una scuola di calcio sociale non vuol dire solo intraprendere un percorso motorio e agonistico, ma anche incontrarsi e confrontarsi su temi come la lotta alla criminalità, la conoscenza delle mafie, il rispetto ambientale, la prevenzione da dipendenze: un percorso di educazione civica che in quartieri come quello del Corviale rappresenta un punto di rottura con i modelli proposti dalla malavita.

«Giovani Custodi è un momento di formazione che proponiamo ai bambini e ragazzi che frequentano la nostra scuola calcio», racconta Massimo, «un’ora e mezza in cui chiediamo loro di parlare, scrivere e dire la propria su certi temi. Ci rivolgiamo a ragazzi dai 12 ai 15 anni e a bambini dai 9 agli 11 e presto attiveremo un percorso anche per i bambini di 7-8 anni».

Il CalcioSociale è educazione civica

Incontri che nascono dalle stesse esigenze dei giovani del quartiere, dalla loro esperienza di vita e dagli ambienti che frequentano; in testa quelli digitali. «Nel primo incontro di Giovani Custodi abbiamo chiesto loro di mostrare dei post che avevano scritto su Facebook e di commentarli insieme ai loro amici. È stato interessante notare come alcuni ragazzi, davanti gli altri, si dissociavano da ciò che avevano pubblicato: con questa dinamica ci siamo accorti come molti di loro non si rendono conto che quando condividono o postano un contenuto, c’è sempre una conseguenza».

CalcioSociale diventa anche best practice di inclusione sociale. Dopo l’esperienza di questi anni vissuta al Corviale, l’associazione sta facendo rete insieme ad altre realtà sportive che operano in altri quartieri difficili d’Italia, proponendo il proprio modello di azione e i risultati raggiunti insieme ai ragazzi del Corviale. Inoltre, nei prossimi due anni, il percorso offerto da CalcioSociale sarà oggetto di studio di un progetto scientifico europeo che validerà la metodologia di intervento con bambini e adolescenti.

Dallo scorso 30 maggio continuano anche le dirette notturne di RadioImpegno, che dal Corviale racconta le storie, le difficoltà e le vittorie di tante associazioni e realtà che operano nel sociale a Roma. «La città che non vuole arrendersi esiste e lo dimostra il palinsesto della radio, che dallo scorso maggio è stato sempre ricco di contributi. Siamo cresciuti e continuiamo a farlo, perché vogliamo raccontare la capitale delle buone pratiche, sempre alla ricerca di amici e persone “radioimpegnate”. Abbiamo dimostrato che mettendoci insieme siamo più forti di chi ci voleva fermare».

di Ermanno Giuca

24 febbraio 2017

FONTE: Retisolidali



Il calcio è lo sport nazionale per antonomasia qui in Italia, e personalmente trovo che sia un idea stupenda unire questo sport così amato dalla gente (e ovviamente da giovani e bambini in particolar modo) a temi di carattere sociale e civico. In questo modo i nostri giovani possono praticare uno sport che piace loro così tanto e, contemporaneamente, formarsi una coscienza sociale, retta e onesta che li accompagnerà per tutta la durata della loro vita.
E' un idea stupenda che riporto con grande piacere, attraverso questo articolo, sulle pagine di questo blog, con l'auspicio che questa bella idea possa essere ripresa anche da altri sport.

Marco

giovedì 25 agosto 2016

Un pugile dal cuore grande


L’ex campione europeo dei pesi massimi Vincenzo Cantatore cura un progetto di boxe che migliora la vita di tanti ragazzi in difficoltà: “Il Papa mi ha detto vai avanti. La gratuità e il prossimo riempiono la vita”

Nel 2000, dopo aver raggiunto una serie di obiettivi nella vita e nella carriera sportiva, ho deciso di dedicare una parte del mio tempo a chi era meno fortunato di me e viveva tra mille difficoltà”. Inizia da qui la storia di Vincenzo Cantatore, uno dei pugili italiani più forti e rappresentativi degli ultimi vent’anni. Picchiatore sul ring, peso massimo alto un metro e novanta, ma dal cuore immenso nella vita di tutti i giorni.

Dal carcere alla casa di cura

Nel 2002 Vincenzo inizia a lavorare a un progetto per rieducare mentalmente e spiritualmente i detenuti. Una scelta che qualcuno critica: “Si porta uno sport violento in un luogo già violento”, dicono. “La boxe, invece, poteva essere la cura giusta per gli animi dei detenuti, che sarebbero stati educati al rispetto di regole e valori a loro estranei”, racconta oggi l’ex campione.
Se la sfida del carcere non decolla come avrebbe voluto, per Vincenzo si apre presto un’altra porta: quella della clinica Villa Letizia nel quartiere di Monteverde a Roma. Qui sono in cura ragazzi affetti da patologie neurologiche o psichiche. “Lì conosco il dottore Santo Rullo, psichiatra e direttore della casa di cura, con il quale concordiamo una serie di progetti di riabilitazione per i giovani ospiti. Tra questi ne curo uno in particolare, il No contact boxe for health, grazie al quale abbiamo ottenuto risultati molto importanti per la salute di questi ragazzi. Si tratta di un allenamento che richiama la boxe, senza il contatto fisico, prevede uno sforzo considerevole e il recupero attraverso un particolare integratore, non un farmaco, che associato all’allenamento ha una funzione di antidepressivo. I test sono molto positivi, siamo tutti soddisfatti del supporto offerto a questi ragazzi a titolo totalmente gratuito e questo tengo a sottolinearlo”.

Pulizia mentale e fisica

Dai dialoghi con i suoi colleghi in clinica, il campione si convince che il problema che hanno in comune è il non amarsi, non volersi bene. E siccome non si può amare gli altri se non si ama prima sé stessi, studia un programma riabilitativo che mira proprio a colmare questo vuoto che portano dentro. Dall’aspetto fisico alla pulizia mentale, si registrano un insieme di prestazioni che porta un miglioramento esponenziale in tutto l’organismo. “Quante volte ho sentito dire dopo gli allenamenti: "Vincenzo ora sì che mi sento bene", "mi hai cambiato la vita", "non pensavo di poter arrivare a questi risultati"”. Il lavoro, dunque, inizia a dare buoni frutti.

Incontro con il Pontefice

Mentre Vincenzo, visti i risultati, si impegna a esportare il progetto anche fuori da Villa Letizia – “perché aiutare il prossimo ti trasforma la vita” – matura un incontro a dir poco speciale. “Un mio carissimo amico, a cui avevo proposto di allenarsi con No contact boxe for health, pur non avendo alcuna patologia, conosce bene Papa Francesco. Gli ho chiesto di aiutarmi a incontrarlo per raccontargli di questo progetto che sta trasformando la vita a tanti ragazzi”. Vincenzo riesce a vedere di persona il Papa in due occasioni: prima dell’estate 2015 e alla vigilia del recente viaggio a Cuba e negli Stati Uniti.

“Mi ha detto: vai avanti”

Non riesco a trovare un aggettivo per descrivere cosa ho provato ogni volta che l’ho incontrato. Una sensazione non bellissima, di più. Avevo di fronte la persona che sta rivoluzionando il mondo, non solo la Chiesa. Una persona eccezionale che sta facendo riavvicinare alla fede tanta gente in tutto il mondo”, racconta. “E’ stato entusiasta nel conoscere il progetto e lui, che da sempre ha dimostrato vicinanza alle persone in difficoltà, soprattutto disabili, mi ha spalancato le porte. Ha detto di sostenerlo e di tenerlo al corrente”.
La spinta del Pontefice sprona Vincenzo a moltiplicare gli sforzi per aiutare questi ragazzi bisognosi. “Sono una persona molto credente e praticante. Frequento un gruppo di preghiera a Piazza del Popolo a Roma. E almeno una volta al giorno ho un colloquio personale col Signore. Ho lavorato spesso con persone che avevano bisogno del mio aiuto. Tante volte non ho neppure pubblicizzato alcune iniziative. Quella della boxe con persone con disagio psichico e malati di Parkinson, la tengo particolarmente a cuore: esprime la grandezza della gratuità. Dare agli altri senza chiedere nulla in cambio: è la cosa più bella che si possa fare, ti gratifica nell’anima”.

Piccoli, grandi passi

La chiamata a questo voto di gratuità è stata casuale. “Sono partito da zero. Ho costruito una famiglia, ho avuto dei figli, solidità economica, gloria sportiva. Un giorno mi sono svegliato e ho riflettuto seriamente: volevo capire se tutto questo rappresentasse la totale pienezza. E mi sono reso conto che c’era un vuoto. Nella mia vita, soprattutto da ragazzino, ho incontrato tanti amici che si sono bruciati, spesso senza il supporto della famiglia. Io, invece, ho avuto il sostegno dei genitori e la costanza di praticare e dare tutto per una disciplina sportiva. Ecco perché il mio auspicio è che sempre più persone nelle mie stesse condizioni possano fermarsi un attimo e riflettere: guardare al proprio passato e al proprio presente, per allungare una mano al prossimo”.


Tornare ad avere fiducia in sé stessi

Villa Letizia a Roma, la casa di cura dove Vincenzo Cantatore ha avviato il progetto di boxe riabilitativa, accoglie ragazzi con problemi neurologici, con disagio psichico e malati di Parkinson. L’obiettivo dei progetti di riabilitazione è “il miglioramento delle capacità relazionali, il recupero delle capacità individuali e dei livelli funzionali di autonomia”. Un cambiamento dello stile di vita che prevede cura della persona e igiene personale, gestione del comportamento alimentare e di comportamenti a rischio, gestione corretta del denaro. Il tutto con il sostegno di operatori sanitari specializzati e di amici e familiari che accompagnano il percorso terapeutico.

Quel pellegrinaggio indimenticabile

Tanti gli episodi legati alla solidarietà che l’ex pugile Vincenzo Cantatore ha tenuto per sé. “Uno di quelli che mi ha più segnato è stato l’aiuto offerto a un giovane di 22 anni che da un giorno all’altro si è ritrovato con una grave malattia del sistema neurologico e ora ha bisogno delle stampelle per muoversi in casa. Durante un pellegrinaggio ci siamo conosciuti e la sua storia mi ha subito colpito. Ricordo ancora quando l’ho portato in spalla per arrivare al luogo di preghiera. Una sensazione incredibile”.


di Gelsomino del Guercio

FONTE: A Sua Immagine N. 147
31 ottobre 2015

sabato 21 febbraio 2015

Suor Lisa, star del football: alleno per trasmettere la Fede


Se pensavate di esservi abituati a tutto, vedendo suor Cristina cantare Like a Virgin di Madonna, è perché non avevate ancora conosciuto suor Lisa Maurer.
Per incontrarla dovete andare a Duluth, la città del Minnesota dov’è nato Bob Dylan. Prendete la macchina e andate al Centro di salute che sorge poco distante dal Monastero di Santa Scolastica, dove suor Lisa vive. Lei si occupa dei membri anziani della comunità, insegna catechismo e svolge mille altre attività di servizio nel monastero e in parrocchia.
Fino a pochi mesi fa, la vita di suor Lisa – come si usa dire – non faceva notizia. Poi le hanno chiesto un impegno particolare: allenare la squadra maschile di football americano del St. Scholastica Athletics. «Il football mi è sempre piaciuto ma non sono mai stata una sfegatata, anche se mio padre era un allenatore i miei fratelli dei tifosi» ha spiegato al Catholic News Service. Eppure sette anni fa le suore del Monastero di Santa Scolastica hanno avviato un programma educativo che comprendeva anche il football. «I ragazzi si allenavano nel cortile del monastero e, ogni tanto, mi capitava di dare un’occhiata». Fino al marzo 2014. Quando Kurt Ramler, l’allenatore della squadra, si avvicinò a suor Lisa e le propose di diventare vice-allenatore.
«Ero titubante perché non volevo assumermi una responsabilità che avrebbe potuto creare problemi agli altri miei impegni». Il coach Kurt la convinse così: «Lei ha già allenato le ragazze-studentesse che giocano a pallavolo, pallacanestro e softball. Ora avrà la possibilità di far crescere questi ragazzi con un altro sport».
In poco più di otto mesi suor Lisa è diventata un mito. La squadra che allena infatti continua a vincere. Non pensiate però che la nostra benedettina si sia montata la testa. Tutt’altro. Lei ha i piedi ben piantati per terra e nel Vangelo. «Giocare a calcio per questi ragazzi è un’opportunità innanzitutto educativa». E la fama? Come vive la fama? «Spero che chi leggerà la mia storia sappia andare oltre la curiosità e si avvicini a Dio. Lui è presente nelle nostre vite. Sempre. Anche quando giochiamo. A me non interessa vincere. Il mio sogno più grande è che grazie a questa storia un giovane pensi alla vocazione religiosa o a che modo può servire la Chiesa col suo talento».
Insomma, vista sul campo suor Lisa potrebbe sembrare solo un «personaggio» uscito da qualche film americano, ma se la lasciate parlare scoprirete che è una suora tutto tondo. Vera. Verissima.

9 dicembre 2014

FONTE: http://www.avvenire.it/Sport/Pagine/suor-Lisa-Maurer-allenatrice-star-del-footbal.aspx


Bel connubio tra Fede e sport. E non stupisca questa cosa..... Dio è dappertutto, si può trovare dovunque e si può portare a chiunque. Anche a dei ragazzoni impegnati in uno sport "rude" come il football americano, i quali certamente beneficeranno molto dell'apporto morale e spirituale di suor Lisa, oltre che nello sport, sopratutto nella vita di tutti i giorni e nell'Amore verso il Signore.

Marco

lunedì 19 gennaio 2015

«Ho trovato Dio in un campo da rugby»


E’ la storia, questa che raccontiamo, di un frate minimo, cioè di un religioso appartenente all’ordine fondato da San Francesco di Paola. Ed è una storia di fede, di amore, di preghiera e di sport. Già, anche di sport. Perché fra Giuseppe Laganà – il nome del protagonista-, 26 anni, siciliano, oggi presso il convento dei minimi di Catanzaro, ha come “segno particolare” quello di essere giocatore di rugby.

A soli 20 anni già in convento! Com’è nata la tua vocazione all’interno dell’Ordine dei minimi?

«Sinceramente non avrei mai pensato di finire né in un ordine religioso né in seminario, volevo fare altro. Però come si dice in questi casi “l’uomo propone e Dio dispone”. Iniziai a frequentare la parrocchia principale del mio bel paesino, nella mia bella terra di Sicilia anche se in modo inconsueto o - meglio ancora - anomalo perché cercavo semplicemente un posto al fresco, faceva troppo caldo fuori e lì si avvicinò un giovane di nome Pippo che iniziò a chiedermi chi fossi e che cosa facessi. Ad un certo punto mi chiese se volessi entrare a far parte del gruppo ministranti ed io - senza sapere cosa fosse - accettai. Forse già in quel momento dissi il mio sì che si sarebbe confermato a distanza di anni nella famiglia religiosa dei minimi. Il mio primo contatto con i minimi avvenne tra i banchi di scuola, tramite il mio professore di religione, oggi mio confratello, padre Giuseppe Ceglia, che spesso e volentieri mi assillava con la ferma volontà di mandarmi a studiare a Paola, al collegio, proposta che rifiutai inizialmente. Però in cuor mio la curiosità cresceva sempre più, per questo Santo della Conversione, curiosità che dovevo in qualche modo assecondare, saziare. Col passare del tempo conobbi sempre meglio la figura del santo Francesco di Paola, conobbi meglio i frati, certo in cuor mio ero combattuto (cosa faccio mi chiedevo… ne vale la pena?). Per un periodo questa curiosità scomparve, continuai con la mia vita normalmente, scuola, amici, allenamento, mi fidanzai come ogni ragazzo della mia età. Fin quando il Signore mi bussò alla porta».

Perché questa passione per il rugby? Riesci a conciliare la pratica sportiva con l’impegno pastorale in fraternità ed in parrocchia?

«Questa passione nacque grazie a mio zio Massimo, fratello di mamma. Fu lui a portarmi per la prima volta al campo da Rugby, anche lui ha praticato questo sport. Inizialmente non conoscendo le regole ero abbastanza impacciato poi pian piano contando su un grande allenatore e altri ancora, ho potuto amare sempre più questo sport. Impegnandomi al “mille per mille” senza fermarmi mai, anche quando sembrava tutto andare storto. Oggi da religioso minimo provo a continuare quest’attività sportiva senza però mancare ai miei impegni principali: studio, preghiera, vita comunitaria. Nel mio piccolo provo ad aiutare la mia comunità occupandomi dei giovani».

Tu fai parte del Catanzaro Rugby, una squadra che milita in Serie C. Come vivi in campo il tuo essere religioso? In che modo gli altri giocatori si rapportano con te quando vengono a sapere che sei un frate?

«Con i miei compagni di squadra ho instaurato un ottimo rapporto. All’inizio nascosi la mia identità religiosa per evitare condizionamenti o diffidenze, ne parlai solo con il Presidente e l’allenatore che ringrazio per la sua vicinanza e disponibilità, per giustificare la mia assenza ai match in trasferta. Il capitano fu informato a sua volta e i miei compagni non credevano che io fossi frate. Poi un giorno me lo chiesero personalmente e fu l’inizio di una lunga storia di amicizia e rispetto. I miei compagni si rapportano con me in maniera fraterna e calorosa. Evitano anche durante i match e non solo, di cadere nelle tentazioni linguistiche che potrebbero offendere la mia appartenenza all’Ordine ma soprattutto per la loro stessa dignità di persona e di cristiani. Infatti molti di loro hanno avuto, in molte parti del loro carattere, notevoli cambiamenti, ma sicuramente non per merito mio».

Quale dialogo, secondo te, tra sport e fede? Può lo sport essere strumento di formazione e di educazione alla fede per le giovani generazioni?

«Assolutamente sì. Lo sport è anche un’esperienza educativa oltre che uno strumento aggregativo. Mi viene in mente Don Bosco quando, intuendo la forza comunicativa del gioco, percepì che il gioco stesso oltre ad essere un elemento equilibrante e quindi necessario, sviluppasse aspetti importanti della formazione totale del ragazzo. Lo sport è capace di rappresentare un segno concreto dell’accoglienza e della vitalità giovanile. Bellissima, a proposito, l’invito di Papa Francesco ai giovani di non dimenticare di essere: il campo della fede, gli atleti di Cristo: “Calciate in avanti, costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di solidarietà, di amore, di pace, di fraternità. Giocate in attacco, sempre!».

Il 23 novembre Papa Francesco ha canonizzato in Piazza San Pietro il Beato Nicola Saggio da Longobardi, il primo santo minimo dopo il fondatore San Francesco di Paola. E’ per tutti i minimi una grande occasione gioia. Come vi siete preparati all’evento?

«Ovviamente ci siamo preparati con spirito di preghiera e devozione verso questo nostro confratello Santo. Un esempio per tutti noi di carità e vicinanza ai più poveri e più bisognosi. Abbiamo costituito, per l’occasione, un gruppo di coordinamento finalizzato a formare i calabresi sulle virtù di questo figlio di Calabria, chiedendo la collaborazione di molti, tra cui frati, secolari e laici, creando vari settori. Tutto il 2015 sarà concentrato sulla figura di San Nicola, tra catechesi sia nelle nostre comunità che in altre realtà e per tutti che lo richiederanno, oserei definirlo un anno di grazia per l’Ordine e per le chiese di Calabria, per la terra di Calabria, terra, si dice, che è martoriata dalla delinquenza a dalla malavita organizzata, offrendo quasi solo questo come biglietto da visita. Quando abbiamo la possibilità di far emergere il lato migliore di questa terra eccoci tutti pronti e più uniti che mai».

di Luigi Mariano Guzzo

8 dicembre 2014

FONTE: http://vaticaninsider.lastampa.it/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/sport-sport-sport-fede-faith-fe-37951/



Bella testimonianza, bell'intreeccio tra Fede e sport. E non c'è da stupirsi al riguardo..... Dio è dappertutto e può essere portato dovunque, in qualsiasi luogo e situazione, campi da rugby compresi.
Buona fortuna e tanta Grazia per tutto, caro fra Giuseppe Laganà!

Marco