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domenica 13 giugno 2021

Raccolta fondi dei detenuti del carcere di Santa Bona per il piccolo Eitan

La mobilitazione per il bimbo, unico superstite dell'incidente avvenuto sulla funivia Stresa-Mottarone: una lettera è stata inviata al direttore, Alberto Quagliotto, che ha appoggiato l'iniziativa

Una raccolta fondi per sostenere il piccolo Eitan, l'unico superstite del tragico incidente avvenuto sulla funivia Stresa-Mottarone. E' questa l'iniziativa lanciata e proposta dai detenuti del carcere di Santa Bona, commossi per la terribile vicenda del piccolo, rimasto orfano e si trova attualmente ricoverato in ospedale a Torino. In una lettera, inviata al direttore del carcere, Flavio Quagliotto, gli ospiti della casa circondariale trevigiana hanno messo nero su bianco le motivazioni della missiva che ha subito avuto il placet della direzione. Quagliotto si è già messo in contatto con la Fondazione Scuola Ebraica di Milano che ha lanciato una raccolta fondi per Eitan. L'iniziativa dei carcerati ha avuto subito il plauso della comunità ebraica; l'istituto penitenziario ha già ricevuto gli estremi per la donazione e ora ogni detenuto sceglierà quanto donare attraverso i propri conti correnti.

La lettera

Noi tutti vorremmo unirci alla grande catena umanitaria che si è creata attorno ad Eitan, dalle comunità italiane e israeliane, ai compagni di scuola, agli amici, all'ospedale che lo ha in cura e non per ultimi al personale del pronto intervento che lo ha salvato. Abbiamo attivato una piccola operazione umanitaria raccogliendo dei fondi da destinare ad Eitan: non sono grandi cifre, ognuno ha dato in base alle proprie disponibilità, ma tutti e indistintamente, con il cuore, e grande immenso sentimento d'amore.


29 maggio 2021

FONTE: Treviso Today

sabato 24 aprile 2021

Chiedere e dare perdono: la forza di Claudia e Irene

Una è la vedova dell’appuntato Antonio Santarelli, ridotto in fin di vita ad un posto di blocco e morto dopo un anno di coma nel 2012. L’altra è la mamma di Matteo, il giovane aggressore, che per quella morte sta scontando 20 anni in una comunità di don Mazzi. Insieme hanno dato vita all’associazione «AmiCainoAbele».

Il dolore è una cosa seria. Ce lo insegna anche il Vangelo: Gesù piange per l’amico Lazzaro che è morto; Giairo, uno dei capi della Sinagoga, che chiede la vita per la figlioletta morente; Maria che, straziata dal dolore, resta ai piedi della croce assistendo impotente all’agonia del Figlio.

Il dolore è una cosa seria, è una dimensione della vita sulla quale ci giochiamo anche la nostra fede. Ma il dolore è anche una strada, come lo è stata la via crucis. È una strada che va percorsa tutta, evitando inutili scorciatoie, ma immergendosi nell’abisso, che a volte è solo disperazione, per incamminarsi – a passi anche stentati – verso la feritoia di luce che intravediamo. È questa l’esperienza che hanno vissuto Claudia Francardi e Irene Sisi, due "mamme coraggiose", che hanno saputo convertire il dolore in un sentiero di speranza. Per loro e per molti altri.

Claudia Francardi è la vedova di Antonio Santarelli, l’appuntato scelto dei Carabinieri, che una mattina di festa è uscito di casa per prendere servizio e non vi ha fatto più ritorno. Quella mattina del 25 aprile 2011 la vita di Antonio si è intrecciata indissolubilmente con quella di Matteo Gorelli, un ragazzo poco più che diciottenne, il quale di ritorno da un rave party, si imbatte in un posto di blocco dei Carabinieri nella zona di Pitigliano (Grosseto). Doveva essere quasi una pratica di routine e invece quell’alt genera l’inferno. Antonio, insieme al collega, viene aggredito, riporta gravissime lesioni cerebrali e dopo un anno di coma, l’11 maggio 2012 muore.

Per quell’aggressione, diventata mortale, Matteo sta scontando venti anni in una struttura di don Antonio Mazzi nel Milanese. Una terribile storia di cronaca, come purtroppo molte ne leggiamo, che poteva finire lì, "ridursi" ad essere – appunto – "solo" una terribile vicenda di "nera" e che invece, per la forza del perdono, diventa anch’essa una storia di resurrezione. Grazie a Claudia, la vedova del Carabiniere, e Irene, la mamma del giovane che sta scontando una pena per omicidio. Dal buio della disperazione, che in modi diversi le ha fatte sprofondare nell’abisso, Claudia e Irene hanno trovato la forza della risalita, faticosa, lenta, nient’affatto scontata, ma ce l’hanno fatta. A rendere possibile la loro rinascita è stato il perdono, chiesto e donato, desiderato e maturato nel cuore. Insieme Claudia e Irene hanno dato vita all’associazione "AmiCainoAbele", presentata ufficialmente pochi giorni fa a Grosseto, nell’ambito della festa parrocchiale di Santa Lucia, nel quartiere Barbanella.

Con loro, in questo cammino faticoso, c’è sempre stato un sacerdote, don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana di Grosseto ed una vita spesa in mezzo a quelle «periferie esistenziali» di cui tante volte ci parla Papa Francesco. Nel corso degli anni don Capitani ha dato vita a tante realtà sociali e di volontariato, «ma –’ ha detto – stavolta ho contribuito a far nascere qualcosa di diverso, a suo modo straordinario».

Ha parlato di «ritorno alle origini», don Enzo, ma non in senso temporale, a quando cioè con uno sparuto gruppo di volontari e operatori dette vita al Ceis anche in Maremma. No, un «ritorno alle origini» nel vero senso della parola, un ritorno alle origini «di noi come persone – ha spiegato –. Ciascuno di noi quando è nato era in pace con tutti; la vita poi ci porta quasi a spezzare l’incantesimo della fraternità umana e nelle nostre scelte si insinua il tarlo della divisione, del risentimento, della collera, dell’ingiustizia… Quanto sarebbe bello se ognuno di noi si impegnasse a recuperare l’armonia delle origini», ha sospirato.

"AmiCainoAbele" nasce con questo scopo: ritornare alla origini, non dimenticando – certo – che il male provoca conseguenze, che bisogna rispondere del dolore generato in altri, ma che c’è anche da ricomporre un quadro, un’armonia spezzata. Claudia e Irene sono partite da qui per imparare a guardasi negli occhi, chiedendo e ricevendo perdono. Non è una storia "zuccherosa" questa; anzi, è la stessa Claudia Francardi a dire subito: «Non sono pazza», ma «se diciamo di credere in Gesù, non possiamo prendere del Vangelo solo quello che ci conviene». Ma il percorso imboccato da questa donna esile, delicata, ma forte e coraggiosa, è stato dolorosissimo, così come quello di Irene.

Entrambe hanno lasciato che il dolore – quello che soffoca, toglie il respiro, annulla la vista – facesse il suo corso. Poi è iniziata la risalita. Paradossalmente è stata proprio la morte di Antonio Santarelli a far dire a Claudia che non avrebbe voluto un futuro di rabbia, di rancore, di vendetta. Doveva fare i conti con quel giovane che le aveva "ucciso l’amore", così come nel lungo e straziante periodo di coma del marito, ha dovuto fare i conti con la disperazione, con la voce dei medici che le ripetevano che per Antonio non c’era alcuna possibilità, con la depressione, coi mesi di buio, di dolore impotente.

Nel frattempo stava andando avanti il processo di prima grado e dopo la morte di Antonio, l’accusa per Matteo si fa più grave: omicidio. Poi arriva la sentenza: ergastolo. Nella concitazione del momento c’è chi sorride e chi si dispera, c’è chi piange e chi si da di gomito: solo queste due mamme, fragilissime come una porcellana di Capodimonte, sentono nel loro cuore che non basta un tribunale. «Quando ho sentito la parola ergastolo – racconta Claudia – mi sono sentita morire un’altra volta. Matteo aveva fatto qualcosa di aberrante, ma non potevo rassegnarmi all’idea che non gli fosse concessa una possibilità di riscatto
».

L’incontro tra le due mamme era già iniziato nelle settimane precedenti quella sentenza di condanna (che poi in appello è stata mitigata a vent’anni): un giorno Irene fece recapitare a Claudia una lettera, nella quale con poche parole, le chiedeva perdono. Quella lettera non è finita nel cestino: Claudia l’ha aperta e l’ha letta. C’è voluto del tempo, perché maturasse una risposta, poi un giorno le due donne si sono incontrate ed un abbraccio ha sciolto molto, se non tutto. Irene non ha mai minimizzato o cercato "scusare" il figlio, anzi si dice convinta che proprio grazie al fatto che anche in fase processuale non si siano cercate scappatoie, ma solo la verità e che Matteo si sia preso fino in fondo la responsabilità di quanto commesso, Claudia abbia avuto la possibilità di imboccare la strada del perdono. Il cammino continua, la risalita è lenta, ma un sentiero si è aperto e nessuno vuol tornare indietro.

Dalla discesa all’inferno al percorso di resurrezione

La prima cosa che Claudia Francardi ha fatto, il giorno in cui a Milano si è incontrata faccia a faccia con Matteo Gorelli, il giovane che aveva aggredito suo marito fino a condurlo alla morte, è stato guardare le mani di Matteo. «Mi sono chiesta come sia stato possibile che mani tanto piccole e affusolate avessero potuto compiere un gesto tanto tremendo». E quelle mani hanno incontrato quelle di Claudia grazie ad un Rosario: «Quel giorno – racconta la donna – avevo con me una corona e ho chiesto a Matteo se potevo metterla tra la sua e la mia mano». E così è avvenuto.

La forza della riconciliazione è passata anche da quel gesto, per certi versi ardito. «Per Matteo – ha spiegato la mamma Irene – è stato difficilissimo incontrare per la prima volta Claudia: in lei rivedeva il male che aveva commesso, la rappresentazione della sua colpa. Ma poi si è sentito perdonato ed in lui è nata la voglia di diventare una persona migliore». Oggi Matteo studio all’Università, è iscritto al corso di laurea in scienze dell’educazione, vuol diventare educatore nelle carceri «per essere – spiega la mamma – un ponte tra il passato e il futuro che può esserci».

Nel contempo prosegue l’impegno di Irene Sisi e Claudia Francardi per far sì che la loro vicenda diventi un seme fecondo per altri. Le due donne partecipano ad incontri nelle scuole ed è proprio durante il viaggio di ritorno da uno di questi incontri che quasi all’unisono si sono dette: «Come possiamo fare in modo che questa nostra storia non resti solo un fatto per noi?».

È nata così l’idea di dar vita all’associazione «AmiCainoAbele» per coinvolgere altre persone e diffondere la cultura della riconciliazione. Che passa attraverso alcune parole che stanno alla base del progetto: verità, responsabilità, compassione. Il perdono, infatti, è un fatto personale, ma può nascere dentro un cuore preparato e all’interno di una situazione in cui la giustizia fa il suo percorso. Verità e responsabilità: quella che ha detto Matteo e che Matteo si è assunto. Se anche in sede processuale la verità non fosse emersa fino in fondo e Matteo non avesse compiuto un percorso di consapevole pentimento, non ci sarebbe stato un "dopo" diverso da quello che sembrava già scritto: una storia di dolore insopportabile, capace solo di "congelare" ciascuno nel proprio dramma.

Da questo percorso di discesa nell’inferno del male, la risalita è diventata invece un percorso di resurrezione, che può guarire "Caino" e "Abele" e può aiutare tanti altri a sperimentare che il perdono non è utopia, non è per gente "debole", ma per chi ha testa e cuore, per chi sente dentro di sé che c’è una strada percorribile, per quanto stretta e piena di insidie e dentro una vicenda che stordisce c’è un pertugio e una ferita enorme, che ancora fa male, ha però potuto trasformarsi in una feritoia dalla quale filtra quel tanto di luce che ha permesso il perdono.


di Giacomo D'Onofrio

11 ottobre 2014

FONTE: Toscana Oggi

lunedì 5 aprile 2021

Figlio di ’ndrangheta salvato da un sacerdote

«Io sono Giosuè, sono nato e cresciuto in una famiglia di ’ndrangheta».
Si presenta così, mentre si appresta a raccontare la sua storia, colui che è a tutti gli effetti uno dei precursori del Protocollo “Liberi di scegliere”, la rete di associazioni e istituzioni, finanziata coi fondi dell’8Xmille, che permette ai figli dei mafiosi a cui è stata sospesa la responsabilità genitoriale, di costruirsi un futuro senza ’ndrangheta.
Il “padre”, di questo “Protocollo” è Roberto Di Bella, attuale presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, e Giosuè fu il primo dei minori allontanato dalla propria famiglia di mafia.
Infatti, cresciuto in un paese della Piana di Gioia Tauro, nel 1988, a soli 17 anni Giosué finisce nel carcere minorile di Reggio. Lì fa un incontro che gli cambierà la vita. Quello con don Italo Calabrò, allora vicario generale della chiesa Reggina.

Giosuè, cosa ricordi di quegli anni?

Sono cresciuto in una famiglia mafiosa e in un ambiente mafioso. Quando ero piccolo sono stato in collegio, lì ho conosciuto tanti ragazzini che oggi hanno cognomi “importanti”, che poi ho ritrovato sui giornali. Lì c’era un disagio sociale forte, sono nato in una realtà dura. Quando avevo 15 anni cominciavo a capire e a entrare nel meccanismo. A 17 anni sono finito prima davanti al Tribunale e poi in carcere minorile. Lì ho cominciato a maturare una riflessione, avendo tutto il tempo per riflettere (ride, ndr) ho deciso di fare qualcosa per cambiare il mio destino.

Che reato hai commesso?

Diciamo che finii trascinato in quella storia perché commisi degli errori ma non commisi direttamente il fatto. Però avevo dei “doveri”, non potevo fare nomi, perciò finii in galera. In carcere ho conosciuto don Italo Calabrò, venne in visita. Anche le assistenti sociali mi hanno aiutato tanto. Uscii col condono di pena e fui affidato ai servizi sociali.

Forse il carcere fa “punteggio” in certi ambienti…

Sì sì, quando sono uscito, per la mia famiglia era come se avessi preso la laurea. Se fossi tornato, l’avrei fatto da “uomo”, da persona che ha mantenuto l’onore, non ha parlato. Avevo superato la prova con 30 e lode. Ho guadagnato rispetto, saluti da gente che non mi considerava. Queste sono le “virtù” della ’ndrangheta.

Un’antieducazione. Questo pesa molto su un ragazzo, vale ancora oggi?

Su un ragazzino di 17 anni che ha bisogno di sentirsi forte e protetto, questo può dare una pericolosa falsa sicurezza. È per questo che, quando sono uscito, don Italo venne a prendermi.

Fosti tu a cercare don Italo?

Io ho maturato la scelta di non tornare a casa, dovevo fare qualcosa per me, cercare un’altra strada. Altrimenti quello che mi aspettava era fare “carriera” in quella famiglia, rischiare la vita, rischiare il carcere.

Quindi come è avvenuto l’incontro con don Italo?

Furono le assistenti sociali del Tribunale per i minorenni a metterci in contatto. Lui era una persona che parlava all’altro come se fosse il suo migliore amico. Quando lo vedevi sapevi che se avessi bussato alla porta avrebbe aperto. Anche se era un prete “importante” non si dimenticava di nessuno.

Qual è la cosa che ti ha detto che ti è rimasta più impressa?

Non è tanto ciò che diceva, ma ciò che faceva ad aver fatto la differenza per me. Voleva che partecipassi alle riunioni dell’Agape (associazione di solidarietà da lui fondata), che sentissi parole diverse, parole d’amore: erano riunioni molto diverse da quelle a cui ero abituato, qui si progettava come aiutare il prossimo. Mi portava ai convegni in cui si parlava di contrasto alla mafia. Non c’è stata una cosa singola, particolare. Quando è morto, forse. In quel momento, io andai da lui assieme a un grande amico, Francesco. Don Italo era in un pessimo stato fisico ma gli disse: «Ti affido Giosuè». Si preoccupò di me anche sul letto di morte.

Cosa hai trovato dopo esserti allontanato dalla tua famiglia?

Ho trovato una moralità diversa, ho trovato affetto da persone che mi hanno insegnato i veri valori della vita, come quello del rispetto per l’altro. La mia vita è cambiata per sempre, come se fossi rinato.


11 maggio 2019

FONTE: Tropea e Dintorni

mercoledì 17 febbraio 2021

Napoli, la storia di Antonio: «Così il mio nipotino autistico mi ha salvato dalla criminalità»

Il cognome è di quelli che in certi ambienti criminali incutono ancora timore. Antonio Macor, 53 anni, 25 trascorsi in carcere per vari reati - tra cui l'omicidio di un affiliato a un clan del centro storico che insidiava la sorella - ha lottato per lasciarsi alle spalle il passato e per ricominciare una nuova vita. Gli alleati più importanti nella lotta disperata il riscatto sono stati l'amore della sua famiglia e Genny, il nipote di 18 anni affetto fin dall'età di tre anni da una grave forma di autismo.

Quando le porte del carcere si sono aperte dopo quasi un quarto di secolo per Antonio non c'era nulla. Nessun percorso di reinserimento sociale e nessuna speranza per il futuro. Anzi, la probabilità che Antonio precipitasse di nuovo nella spirale di criminalità e violenza era concreta. Per i detenuti che ritornano alla libertà dopo lunghe pene detentive, infatti, i processi di redenzione sono complicati quando non addirittura impossibili. E lo stesso Macor racconta come, dopo la lunghissima detenzione, vari esponenti di clan del centro storico lo abbiano avvicinato per affidargli la gestione di attività illecite. Offerte che Antonio ha respinto con decisione. L'uomo, infatti, aveva un poderoso asso nella manica, suo nipote Genny.

«Io e Genny abbiamo un rapporto speciale - spiega trattenendo a stento la commozione - lui ha enormi difficoltà ad esprimersi, ma tra noi basta un'occhiata per intenderci alla grande. Passiamo le nostre giornate giocando insieme e io cerco di fargli sentire tutto il mio amore. La stessa cosa che lui fa con me. È stato proprio lui - prosegue Antonio - che mi ha spinto a cambiare vita nonostante le difficoltà che viviamo ogni giorno a vivere in una città dove per gli ex detenuti, anche per quelli che in buona fede vorrebbero rifarsi una vita, non c'è nulla».

Antonio non parla volentieri del suo passato ma, dopo una comprensibile diffidenza iniziale, diventa un fiume in piena: «Ho fatto male, tanto male - spiega - e i 25 anni passati dietro le sbarre mi hanno fatto riflettere molto. Purtroppo per chi come me nasce in quartieri poveri e privi di sbocchi la probabilità di finire in certi giri è molto alta. Ho chiesto e chiedo scusa a tutti per i miei errori e sono fermamente intenzionato a non sbagliare più. È vero che mi arrangio lavorando qui e là per vivere onestamente, ma io vivo per Genny e sono contento così. Ora il mio più grande sogno è sentirlo parlare per la prima volta. Mi auguro un giorno di sentirgli dire: ti voglio bene, nonno».

Per tante famiglie la malattia di Genny sarebbe una tragedia difficile da superare. Per Antonio e la sua famiglia, invece, è stata un'opportunità di riscatto. «Se oggi sono qui a parlare è solo grazie a lui. Probabilmente sarei ritornato in certi ambienti e tutti sanno qual è la fine che fanno i camorristi: ammazzati o all'ergastolo. Io invece ho avuto un dono, quello di un nipote che mi ama con tutte le sue forze e che mi dà ogni giorno una ragione per vivere».

Tanti i problemi che la famiglia Macor ha dovuto affrontare e affronta quotidianamente per Genny. A cominciare dalla carenza di strutture e da una burocrazia troppe volte farraginosa che non sempre riesce a dare le risposte giuste a famiglie bisognose di un aiuto concreto. «Stiamo lottando e continueremo a lottare per dare a Genny e per i tantissimi ragazzi come lui a cui ancora oggi certe opportunità sono negate - spiega Antonio - Anche in questo quartiere ci sono tantissimi spazi inutilizzati che potrebbero essere destinati ad attività per i ragazzi autistici. L'appello che rivolgiamo alle istituzioni è quello di ascoltare le famiglie che vivono questo disagio e di fare qualcosa. Noi stiamo cercando di dare vita a un'associazione dedicata a Genny e a tutti i ragazzi autistici della città, ci stiamo mettendo il massimo impegno e speriamo nell'aiuto delle nostre istituzioni».

Antonio e la sua famiglia vivono a vico San Severino, nel cuore del centro storico, luogo di intenso traffico turistico. A due passi dall'abitazione della famiglia Macor nel 1974 furono girate alcune scene del film “I Guappi” di Pasquale Squitieri. Un luogo ricco di storia che si potrebbe rivalutare anche per offrire un'opportunità a famiglie che cercano un riscatto sociale attraverso il lavoro e la storia e la cultura della nostra città. «Sarebbe bellissimo - chiosa Antonio - se qui si potessero realizzare iniziative culturali. Gli spazi ci sono, la volontà pure. Sarebbe un bellissimo biglietto da visita anche per i turisti che ogni giorno passano di qui per andare ai Decumani, oltre che un'opportunità di lavoro per tante persone che hanno riconosciuto i propri errori e sono decisi a cambiare strada».


di Antonio Folle

29 agosto 2019

FONTE. Il Mattino

martedì 27 febbraio 2018

Anna Maria, la mistica del lago che vive in clausura da 44 anni


La religiosa Anna Maria Cànopi sull’isola di San Giulio: incontro i pellegrini e anche chi non crede. «Chi viene sull’isola di San Giulio trova misericordia»

Ogni giorno Anna Maria Cànopi, madre badessa dell’abbazia benedettina Mater Ecclesiae, abbraccia l’umanità sofferente del mondo, l’umanità che grida, che si sente naufragare nel mare tempestoso della storia, che cerca conforto. Nell’isola San Giulio, sul lago d’Orta, vive in ascolto e preghiera da 44 anni: è un riferimento mistico della presenza di Dio, capace di contagiare con la fede chi ha bisogno di aiuto. Nel silenzio della clausura si parla di speranza, del coraggio di vivere, della forza del perdono e della visita a Milano di Papa Francesco, «una meteora nel cielo che si porta dentro le ferite dell’anima».

Alleviare le sofferenze

Fuori c’è gente in attesa, una famiglia, è venuta a pregare, due giovani sono in viaggio per monasteri, alcuni pensionati parlano della cattiveria del mondo. «Ce n’è tanta — dice madre Cànopi — perché c’è cattiveria nei nostri cuori. Bisogna sempre tornare lì, al combattimento spirituale dentro di noi contro le tentazioni e le passioni. È lì che bisogna combattere e vincere la battaglia, con l’aiuto di Dio. Ogni giorno, senza mai stancarsi, senza mai perdersi di coraggio per le inevitabili sconfitte, ma gridare aiuto come Pietro quando si è sentito affondare sulle acque del mare in tempesta. E Gesù è pronto a tendere la mano...».
Nell’atrio del monastero ci sono i suoi libri, alcuni titoli hanno la forza della semplicità: Incontro con Gesù, Silenzio, Fammi sapere perché, Preghiera, Un angelo anche per te. Aiutano chi è stato azzerato nella vita e deve trovare ogni giorno la forza per superare le avversità.
«Oggi soffrono i poveri privi del necessario per vivere, ma soffrono anche i ricchi, quando si accorgono che la loro ricchezza non li mette al riparo dalle grandi prove della vita. Soffrono i giovani per la disoccupazione dilagante e per le ingiustizie sociali che urtano con i loro ideali. Soffrono gli anziani spesso lasciati ai margini della società. Soffrono le famiglie in difficoltà economiche, provate da malattie e lutti, e tanto spesso divise... Ma soffrono soprattutto i bambini...». Un dolore innocente, che piega le gambe. «Tanta della loro sofferenza è dovuta a veri e propri scandali sociali: i bambini soldato, la pedofilia, il lavoro minorile, i genitori divisi... Ma vi è nei bambini anche tanta sofferenza fisica per malattie incurabili. Non passa giorno che non ci vengano segnalati casi di bambini molto piccoli, e già malati di tumore, leucemia... È un grande mistero: sembra quasi che il Signore voglia associarli più strettamente a sé nella Passione redentrice». E cosa si può dire a chi arriva con un buco nel cuore? «Una persona che soffre non cerca parole. Si sta in ascolto del suo dolore. A volte è proprio di questo che c’è bisogno. Trovare un cuore che ascolti e accolga le lacrime. E poi pregare insieme».

Le periferie e il carcere

Chi bussa al monastero trova un percorso di fede, che vale anche per chi non crede. «A chi è disperato perché ha perso la dignità e non ha una fede per invocare l’aiuto di Dio, si può soltanto dire che il suo grido di dolore non è inascoltato, perché Dio stesso, inviando suo figlio Gesù, è venuto a condividere la nostra condizione umana, si è caricato delle nostre colpe e dei nostri dolori per trasformarli in salvezza e gioia. Nessuno è abbandonato». Ci sono periferie umane ed esistenziali, ricorda Papa Francesco, dove l’ascolto è un antidoto alla disperazione. Il carcere è una di queste. «Ho molti amici nelle carceri — dice madre Canopi — qualcuno è venuto a trovarmi appena rimesso in libertà. Chiedono anche solo una parola che possa far loro compagnia. Hanno bisogno di passare da un senso di colpa all’esperienza sanatrice della Divina Misericordia». L’anno giubilare e i gesti di attenzione del Papa, in ginocchio davanti ai piccoli detenuti nel suo primo giovedì santo, anticipano la visita a San Vittore. «Dalle tenebre si esce solo se c’è una finestra che si apre. Papa Francesco ci aiuta a vedere che Dio è luce, Gesù è luce. Luce di vita risorta. Il Giubileo lascia un patrimonio di fede e di bontà. Un forte incentivo ad una vita buona, altruista, accogliente e generosa verso tutti, pronta al perdono e alla riconciliazione. La misericordia è il mantello che copre le colpe del fratello, protegge gli indifesi, raduna i dispersi e si allarga all’infinito. Ci lascia pellegrini sulla via dell’amore».
Madre Cànopi ha 86 anni e la sua vita è stata amare gli altri. Da bambina si incantava con le stelle e con il vento. «Mio padre guardava il cielo e si chiedeva: che cosa ci sarà mai dopo? Non finisce mai l’eterno, il senso del mistero...». Per studiare si alzava all’alba. «All’uscita dalla scuola, giocavo alle belle statuine. Un bambino sceglieva sempre me e un giorno mi sono arrabbiata: perché lo fai? Mi ha risposto così: con quegli occhi...». Madre Cànopi è sottile come un filo, dal mantello e dal velo spuntano due occhi abbaglianti, azzurri, con la luce dentro. «Dicevano che guardavano il cielo. E io pensavo: il Cielo è il Signore, Lui mi guarda e mi bacia». Nella sua giovinezza c’è la guerra, la scuola, la Cattolica, laurea in Lettere, tesi su Boezio. La chiamata matura quando fa l’assistente dei giovani carcerati, su richiesta della Procura di Pavia. «Erano ragazzi perduti, disadattati, senza riferimenti, senza morale. La loro richiesta di aiuto era immensa. Volevo fare di più per loro, per quelli come loro. Ho sentito una spinta dal Cielo: mi invitava a raggiungere tutta l’umanità sofferente. E io avevo un desiderio: volevo abbracciare il dolore del mondo».

Le monache e i pellegrini

La clausura illumina la realtà contemporanea. Il convento distilla quel che serve per vivere. Madre Cànopi è arrivata sull’isola nel lago d’Orta senza nulla di superfluo. L’ha chiamata il vescovo di Novara, Aldo Del Monte, dall’abbazia di Viboldone. Il vecchio convento era un luogo morto. Non c’erano i draghi e le serpi della leggenda, quelli scacciati da San Giulio, l’evangelizzatore del Quattrocento. C’erano i rovi dell’abbandono. Con le monache sono tornati i pellegrini. Chi sono oggi? «Nella luce della fede mi sembra che i veri pellegrini oggi siano le immense moltitudini di profughi che in estrema povertà lasciano la loro patria, la loro casa, i loro cari e vanno, fidandosi, consapevolmente o inconsapevolmente, di Dio. Ma tutti noi siamo pellegrini e viandanti sulla Terra, in cammino verso la Patria Celeste». Che cosa chiedono quelli che vengono qui? «Sant’Agostino risponderebbe che cercano la felicità. Ed è vero, lo scopo del pellegrinaggio è venerare le spoglie di un Santo o mettersi in contatto con un luogo di culto, per chiedere una Grazia o per ringraziare d’averla ricevuta. Ma nel pellegrinaggio non è importante solo la meta, conta anche il cammino per giungere alla meta, a volte si scoprono motivazioni diverse da quelle per cui si è partiti...». La felicità, spiega madre Canopi, è «aver scoperto di essere amati da Dio e sentire il desiderio di riamarlo. La felicità ha la sua sorgente nell’amore». Si può essere felici davanti a un’alba luminosa o a un bel tramonto, ma lo si è certamente quando si sente l’amore degli altri. «Per renderci felici Dio ci da’ Se Stesso al punto di farsi panel’Eucaristiache crea unità».
Nel monastero è di nuovo silenzio. È l’ora di Compieta, la preghiera della sera. Alle nove le monache si ritirano. Erano sei, 44 anni fa. Oggi sono più di settanta. Nel silenzio Madre Canopi custodisce l’intensità dei pensieri. Prega, legge, studia, risponde alle lettere, scrive poesie. L’ultima raccolta si intitola "Ancora cantando" editore Morcelliana, a cura di Arnoldo Mosca Mondadori. Madre Cànopi lavora fino a tardi, anche all’una di notte. Alle quattro è di nuovo in piedi. Ora et labora, dice la regola benedettina.
Le capita di pregare per l’Italia? «Io prego per l’umanità sparsa su tutta la terra. Ovviamente, in primis, prego per il nostro Paese, l’Italia, che mi sembra il più bello del mondo, perché lo amo. Così come un bambino vede la sua mamma e il suo papà come i più belli del mondo. Vorrei che i suoi abitanti fossero degni di stima, di onore, di ammirazione davanti a tutti gli altri Paesi del mondo».
Ci si allontana con l’eco dei passi. Dal traghetto l’isola di San Giulio è ancora più bella. Anche la bellezza è consolatrice.

di Giangiacomo Schiavi

18 marzo 2017

FONTE: Corriere.it


Personalmente amo tantissimo le suore di clausura, queste anime "belle" che dedicano tutta la loro vita a rendere Gloria a Dio e a intercedere per il prossimo, nell'umiltà e nel nascondimento. Esse hanno sempre uno sguardo speciale, particolare, una "luce" negli occhi che parla più di tante parole.... la Luce dell'Amore di Dio! E quanto bene che fanno queste anime.... un bene di cui potremo renderci veramente conto solamente quando saremo in Paradiso.
Siate sempre benedette anime belle.... raggi di Luce donate al mondo intero!

Marco