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venerdì 4 febbraio 2022

Le isole di Tonga colpite fortemente dall'eruzione del vulcano sottomarino Hunga-Tonga Hunga-Ha'apai. Aiutiamo questa popolazione in grande difficoltà!

L'eruzione del vulcano sottomarino Hunga-Tonga Hunga-Ha'apai del 15 gennaio, secondo i dati della Nasa, 500 volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima, ha creato dei danni enormi, in particolar modo nell'arcipelago delle isole di Tonga, costituito da 169 isole (anche se solo 36 sono abitate), per un totale di 100 mila persone. Le isole più periferiche dell'arcipelago sono state quelle maggiormente colpite ma, secondo la Federazione internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (Ifrc), almeno 80 mila persone potrebbero essere in gravi difficoltà, quindi la netta maggioranza della popolazione totale.

Le isole più colpite dalla furia di questa eruzione vulcanica sono quelle di Tongatapu, di Mango (completamente distrutta) e di Fonoifua. Danni ingenti anche per l'isola di Nomuka.
La situazione è critica soprattutto perché manca l'acqua potabile, contaminata dalla cenere vulcanica, piena tra l'altro di metalli pesanti come il rame, il cadmio e l'arsenico. Inoltre strade e ponti sono stati gravemente danneggiati e molti rifugi delle zono costiere sono stati travolti dagli tsunami.

Gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa della cenere che rende difficilmente praticabile l'aeroporto Fuaamotu e, nonostante che siano passati diversi giorni, la cenere continua a ricoprire case, strade, spiagge e infrastrutture.

La Caritas Tonga, in collaborazione con Caritas Aotearoa/Nuova Zelanda e le autorità locali hanno stoccato rifornimenti nei magazzini di Tongatapu, da distribuire alla popolazione in grandi difficoltà. Anche la Caritas italiana si sta adoperando per aiutare queste popolazioni, in una situazione di così grave emergenza.

Pure l'Unicef si sta mobilitando con grande impegno in questi giorni di gravi difficoltà, con la preparazione di molti pallet di materiali d'emergenza. “Mentre i danni all’agricoltura sono inferiori rispetto a quanto si temeva, sono state sollevate preoccupazioni per l’approvvigionamento idrico, la qualità dell’aria e la disponibilità di carburante – informa Unicef -. Si teme anche l’insorgere di malattie legate all’acqua, dato che le ondate di marea hanno causato l’inondazione di 2-3 isolati nell’entroterra” (citazione: Agensir). Sono stati inviati anche molti kit ricreativi per le attività psicosociali a favore dei bambini, che il Ministero degli Affari Interni distribuirà in collaborazione con i volontari della Chiesa locale.
Secondo Save the Children, sono 28 mila i bambini colpiti da questo disastro, e ancora e sempre, è l'assenza dell'acqua potabile a costituire il problema maggiore.

Ora per le popolazioni delle isole di Tonga c'è anche tanta paura per il diffondersi del Covid-19. Finora, infatti, questo arcipelago di isole era stato un territorio Covid-free, ma con gli arrivi, assolutamente necessari, degli aiuti umanitari è arrivato anche il Coronavirus. Un altra brutta "tegola" da dover affrontare.

La situazione che si è abbattuta sull'arcipelago delle isole di Tonga è drammatica, ma chiunque di noi, con un po' di buona volontà, può fare qualcosa di veramente bello per aiutare queste popolazioni. E lo si può fare donando il proprio contributo attraverso la Caritas italiana che ha aperto una raccolta fondi a questo scopo (cliccare qui).
Anche la divulgazione di questo post o altri articoli simili può essere utile alla causa e poi, naturalmente, cosa importantissima, invito tutti a sostenere queste popolazioni con la propria preghiera.

Non manchiamo mai di fare del Bene laddove c'è bisogno.... e il bello è che chiunque, ma veramente chiunque, nessuno escluso, lo può fare.
Grazie di cuore!


Marco

giovedì 5 agosto 2021

Emporio solidale "7 ceste", un aiuto importante per le famiglie in difficoltà

La Caritas Diocesana di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino, in collaborazione la Fondazione Assisi Caritas, gestisce l’emporio solidale diocesano “7 Ceste” di Santa Maria degli Angeli, dando una risposta concreta alle tante famiglie che, a causa della povertà e delle difficoltà sociali, non riuscirebbero ad accedere ai beni di prima necessità.

L’emporio è concepito come un vero e proprio piccolo mercato dove, in base alla possibilità concessa da un’apposita commissione, si procede con la spesa di prodotti freschi, surgelati e a lunga conservazione. Infatti si opera in stretto coordinamento con le Caritas Parrocchiali, i CVS locali e soprattutto con il Comune di Assisi, partner del progetto fin dall’apertura di aprile 2016, che mette a disposizione i locali. Nel tempo si sono aggiunti anche i Comuni di Bastia Umbra e Bettona.

A seguito della grave situazione economica e sociale che si è sviluppata con la diffusione del COVID-19, l’emporio solidale ha visto un incremento della richiesta di aiuto da parte di famiglie in difficoltà economica a causa della pandemia e contemporaneamente ha dovuto riorganizzare gli spazi in ottemperanza alle indicazioni dei DPCM.

Nei primi mesi della pandemia durante la primavera 2020 si è pensato di dare accesso all’emporio a tutte le famiglie che ne facevano richiesta, nessuno escluso. L’assortimento di prodotti di prima necessità si è reso necessario quasi con cadenza giornaliera, acquistando quanti più prodotti possibili per evitare di trovarsi con scarse quantità a fronte della richiesta sempre più numerosa di aiuti. Con l’obiettivo di potenziare l’approvvigionamento di derrate alimentari e forniture di beni di prima necessità, è stato attivato un servizio di consegna di beni a domicilio finalizzato a sostenere necessità sommerse e nuovi poveri.

Inoltre si è deciso di implementare il servizio di ascolto utilizzando la tecnologia informatica: si è attivato un ascolto in modalità da remoto che ha consentito ai volontari di raggiungere le persone difficoltà il più velocemente possibile e in maniera più completa rispetto alla semplice telefonata, mantenendo vive le relazioni con i più fragili.

Per contribuire invia un’offerta a

Fondazione Assisi Caritas

IBAN: IT32Y 02008 38278 000104548803

causale: EMPORIO 7 CESTE


FONTE: Caritas Diocesana

giovedì 4 febbraio 2021

Inaugurato a Rimini Hotel per i senzatetto

La benedizione del Vescovo, gli interventi del sindaco Gnassi e del vicesindaco Lisi

È stato firmato un contratto d’affitto per tre anni con la famiglia Angeli, di Torre Pedrera. Caritas ha partecipato all’istruttoria pubblica del Comune di Rimini, in merito al Progetto PAA 2020 “Accoglienza h24 per persone in condizione di marginalità estrema e senza fissa dimora legato all’emergenza Covid-19”. L’Amministrazione mette a disposizione un contributo di circa 55.000 euro, fino al 30 giugno 2021. Caritas si è iscritta all’Aia (Associazione Italiana Albergatori).

Locanda 3 Angeli non è un hotel Caritas o un albergo dei poveri ma una ‘locanda della comunità’. - ha spiegato Mario Galasso, direttore della Caritas Diocesana – È la locanda del Buon Samaritano di cui si parla nel Vangelo, sono i tre angeli che – accolti da Abramo e Sara alle querce di Mamre – porteranno la lieta notizia della nascita miracolosa del figlio Isacco. Questo progetto – ha proseguito Galasso – è un sogno partito da lontano, e condiviso con associazioni e Comune di Rimini. L’emergenza sanitaria ha modificato le nostre vite, anche quelle delle persone che vivono sulla strada. Erano e restano sole e deboli, con il rischio – durante la pandemia – di diventare ancora più sole. Locanda 3 Angeli accoglie in sicurezza le persone senza dimora”.

Grazie a voi per aver pensato a noi” è stato il commosso saluto di Ada Pronti Angeli, pioniera dell’hotel nel 1962 insieme al marito Oreste. “Per la nostra famiglia è un dono avervi qui e inaugurare questo progetto. – ha rilanciato il figlio Giuseppe a nome di tutta la famiglia – Abbiamo ricevuto un’educazione cristiana, e non intendiamo rinnegare le nostre radici: per questo mettiamo oggi a disposizione questi 5 pani e 2 pesci rappresentati dall’hotel e dai suoi servizi”.

Il Comune di Rimini ha investito oltre 500.000 euro nel ‘Piano Freddo’ – fa notare il vicesindaco e assessore alla protezione sociale Gloria Lisima quando vediamo una persona senzatetto sul nostro territorio capiamo che c’è ancora tanto da fare. Questa Locanda è una risposta, tanto attesa e necessaria, per le persone più fragili. Come ha già insegnato la storia dell’albergo sociale Stella Maris, le persone possono riscattarsi quando c’è qualcuno che tende loro una mano”.

Grazie a tutti coloro che riempiono di senso le parole, come la signora Ada il cui grazie ha un valore immenso. – sono parole del sindaco di Rimini, Andrea GnassiSoprattutto in questo periodo di seconda e terza ondata di Covid-19 sono necessarie lucidità, rigore e verità. La Locanda inaugurata oggi è una scelta lucida a favore di chi nella vita è inciampato ed è rimasto indietro. Non so se ha ragione don Oreste quando dice che le cose belle prima si fanno e poi si pensano, ma l’importante è farle e non farle da soli bensì insieme. La Locanda sarà un valore aggiunto per le vacanze, non un intoppo estivo di cui vergognarsi: è un’opera che rende più ricco il lungomare di Torre Pedrera e il territorio”.

Alcuni operatori della ‘Capanna di Betlemme’ (Apg23) svolgeranno servizio volontario presso la Locanda 3 Angeli. Nicolò Capitani, della Capanna di Betlemme: “Don Oreste ci ha insegnato che la gratuità è amare l’altro incondizionatamente. È camminare a fianco dei più deboli, né davanti né dietro”.

Benedico il Signore per questa giornata” ha esordito nel suo intervento il Vescovo di Rimini. “Ai riferimenti biblici opportunamente citati dal direttore Caritas, ne aggiungo un terzo: l’albergo che non aveva posto per loro del Vangelo della Natività. – ha ricordato mons. Francesco LambiasiProprio per far posto a chi bussa, come Giuseppe, Maria e il Bambino, don Oreste ha pensato e voluto la ‘Capanna di Betlemme’. L’opera della Papa Giovanni XXIII ha fatto tanto in questi anni, come pure il dormitorio Caritas ma oggi non bastavano più: era necessaria una struttura come la Locanda, un’opera che abbisogna della collaborazione di popolo”.
Il Vescovo ha donato alla famiglia Angeli un dipinto di Maria con il braccio Gesù, realizzato dagli ospiti della Casa Madre del Perdono, in cui i carcerati vivono un’esperienza di recupero e riscatto. Il Bambino spezza le catene sotto gli occhi di sua Madre, in questo caso “le catene della solitudine e dell’isolamento” ha ricordato il vescovo prima di procedere alla benedizione della struttura e dei presenti.

Terminata l’emergenza freddo, ‘Locanda 3 Angeli’ non cesserà il suo servizio: si pensa già ad un successivo utilizzo di accoglienza temporanea per persone sfrattate e in cerca di alloggio, si pensa di utilizzare la struttura come albergo sociale per le vacanze estive, e come centro di iniziative ed eventi per Torre Pedrera e l’intera comunità.


30 dicembre 2020

FONTE: Altarimini.it

giovedì 31 dicembre 2020

Una scatola di regali per il Natale dei più bisognosi: e a Lecco la parrocchia si riempie con duemila pacchi

Una rete di volontari e il prevosto hanno chiesto ai cittadini di portare una scatola di regali con cose calde, utili, dolci e divertenti: la risposta è stata sorprendente. Don Davide Milani: "Da dove ripartire dopo il Covid? Dal dono di sè, e dalla generosità che ci fa bene"

Una cosa calda, una cosa utile, una cosa buona e una cosa divertente. Tutto in una scatola, anche da scarpe purché decorata, e con un biglietto di auguri destinato a chi riceverà il dono. Si chiama "Scatole di Natale" l'iniziativa di solidarietà importata dall'estero prima a Milano, grazie all'iniziativa di Marion Pizzato, e poi a Lecco, grazie ad Adriana Calvetti e al prevosto della città, don Davide Milani. Che, ieri, si è trovato la chiesa e la parrocchia invasa di pacchi: perché il cuore buono dei lecchesi è andato ben oltre le aspettative, le scatole arrivate sono state oltre 2 mila, e la strada che porta alla chiesa di San Niccolò è andata in tilt per le tante persone che, in processione, portavano i loro pacchi.

I volontari hanno lavorato tutto il giorno per riceverli e adesso parte la consegna alle famiglie bisognose della città e della provincia, grazie alla rete delle parrocchie, della Caritas e delle associazioni. La richiesta era quella di preparare scatole con un contenuto differenziato - uomo, donna, bambini - scegliendo appunto un oggetto per ogni categoria: un maglione caldo, per esempio, con un dolce, un gioco e prodotti di pulizia. Accompagnando la scatola con un biglietto indirizzato allo sconosciuto destinatario.
Pensavamo di arrivare a 500 pacchi, a un certo punto abbiamo smsso di contarli. In un tempo in cui molti reclamano il diritto alle vacanze, allo shopping, ai pranzi per garantirsi un "buon Natale" ho incontrato oggi famiglie per le quali il modo migliore per vivere il Natale è donare”, racconta don Davide Milani. Che riflette sul messaggio di questa iniziativa e della risposta che hanno dato i lecchesi. “Tutti ci stiamo chiedendo da dove avverrà la ripresa dopo il Covid: a vedere l'oratorio e la parrocchia pieni mi viene da rispondere dalla logica del dono, ma del dono di sé, prima di tutto”. E ancora, aggiunge don Davide: “Spero che in tutte queste persone che hanno fatto un gesto così bello maturi la convinzione che ogni giorno abbiamo una scatola da donare: piena di attenzioni, affetto, cura, vicinanza al prossimo”.

di Oriana Liso

11 dicembre 2020

FONTE: la Repubblica


Che bella iniziativa, e con quanta Generosità hanno risposto le persone lecchesi! I tempi saranno anche difficili, ma gli italiani dimostrano sempre di essere un popolo molto generoso.
E con questo articolo, bello e gioioso, l'ultimo di questo 2020, auguro a tutti quanti un FELICE ANNO NUOVO, ricco di Grazia, di Doni e di Amore!

AUGURI CON TUTTO IL CUORE !!!

Marco

sabato 16 giugno 2018

Corridoi umanitari: «Questo viaggio per noi vale una vita»


Siamo andati in Etiopia a seguire i 113 rifugiati del corridoio umanitario organizzato da Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Gandhi Charity. Chi sono questi profughi? Eritrei, sudsudanesi, somali. Scappati dalla guerra e dall’oppressione. Alle spalle storie di violenza e privazioni. il futuro? Parla italiano.

Ghennet cammina un po’ curva sotto il borsone che tiene sulla testa. Le poche cose che possiede sono tutte là dentro. Il resto è la sua Africa, quella che si porta nel cuore e nei ricordi. Quella bella dell’infanzia e quella terribile della fuga, dei campi profughi, della fame, delle violenze, della paura. Arriva all’hotel Ghion di Addis Abeba, che fa da punto di ritrovo. Stasera Ghennet (nome di fantasia, come tutti gli eritrei citati, le cui famiglie potrebbero subire ritorsioni), insieme a tutto il gruppo – 113 rifugiati più gli operatori – si sposterà all’aeroporto: le pratiche finali, il volo notturno, l’arrivo, domattina alle 4.30 a Fiumicino. L’Italia. Piena di una neve prima mai vista e di un freddo mai provato. Troverà i volti sorridenti della parrocchia che l’accoglierà. Come lei arrivano tutti, alla spicciolata. Una sessantina provenienti dai campi profughi del Nord, popolati di eritrei, e dell’Ovest, al confine con il Sud Sudan in guerra civile. Una mamma con due bambini disabili viene anche dall’altro infinito con­itto del Corno d’Africa, quello somalo. Gli altri vivevano già ad Addis Abeba, con lo status di rifugiati.

Sfila Tesfay, tenendo per mano il figlio di 7 anni. Porta con sé una valigia e dieci anni da soldato, la fuga dall’Eritrea nel 2003 verso l’Egitto, l’anno di carcere nelle sue prigioni, gli ultimi dieci anni da rifugiato in Etiopia. Vorrebbe liberarsi dei terribili ricordi del Sinai. «Preferisco non parlarne», dice. Passa Abraham, aspirante sacerdote copto, imprigionato e torturato all’Asmara per aver rifiutato di arruolarsi nella leva obbligatoria, e senza data di congedo, nell’esercito eritreo. «Come ho fatto a resistere? La guida è stata questa», dice, sollevando la grande croce che porta in petto. Arriva a passo lento Nebyat con i due bambini, Shewit e Teame, uno per parte. Lei non è scappata solo dalla dittatura dell’Asmara, ma anche da un marito soldato che la picchiava. A due passi dalla piscina vociante dei bambini ospiti dell’albergo compare il gruppo dei sudsudanesi, due sole grandi famiglie di 10 e 12 membri. Loro sono rifugiati da oltre vent’anni. La guerra civile che ora insanguina il loro Paese non l’hanno nemmeno conosciuta. Sono scappati durante il confl­itto precedente, quando la gente del Sud voleva liberarsi dall’oppressione del regime di Khartoum. «Venire in Italia per noi è la salvezza», dice una di loro, Sara. «Nel campo profughi dov’eravamo si replicavano le tensioni etniche che stanno distruggendo il nostro Paese. Subivamo violenze continue». Nyhal, giovane membro dell’altra famiglia sudsudanese, apre la valigia: «Vedi, del mio Paese porto con me la bandiera e questi bracciali tipici della nostra tradizione. Nient’altro».

Questo volo porterà a Fiumicino e poi in 18 diverse diocesi italiane il gruppo di profughi. Tutte situazioni di vulnerabilità, non solo perché in fuga dalla guerra o da un regime oppressivo, ma anche perché si tratta di famiglie nelle quali un figlio ha bisogno di cure, o è disabile, o ancora donne sole con bambini (talvolta frutto di violenza), oppure giovani che sono passati per l’inferno delle prigioni eritree o i sequestri delle bande di beduini del Sinai. «Mi hanno liberato perché la famiglia e gli amici hanno messo insieme 30 mila dollari», spiega Isaias, «altrimenti mi avrebbero reciso le dita una alla volta. Quando vedono che uno non ce la fa o la famiglia non paga gli prelevano gli organi. Questo, noi sequestrati, lo sapevamo tutti».

È il secondo corridoio umanitario dall’Etiopia. Il primo ha condotto in Italia 25 profughi, ne giungeranno altri 362, per un totale di 500,
con le missioni programmate a giugno e in autunno del 2018. Questo è il progetto di Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e l’Ong Gandhi di Alganesc Fessaha. Un modello di corridoio umanitario senza precedenti, perché non prevede solo il “viaggio sicuro”, ma anche un lungo lavoro preparatorio di individuazione delle persone da portare in Italia, diversi colloqui con ciascuno dei profughi, la collaborazione con l’Unhcr, con l’ente di protezione dei profughi etiope (Arra), con l’Ambasciata italiana di Addis Abeba per le procedure di identificazione e di visto. Non solo. Ogni rifugiato o nucleo familiare sa già in quale parrocchia e famiglia italiana verrà accolto. Finora sono venti le diocesi che hanno dato disponibilità, alla fine del progetto saranno una settantina. Dopo l’arrivo in Italia, si prospetta un lavoro altrettanto intenso, di accoglienza e integrazione: apprendimento della lingua, ricerca del lavoro, l’autonomia entro un anno (ma l’inserimento nel nostro Paese sarà monitorato per cinque anni).

«Una grande gioia, ma anche mille paure. Questo viaggio per me e mio figlio è l’inizio di una nuova vita», dice Ezgharya, scappata dalla famigerata caserma eritrea di Sawa quand’era sotto leva. Intercettata e arrestata, e fuggita una seconda volta dopo il reintegro nell’esercito. La lunga fuga – sei anni nei campi profughi – le lascia la ferita di un marito che l’ha abbandonata e un bambino di 5 anni. «Potrò farlo studiare», spiega, «anche se so che l’Italia è una sfida difficile, ma da vincere».

«Vuoi sapere se avrei tentato la sorte della traversata del deserto e del mare? Sì, se non avessi avuto questa occasione l’avrei fatto», aggiunge. «Sì, anche sapendo che forse saremmo morti o temendo di finire nelle carceri libiche. I campi profughi ti annullano il futuro. Quando non hai più niente da sperare tanto vale tentare il tutto per tutto. Meglio rischiare la vita che vivere una non vita in una tenda dove a malapena riesci a bere e a sfamarti».

Nella notte il volo. In pochi minuti regna il silenzio, grandi e piccoli sono sopraffatti dalla stanchezza. Qualcuno non dorme, dagli oblò guarda sotto, il Sahara, poi il Mediterraneo. Noi li sorvoliamo. Laggiù, migliaia di altri profughi giocano la loro scommessa con la vita e la morte.


CORRIDOI UMANITARI, IL MODELLO ITALIANO

“Protetto. Rifugiato a casa mia”. Così Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio e Ong Gandhi hanno denominato il progetto dei corridoi umanitari dall’Etiopia. Un lavoro iniziato a fine 2017 e che terminerà – per la fase dei trasferimenti – nel prossimo autunno.
«Abbiamo iniziato con i rifugiati siriani nel 2015», spiega Giancarlo Penza, che con Cecilia Pani coordina per la Comunità di Sant’Egidio questo progetto. «Ma l’esperienza maturata ci ha spinto a elaborare ulteriormente il modello di corridoio umanitario, la cui vera novità è il coinvolgimento della società civile ed ecclesiale. Perciò l’apporto da un lato della Ong Gandhi (la cui fondatrice, Alganesc Fessaha, da 18 anni lavora nei campi profughi etiopici, ndr) che ha curato l’individuazione dei rifugiati, e dall’altro di Caritas che ha trovato le realtà ospitanti e ha messo in collegamento i profughi con chi li ospiterà, ne fa oggi il modello più avanzato di integrazione». Si tratta di 500 persone. Poche, se pensiamo che la sola Etiopia, Paese poverissimo, accoglie 900 mila rifugiati. «Ma se il modello fosse adottato dagli Stati», aggiunge Penza, «i numeri sarebbero ben diversi».

L’apporto delle diocesi e delle famiglie è determinante: «Ogni rifugiato avrà un tutor che gli starà accanto», sottolinea Daniele Albanese, responsabile con Oliviero Forti del progetto per Caritas italiana. «Inoltre, la mobilitazione dei volontari consente un notevole contenimento dei costi: 15 euro al giorno per persona, nell’anno in cui i profughi sono in carico a noi. Dopo il quale dovranno raggiungere l’autonomia». «La formazione e la preparazione della comunità che dà ospitalità è fondamentale», insiste Albanese. «La gente sa poco o nulla di quanto avviene in Eritrea o in Sud Sudan. Chi accoglie conosce i contesti da cui provengono i rifugiati, e loro sanno dove andranno. In molti casi hanno già ricevuto un video dalla famiglia italiana che li accoglierà». La gran parte dei 113 rifugiati di questo corridoio umanitario erano già seguiti da tempo da Alganesc Fessaha, la fondatrice della Ong Gandhi Charity: «Sono famiglie dove manca un genitore», dice, «o con bambini malati e disabili. Alcuni sono coloro che ho liberato dalle carceri egiziane o dalle mani dei sequestratori nel Sinai».

A ricevere a Fiumicino il gruppo ci sono mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, Mario Giro, viceministro degli Esteri, Marco Impagliazzo, presidente della Sant’Egidio. Tutti e tre hanno sottolineato che questa è la risposta al dramma delle morti nel deserto o in mare. Ma è anche la via maestra per una vera integrazione. «Esiste l’alternativa allo sciacallaggio economico e politico, anzi pseudopolitico», ha concluso Galantino, «ed è la bella lezione che viene dai corridoi umanitari». Una lezione che, dall’Etiopia, anche l’arcivescovo di Addis Abeba, cardinale Berhaneyesus Souraphiel, invita a seguire: «Tutti i Paesi europei», ci ha detto, «dovrebbero fare come l’Italia».

di Luciano Scarlettari

FONTE: Famiglia Cristiana N. 10
11 marzo 2018


Quando sentiamo parlare di profughi provenienti dall'Africa o da altre parti del mondo, in cerca di ospitalità qui in Italia o, in generale, in Europa, dovremmo capire bene di cosa stiamo parlando. Credo che questo articolo renda bene l'idea del DRAMMA che queste persone vivono nel loro paese, un dramma così grande che li "costringe" a scappare e a cercare disperatamente ospitalità altrove a rischio concreto della propria stessa vita. E questo perchè nel proprio paese non c'è futuro e speranza, a causa della guerra, dell'anarchia e della violenza! Non si emigra dal proprio paese di appartenenza, a rischio stesso e consapevole della propria vita, se non c'è dietro una ragione veramente, ma veramente valida!
Quella dei "corridoi umanitari" è certamente la strada migliore da seguire per poter ospitare questi profughi, una strada che assicura loro una sistemazione, una protezione e anche un futuro. Ciò nondimeno non credo sia ipotizzabile pensare che, attraverso i corridori umanitari, si possa ospitare per intero l'enorme mole di profughi proveniente dal continente africano o da altre zone della terra martoriate dalla guerra e dalla violenza. E' chiaro che il primo e più importante obiettivo dev'essere quello di portare la Pace laddove la Pace ora non c'è, quindi quello di aiutare gli stati più bisognosi a risolvere i propri problemi interni. Non è una cosa semplice naturalmente, tutt'altro.... ma la vera conquista sarebbe proprio questa! E se la Pace, unita ad un sano e pacifico benessere giungesse dov'è ora odio, disordine e violenza, il problema profughi cesserebbe immediatamente di esistere, perchè nessuno più avrebbe motivo di lasciare la propria terra. La speranza di tutti, naturalmente, è che in un futuro, speriamo prossimo, si possa giungere proprio a questo!

Marco

giovedì 15 marzo 2018

L'ambulanza dei sogni che realizza i desideri dei malati terminali


Così suor Maria Cristina, 90 anni, ha potuto rivedere la sorella in Austria. Un'idea della Croce Bianca e della Caritas diocesana bolzanina

Tornare nella propria casa d'infanzia, vedere ancora una volta il mare, ammirare il tramonto sulle Dolomiti oppure semplicemente riabbracciare un caro parente. Quando si avvicina la fine della vita, spesso resta un ultimo desiderio, che però a causa della malattia oppure per motivi logistici difficilmente può essere realizzato. In Alto Adige da poco l'Ambulanza dei sogni esaudisce questi desideri dei malati terminali.

Oggi è un grande giorno per suor Maria Cristina. Novanta anni, 60 dei quali passati in monastero, vuole vedere ancora una volta sua sorella, che vive in una casa di riposo a Lienz, in Austria. Uno staff accompagnerà la religiosa durante questo "ultimo" viaggio, che avviene su un'apposita ambulanza con delle ali blu disegnate sulle portiere. Ali come quelle di un buon angelo.


Collaboro come volontaria, perché mi piace aiutare la gente”, racconta Steffy. Suor Theresia, madre superiore del convento di Bolzano, apprezza molto l'iniziativa. “Noi - dice - non saremmo stati in grado a realizzare il sogno della nostra consorella”.

Il progetto "Sogni e vai" è un'iniziativa comune tra l'associazione provinciale di soccorso Croce Bianca e la Caritas diocesana di Bolzano. Entrambe da anni lavorano con persone gravemente malate. Il Servizio Hospice della Caritas accompagnandole nell'ultima fase della loro vita, la Croce Bianca effettuando servizi di trasporto infermi. Da ciò è nata l'idea di coniugare la professionalità e l'esperienza di entrambe le organizzazioni per iniziare insieme questo nuovo progetto.

Responsabile dell'Ambulanza dei sogni è Reinhard Mahlknecht. “Siamo partiti da poche settimane e abbiamo ricevuto già numerose richieste - racconta -, per alcune dobbiamo però attendere la bella stagione per poterle realizzare”. I desideri hanno un filo rosso: il passato con i suoi ricordi e i suoi legami personali. “C'è - spiega Mahlknecht - chi vuole tornare dove è nato e cresciuto, altri vogliono riabbracciare un parente che vive lontano”.

"Sogni e vai" si rivolge a malati di ogni età e il servizio è gratuito. Viene infatti finanziato in gran parte grazie a offerte raccolte da Caritas e Croce Bianca. Un sorriso di suor Maria Cristina svela la sua felicità e dimostra che questa iniziativa è stata davvero una bella idea.

7 febbraio 2018

FONTE: Avvenire.it

domenica 4 giugno 2017

Semi-nati in terra di Sicilia

In una fattoria sociale nell’entroterra isolano, migranti e palermitani costruiscono assieme una nuova prospettiva lavorativa. Daniela è una delle protagoniste del progetto

Sono ormai come figli adottivi. Per loro nutre un affetto materno, compensando quello che non possono più offrire le madri, distanti migliaia di chilometri. Un legame affettivo che è cresciuto nel tempo e che le ha consentito di apprezzare giorno dopo giorno le qualità di questo gruppo di migranti africani, giunti in Italia a bordo delle carrette del mare e approdati nel giugno 2013 tra le braccia della Caritas di Palermo. Daniela Adelfio, dopo averli accolti, accuditi, seguiti, è diventata con loro protagonista del progetto Semi-nati, fattoria sociale realizzata dalla Caritas a Ciminna, paesino dell’entroterra, a 40 chilometri da Palermo. I sei ragazzi provenienti da Senegal, Costa d’Avorio, Mali, Gambia ne sono diventati un po’ i simboli, oltre che la "forza-motrice".

La “vocazione” per l’accoglienza

Arriva dalla Sicilia questa bella storia di integrazione e di fede, che allontana lo spettro dell’immigrazione "cattiva" e mostra il lato buono di questi giovani che raggiungono le coste italiane nella disperazione più assoluta e con la speranza di poter avere un futuro migliore. Un lato buono che emerge anche grazie all’impegno di volontari come Daniela, 42 anni, insegnante di religione e una vita spesa tra Chiesa e sociale, in particolare nell’accoglienza ai migranti. Una "vocazione", come la definisce lei stessa, che "esplode" a giugno 2014, quando sposa il progetto Semi-nati della Caritas palermitana guidata da don Sergio Mattaliano. “Ero già impegnata nella prima accoglienza dei nostri fratelli provenienti dalle coste africane. Mi occupavo di assistenza, consegna di cibo e vestiti. Poi con il progetto Semi-nati – spiega Daniela – le cose sono cambiate. Perché da quella sorta di assistenzialismo che facevo nei loro confronti, mi sono dedicata a una vera e propria accoglienza anche sotto l’aspetto umano e spirituale. Lavorando con loro nella fattoria sociale ho imparato a conoscerli da vicino, entrando man mano nei meandri delle loro storie personali. Sono ragazzi che quando prendono fiducia si aprono. E sopratutto ti fanno avvertire un senso di gratitudine per quello che stai facendo per loro”.

Sofferenza e speranza

Nelle storie dei migranti, Daniela riesce a trovare un denominatore comune: sofferenza e speranza.

Ho sofferto molto ascoltando il loro passato – ammette la volontaria della Caritas – a volte mi è capitato anche di rivolgermi a Dio per chiedergli il perché avesse riservato loro una vita così complicata, difficile. E la risposta paradossalmente me l’hanno data gli stessi ragazzi. Loro si nutrono di speranza, vivono per la fede. Sanno che Dio è al loro fianco, che siano cristiani o islamici. Così mi sono sempre più convinta che alla radice della loro sofferenza c’è l’agire dell’uomo, che non fa nulla affinché la situazione in quei Paesi africani cambi. E che allo stesso tempo c’è un disegno di Dio che li ha portati fin qui in Italia”. Ed è quella speranza a farle credere fermamente nel progetto Semi-nati, in quella fattoria sociale, nata nel gennaio 2015, dove vivono e rifioriscono “i suoi ragazzi”.
La vita in fattoria inizia alle 7 del mattino – spiega Daniela –. C’è chi si dedica alla raccolta degli ortaggi, chi alla cura del terreno, chi all’allevamento. Il contatto con gli animali per loro è quasi "sacro" perché li proietta mentalmente alla loro terra. Io e gli altri volontari li affianchiamo in queste attività. La convivenza è davvero ideale”.


Rispetto per l’Islam

Molte volte è capitato che il confronto cadesse sulla fede. “È tutt’altro che un argomento tabù – evidenzia la volontaria – c’è Yannick, ivoriano, che presto si battezzerà e diventerà "ufficialmente" cattolico con il nome di Tommaso. Ama Gesù e lo sente vicino in ogni istante della sua vita. Altri sono islamici ma molto rispettosi della fede cattolica. Anzi, forse ero più io a essere diffidente verso quella religione, ma scoprendo loro mi sono ricreduta. Il vero arricchimento è proprio questo: accettare e lasciare le porte aperte all’altro, anche se islamico o di altro credo. La contaminazione, come ci ricorda Papa Francesco, è una strada che ci riserva gradite sorprese”.
Ci sono state occasioni in cui si è addirittura pregato insieme: “A Pasqua o Natale eravamo tutti uniti e loro anteponevano la condivisione alla differenza del credo religioso. Non si appartavano, anzi, faceva loro piacere restare tra noi e pregare con noi. Una vera e propria festa nel segno del Signore!”.
Dunque Semi-nati per Daniela è stata l’esperienza con la quale è riuscita a varcare muri, barriere ideologiche, "bagnandosi" a pieno con le fedi e le culture di questi giovani immigrati. “È per questo che ho tutta l’intenzione di continuare in questo progetto – dice –
voglio accompagnare ancora questi ragazzi per rigenerarmi e rigenerarli. Spesso torno a casa col cuore gonfio di gioia. Ne parlo con la famiglia, in particolare con mia figlia, anche lei impegnata nel volontariato e nell’assistenza ai migranti. Con la preghiera e pensando alla loro tenacia, devo ammettere che affronto con uno spirito diverso anche i miei problemi personali. È una vera vittoria della solidarietà. Basta con i luoghi comuni, apriamo i nostri cuori ai migranti”. 


Obiettivo Integrazione

Immigrati e italiani si attivano per avviare una fattoria solidale, una cooperativa che sorge a Ciminna, a 40 chilometri da Palermo. Sei migranti operano insieme a quattro famiglie italiane, due di Ciminna e due di Palermo con una storia di disoccupazione alle spalle. È il progetto Semi-nati che la Caritas ha portato avanti con i fondi dell’8xmille, rivolto all’inclusione di italiani e stranieri, e che è gestito dalla cooperativa La Carità.

Il giusto supporto per una vita dignitosa

Nella fattoria c’è tanto da fare e la gran parte degli immigrati è molto contenta di potersi dedicare alle attività agricole e di allevamento. Ci sono molti animali, tre cani, pappagalli, galline, conigli, tacchini, lepri, capre e perfino un cavallo. “L’obiettivo – spiega don Sergio Mattaliano, direttore della Caritas – è soprattutto quello di dare risposta alle stesse esigenze che accomunano tanto i migranti arrivati in città quanto i palermitani disoccupati: trovare un lavoro che permetta loro e ai propri cari di avere una vita dignitosa”.

La conversione di Yannick

Yannick è un cristiano evangelico che ha deciso di diventare cattolico. È originario della Costa d’Avorio ed è arrivato a Palermo il 15 giugno 2014. Qui ha sposato il progetto di don Sergio Mattaliano e ora lavora all’interno della fattoria sociale. “Devo ancora battezzarmi – dice – ma mi sento cattolico a tutti gli effetti. Padre Sergio è mio papà e lo chiamo così! Amo pregare per il Signore e desidero incontrarlo. Ho letto la Bibbia, ne sono affascinato e sto seguendo un percorso di fede. Sono arrivato in Sicilia senza niente. È stata la volontà di Dio a condurmi qui e a farmi conoscere la mia nuova "famiglia"”.

di Gelsomino del Guercio

FONTE: A Sua Immagine N. 128
28 giugno 2015

giovedì 2 marzo 2017

A Bari la Solidarietà è virale

Spesa già pagata e dentista a costo zero, abiti da sposa in prestito e pasti gratis. «Vale tutto», spiega l’assessore Bottalico. «Basta che la Carità diventi contagiosa»

Alla Salumeria Fello, due vetrine su Bari Vecchia, mezzo chilo d’orecchiette fanno 3 euro: con 6 ne lascia un altro mezzo chilo per chi è meno fortunato. Ma è ben accetta qualunque cifra, per la quale il titolare Andrea batte uno scontrino che imbuca nel colorato salvadanaio di Social Network, progetto solidale promosso dall’assessorato al Welfare del Comune, in attesa di far su un gruzzolo da “convertire” in beni di prima necessità. Pasta, taralli e olio che sono destinati a famiglie bisognose.
«L’iniziativa è partita solo da un paio di settimane, ma piace già a cittadini ed esercenti», ci spiega l’assessore Francesca Bottalico mentre ci guida per i negozi che hanno aderito alla rete. C’è Peter Pan, il punto vendita di detersivi della “pioniera” Antonella Capriati che ha già fatto la sua prima consegna di bagnoschiuma e detersivi. Poi i panifici, i negozi di giocattoli, quelli di sanitari. Pure La ciclatera sotto il mare, locale della movida arroccata sulla Muraglia con vista mare. E se chi sorseggia uno spritz non fa caso al salvadanaio, ci pensa il titolare Roberto de Benedictis a spiegare che il loro contributo servirà ad aiutare chi un aperitivo non può permetterselo.
«La spesa viene fatta partendo dai bisogni delle persone», precisa la Bottalico, 41 anni, di cui 25 passati a lavorare nel sociale, «perché il metodo è importante e serve a ridare dignità alle persone. Chi è in difficoltà spesso non accede ai servizi sociali perché si vergogna, così invece si fa inclusione sociale». Per questo nella rete è appena entrato anche il parrucchiere Nico Foggetti che nel suo salone donerà due ore alla settimana di tagli e pieghe solidali a chi non può pagarli.

«Aumentano le povertà economiche», prosegue l’assessore, «ma ancora di più quelle in termini di legami sociali, anche perché le separazioni crescono e le reti familiari cominciano a vacillare. Quel che si denuncia sono solitudine e isolamento». Un circolo vizioso di cui spesso sono vittime anche gli utenti dei circuiti solidali più tradizionali. «Non si tratta di riempire la pancia e basta, perché se avessero bisogno solo di mangiare troverebbero un piatto di pasta nel retro di qualunque ristorante della città: noi cerchiamo di dare una famiglia a chi non l’ha», ci dice Decio Minunno, coordinatore delle mense della Caritas diocesana mentre si aprono le porte di quella di Santa Chiara, a pochi passi dalla cattedrale. Entrano giovani extracomunitari, anziani spaesati, gente che ha perso casa e lavoro. Un padre separato appena uscito dall’ufficio che tra alimenti e mutuo non ce la fa, una signora con scarpe e borsa firmate che da dietro gli occhiali da sole avverte: «Niente foto, nessuno sa che vengo qui, è solo un brutto momento, ora passa».

Non c’è solo la rete, precisa don Vito Piccinonna, responsabile della Caritas Diocesana di Bari Bitonto, 126 parrocchie e 700 mila abitanti: «C’è una dimensione educativa della carità, perché aiutare i poveri significa anche cambiare la propria vita, e il contributo delle parrocchie in termini di ascolto e accoglienza è fondamentale». Alle mense diffuse su tutto il territorio vanno aggiunti il dormitorio Don Vito Diana, dietro la stazione, 48 letti occupati ogni notte, l’Opera Padri separati a Modugno, per sei papà in difficoltà. «In questo periodo cerchiamo di dar loro anche un supporto psicologico e favorire il ricongiungimento», precisa don Vito Piccinonna, cui fa capo anche il nuovo centro di orientamento sanitario attiguo alla parrocchia Sacro Cuore. Nato per gli extracomunitari che non hanno ancora documenti regolari, e dunque neppure accesso alla sanità pubblica, è aperto il sabato mattina e il mercoledì pomeriggio. «Qui trovano sempre un medico», ci spiega la dottoressa Stefania Sabatini, «per una prima visita, un farmaco urgente, o per fissare una visita successiva con uno dei 50 specialisti della rete». O per un rinvio a una struttura di pronto soccorso. «Gli italiani? Non avrebbero ragione di venire qui, ma capita: per procurarsi farmaci per i quali comunque dovrebbero pagare un ticket o per quelli da banco, che dovrebbero pagare interamente». La salute è il tallone d’Achille dei più vulnerabili, e anche le istituzioni tengono la guardia alta. «Da alcuni mesi abbiamo fatto partire l’odontoiatria sociale», spiega l’assessore Bottalico. «Controlli gratuiti per tutti i bambini, e un protocollo per cure successive con dieci studi odontoiatrici. Ora stiamo lavorando a un accordo per le cure alle donne in gravidanza e ai bimbi fino a tre anni e abbiamo fatto un bando per un centro polifunzionale per la prima infanzia di contrasto alla povertà di cui ci sarà l’aggiudicazione a breve».

Semi che cominciano a dare i frutti, se è vero che un poliambulatorio low cost, che fa visite specialistiche a prezzo calmierato di 30 euro a visita, ha chiesto di poter entrare nella rete di solidarietà del Comune lanciando le “visite sospese”: una pagata per sé e una per chi ne avrà necessità.
«E’ questo il nostro obiettivo», dice l’assessore, «attivare la società civile in una cultura di solidarietà, che si tratti dell’adottare una famiglia del vicinato cui donare un pacco di viveri regolarmente o di far funzionare “Le spose di pace”, emporio di abiti da cerimonia prestati gratuitamente».

Tutto serve, perfino un gelato “sospeso”, come quello che si può lasciare già pagato da “Che gusto c’è?”, la gelateria in via De Rossi. Alla parete il titolare Francesco Gennaccaro ha attaccato la lista dei coni donati, lunghissima, e un biglietto scritto con la matita rosa: “Grazie, Chiara”.



di Rossana Linguini

14 giugno 2016

Fonte: Gente N. 23


Articolo molto, molto bello che riporto con grande piacere tra le pagine di questo blog.
Penso che quello che sta facendo la città di Bari per venire incontro alle fasce di popolazioni più povere (purtroppo in crescita), con questo magnifico proliferare di attività socialmente utili, dovrebbe essere preso d'esempio da ogni città d'Italia. Alle volte basta molto poco per fare tanto di buono: un cono gelato regalato, un pacco spesa donato, cure e visite mediche gratuite, qualche ora della propria attività messa a disposizione dei meno abbienti.... tutto questo contribuisce a rendere visibilmente migliore la nostra società e a creare un clima di Solidarietà, Inclusione e Amore di cui c'è tanto, ma proprio tanto bisogno!

Marco

venerdì 12 dicembre 2014

“Torino, la mia Africa”

Ha lasciato il lavoro per dedicarsi ai più bisognosi. Paolo guida l'associazione Amici di Lazzaro e fa il missionario nelle zone degradate del capoluogo piemontese

Sognava di andare in missione nel Terzo Mondo. Poi ha scoperto che la sua Africa, le sue favelas sono qui in Italia. A Torino, tra mendicanti, tossici, senza fissa dimora e prostitute: Paolo Botti è per tutti loro una piccola stella cometa. Attraverso la sua associazione Amici di Lazzaro dal 1997 fino a oggi ha avvicinato migliaia di persone che hanno conosciuto degrado, solitudine, perdita della propria dignità. Persone sfruttate o abbandonate a sé stesse, incamminate verso un destino infelice e rinate grazie all'impegno di Paolo e della sua squadra di volontari: “Sin da giovanissimo – racconta – sentivo dentro di me solo un desiderio: fidarmi di Dio e vivere per il bene e per il Vangelo. Volevo occuparmi dei poveri, dei giovani, e offrire loro una speranza, una prospettiva di vita”.

Fare il volontario

La sua storia, in tempi di crisi occupazionale può sembrare paradossale. A 18 anni abita da solo e inizia a lavorare alla Comau, un azienda del gruppo Fiat, come progettista elettronico. Intanto si iscrive alla facoltà di informatica. Dopo qualche anno, però, lascia gli studi e appena ottenuta una promozione e un aumento di stipendio, decide di licenziarsi per abbracciare la sua vocazione.
Quando lavoravo facevo una vita da povero in un alloggio spartano, non avevo la tv, né l'automobile, nessuna spesa superflua, Poi ho deciso di licenziarmi, ho regalato tutto quello che mi restava, mobili, dischi, libri”. A quel punto Paolo va a vivere in una piccola comunità gestita a Torino dai padri gesuiti con i quali è già in contatto da tempo. Lavora con loro all'accoglienza prima di famiglie e profughi della guerra di Bosnia, poi di vittime di tratta africane e dell'est. “E' in quel contesto che ho trovato l'Africa e i poveri senza lasciare l'Italia. La mia condizione di partenza – racconta – non era di infelicità o insoddisfazione, anzi era proprio il mio essere felice che mi incoraggiava a condividere il mio star bene, dentro e fuori, con gli altri
.

Quelle notti alla stazione centrale della città

In quegli anni l'attività di Paolo non è solo circoscritta al supporto dei gesuiti all'interno dell'istituto. Porta con sé la vocazione del volontario itinerante. Inizia, così, ad accompagnare un padre gesuita francese durante le sue "spedizioni" settimanali alla stazione Porta Nuova.
Ho cominciato ad andare alla stazione per stare con i barboni”, ricorda. “Eravamo in cinque o sei, guidati da padre Jean-Paul. Una sera la settimana andavamo a trovarli, parlavamo con loro, cantavamo e pregavamo insieme, e alla fine si distribuivano cibo, bevande calde e vestiti”. Quando padre Jean-Paul lascia Torino, Paolo decide di intensificare la collaborazione con i gesuiti e fondare, al contempo, un associazione che si occupi dei bisognosi, andandoli a cercare alla stazione centrale e nelle periferie torinesi più degradate. Nasce così, nel 1997, Amici di Lazzaro, associazione formata da un gruppo di ragazzi dinamici, energici. Subito concentrano la loro attenzione su uno dei drammi peggiori di Torino, il mercato delle vittime di tratta, sopratutto giovanissime e donne nigeriane. Ne studiano i movimenti, tentano più volte il dialogo con le prostitute. Paolo si reca persino in Nigeria per inquadrare meglio le origini del fenomeno.

Aiuto concreto alle donne vittime di tratta

Dal 1999 iniziano le uscite notturne: gruppi di volontari, a turno, incontrano le ragazze e, tra le altre cose, le informano sulla possibilità, prevista dall'articolo 18 della legge 286 del 1998, di usufruire di un programma di protezione nel caso in cui denuncino gli sfruttatori. Ma entrare nel loro mondo non è semplice ed è anche molto rischioso. Gli Amici di Lazzaro si organizzano in unità di strada. Man mano si stabiliscono rapporti di fiducia e alcune di esse denunciano i loro protettori.
L'associazione avvia collaborazioni con il Comune, la Caritas e il gruppo Abele per creare una sorta di rete contro lo sfruttamento della prostituzione su tutto il territorio torinese. L'intesa è fruttuosa e alcune delle ragazze che si avvicinano agli Amici di Lazzaro si ritrovano libere e inserite in contesti di lavoro come colf, baby sitter oppure badanti.

Dio è accanto a lui

Col tempo i numeri crescono e ormai centinaia di donne ogni anno dialogano con i volontari dell'associazione. Sono aumentate le unità d'azione, rivolte anche ai senza dimora e ai bambini di strada costretti all'accattonaggio o a lavare i vetri ai semafori. Un avventura che per Paolo è diventata una ragione di vita e nella quale ha un compagno speciale, il Signore, che lo affianca quotidianamente.
Prego spesso e durante la giornata cerco di non far mancare letture spirituali, decine del rosario dette qua e là e tante preghiere brevissime che riempiono i momenti tra le tante cose da fare e da vivere. Ho avuto tante difficoltà, tanti problemi superati che ora mi sembrano piccoli, perchè vedo che mai sono stato abbandonato da Dio. Ora, quando mi si presenta davanti un dubbio o una difficoltà, mi chiedo: "Ti è mai mancato qualcosa? Ti ha mai lasciato solo Dio?" E la risposta è "No, non sono mai stato solo, mai mi è mancato qualcosa". Quindi vado avanti con fiducia”.

La Fede profonda di bisognosi e prostitute

Per Paolo “la Fede dei poveri in genere è più forte della nostra. Spesso si pensa che i poveri preghino o credano perchè hanno bisogno, in realtà credono e hanno Fede nonostante i loro bisogni. E tante volte io stesso e i nostri volontari siamo colpiti dalle preghiere di ringraziamento a Dio fatte dalle ragazze sfruttate, che in strada intonano i loro canti di grazie per la vita, per le cose che hanno, per l'Amore che ricevono... e noi sappiamo che hanno poco, che soffrono tanto, che vengono maltrattate e sfruttate, eppure ringraziano e sanno vedere il bene che c'è intorno a loro”.

Il dono della catechesi tascabile

La Fede, dunque, è punto in comune, un punto d'incontro tra l'azione di Paolo e chi vive sulla strada. La condivisione della Parola di Dio è un momento per avvicinarsi, per tendersi la mano reciprocamente.
Noto che i poveri hanno un idea di Dio semplice e nel mio piccolo cerco di dare loro strumenti per approfondire come preghiere o catechesi semplici di Benedetto XVI o di Papa Francesco nella loro lingua, dal cinese all'inglese, dall'arabo al francese. A tutti – conclude – dico di pregare per me e per l'associazione, perchè credo davvero che Dio ascolti il grido dei poveri”.

A SCUOLA DI INTEGRAZIONE

Dal giugno 2000 gli Amici di Lazzaro hanno avviato un corso gratuito di italiano per donne straniere di ogni provenienza e livello culturale. Oltre alle lezioni vengono proposte anche iniziative di aggregazione (gite, cene e incontri tra giovani italiani e stranieri), e di formazione culturale (diritti e doveri, visite a musei, mostre e monumenti) e spirituale (incontri con le comunità etniche torinesi, catechesi, la World's Prayer, preghiera collettiva mensile promossa dall'associazione).

GRUPPO STAZIONI, NON SOLO AIUTO MATERIALE

PortaNuova-binari. PortaSusa. PortaNuova-centro: sono questi i tre gruppi che operano tra i senzacasa nelle stazioni ferroviarie di Torino. E' qui che gli Amici di Lazzaro hanno iniziato ad ascoltare, parlare, cantare con chi vive senza una casa. Nelle due più importanti stazioni di Torino sono centinaia i senza dimora che ogni giorno chiedono aiuto. A loro si offre una coperta, un sacco a pelo, un vestito pulito.
Il nostro carisma – spiegano i volontari – non è offrire il semplice aiuto materiale, quanto il dare prima di tutto amicizia, preghiera, ascolto e attenzioni. E' poi dall'amicizia che si arriva anche all'aiuto materiale”.

CON I POVERI DI TRE CONTINENTI


Da aspirante missionario, Paolo Botti non poteva che dedicare una serie di progetti ad alcune delle zone più sofferenti del mondo. Gli Amici di Lazzaro sostengono iniziative in Europa, Asia e Africa. In Romania, a Timisoara, fanno da supporto a una casa per ragazzi abbandonati fondata dalla Caritas locale. In Iraq, a Baghdad, lavorano con una parrocchia che da aiuto materiale ai poveri del quartiere. In Egitto a ElMinia, aiutano Casa Letizia che si occupa di orfani e famiglie povere. Nel Sudan, a Rumbek, operano in progetti che mirano a portare l'acqua a piccoli ospedali e un progetto pastorale per l'educazione dei giovani. In Nigeria, a Lagos, è in cantiere un progetto di prevenzione della tratta, reinserimento di ragazze rimpatriate e appoggio a famiglie vittime di minacce.


Di Gelsonimo Del Guercio

FONTE: A Sua Immagine N. 99
29 novembre 2014


Una storia bellissima, che si commenta da sola.
Ragazzi, pensiamoci un attimo..... avere un buon lavoro (cosa al giorno d'oggi, tutt'altro che scontata), belle prospettive, una vita soddisfacente..... e nonostante questo lasciare tutto, per inseguire un sogno, un ideale, una vocazione..... e dedicarsi al prossimo, quello più disagiato, quello dei poveri, dei barboni, delle donne sfruttate. Ma l'Amore è anche questo, una forza irresistibile che ti porta a fare scelte anche radicali, lasciando la sicurezza per l'incertezza, la stabilità per l'incognita. Ma è grazie a persone come Paolo che la nostra società si regge ancora in piedi, a lui e quell'innumerevole stuolo di volontari, di cui si parla così poco, che dedicano tempo, energia e passione, laddove c'è bisogno, al prossimo bisognoso. E se non è Amore questo, allora cos'è?
Un grazie sentito a Paolo allora, alla sua splendida Associazione, e a tutti coloro che dedicano di loro stessi al prossimo e a Dio. Che mondo sarebbe questo senza di loro? Ma ci sono, grazie a Dio ci sono.... e sono molti di più di quanto si possa immaginare. Non dimentichiamocelo mai!

Marco