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mercoledì 22 settembre 2021

Sceglie di lasciare tutto e apre un ospedale per gli orfani in Kenia. La storia di Amy Hehe

Il coraggio e il grande cuore di una donna che ha scelto di dedicare la sua vita ai bambini

La storia di Amy Hehe dovrebbe essere divulgata con ogni mezzo in tutto il mondo. È la scelta di vita di una giovane donna americana che ha deciso di dar vita al suo sogno: quello di aiutare chi è malato ed ha bisogno.

Amy ha lasciato tutto per aprire un ospedale ed un centro di aiuto in Kenya. I suoi pazienti sono bambini rimasti orfani, e malati terminali. Persone cui la vita non ha certo presentato il suo lato migliore. A soli 13 anni Amy aveva già capito quale sarebbe stato il suo percorso di vita.

Mollare tutto e aprire un ospedale. Lasciare, lei nata e cresciuta nel ricco Kentucky, uno stile di vita pasciuto e dar vita a Ovi Children’s Hospital.
Al suo fianco c'è Rob, il marito, felice di condividere un progetto di vita che fa dell’aiuto concreto il suo significato più profondo.

Amy cura, assiste, e da speranza a tanti piccoli bambini affetti da malnutrizione, malaria, traumi di guerra, hiv. Creature che, senza il sostegno di questa grande donna, sarebbero abbandonate a loro stesse.

Sebbene questa vita è la realizzazione di un mio sogno, sono la prima ad ammettere che non è per niente facile” ha detto Amy in una recente intervista. L’ambiente del Kenya infatti, oltre a non essere un hotel a 5 stelle, presenta difficoltà ed insidie di ogni genere. Ecco perchè la scelta di mollare tutto ed aprire un ospedale ed un centro di assistenza rende questa storia unica e di assoluto valore.

Troppo spesso ci troviamo a parlare, commentare, suggerire e, perchè no, criticare. Tra tutti questi verbi ne manca uno. Fare!

Non volendoci accodare al coro di coloro che parlano e basta non possiamo che inchinarci di fronte ad esperienze come questa. Divulgarla, perchè possa essere da monito e spunto di riflessione.

15 dicembre 2019

FONTE: Notizie Cristiane

domenica 15 agosto 2021

In bici da Bergamo a Taranto: 33enne raccoglie 24mila euro per bimbi dell'ospedale jonico

Il biker Giuseppe Russo ha completato il percorso in 11 tappe e ha consegnato l'assegno per acquistare macchinari all'ospedale SS.Annunziata di Taranto

Un assegno di oltre 24mila euro, frutto delle donazioni raccolte durante il tour in bici Bergamo-Taranto, compiuto dal 2 al 12 ottobre scorsi, è stato consegnato questa mattina al primario del reparto di onco-ematologico pediatrica dell’ospedale SS. Annunziata di Taranto da Giuseppe Russo, 33enne originario di Massafra (Taranto) ma dal 2015 residente a Bergamo, promotore dell’iniziativa. Il biker ha realizzato l’impresa in 11 tappe ricevendo il sostegno della famiglia di Nadia Toffa, la co-conduttrice de «Le Iene» che fu madrina dell’altra iniziativa benefica avviata da «Tutti gli amici del mini bar» del rione Tamburi della vendita solidale delle magliette con la scritta
«Ie Jesche Pacce Pe Te». Russo ha raggiunto il reparto onco-ematologico pediatrico del SS. Annunziata dove è stato accolto dall’equipe medica e dal primario Valerio Cecinati, a cui ha consegnato l’assegno da 24.079,40 euro. Il ricavato dell’iniziativa sarà utilizzato per l’acquisto di materiale e di macchinari ad uso esclusivo del reparto onco-ematologico pediatrico.


9 novembre 2019

FONTE: La Gazzetta del Mezzogiorno

martedì 20 aprile 2021

Manda tutti i suoi risparmi all’amico: «Costruisce un ospedale in Africa»

Il ragazzo è arrivato in Italia sei anni fa e lavora come lavapiatti. È stato accolto da una famiglia che ha scoperto per caso il suo gesto: «L’ha fatto di nascosto, siamo fieri di lui»

È stato per caso. Sandra era alle prese con operazioni bancarie legate al suo conto corrente e ha scoperto che su quello di Tignate — il ragazzo ghanese che ospita a casa sua da cinque anni e che considera ormai suo figlio — non c’era più nemmeno un centesimo. Ma come? si è stupita e preoccupata allo stesso tempo. Non si sarà cacciato in qualche guaio... Tignate Kwajo, 27 anni, è assunto con un regolare contratto come lavapiatti in un ristorante della sua città, vicino Rimini. Non ha uno stipendio stellare, certo, ma ha abbastanza per vivere dignitosamente e mettere da parte qualcosa per il suo futuro. Da quando è arrivato a casa di Sandra ha sempre lavorato e si è sempre distinto come lavoratore serio e affidabile. E ora cosa stava succedendo? Non senza imbarazzo Sandra è stata costretta a chiedere chiarimenti. Che fine hanno fatto i tuoi soldi? gli ha domandato non sapendo più che cosa pensare. Gli occhi le sono diventati lucidi per l’emozione quando ha sentito la sua risposta. «Li ho mandati al mio amico medico, ne aveva bisogno perché sta costruendo una clinica a Techiman», ha detto lui vergognandosi per aver taciuto fino ad allora su quella donazione.

La notizia della laurea

Ottomila euro, tutti i suoi risparmi, sono bastati a costruire un edificio modesto che diventerà un piccolo ospedale, soprattutto per bambini, a Techiman, appunto, la comunità da cui Tignate è partito quando ha deciso di venire a cercare fortuna in Europa. Sootey Tirbantey, il suo miglior amico, lo aveva salutato con un abbraccio. Lo ha stretto forte a sé prima di vederlo andar via, nel 2013. «Vai, amico mio, buona fortuna». Lui sarebbe rimasto lì a provare la via dello studio per aiutare la sua gente. Tignate ha saputo via WhatsApp che ce l’ha fatta: si è laureato in medicina. E per dargli una mano ha deciso di mandargli i suoi risparmi, appunto. La clinica di Sootey sarà operativa da giugno, intanto lui manda fotografie per mostrare al suo finanziatore l’avanzamento dei lavori.

L’infanzia insieme

Sono amici da una vita, Tignate e Sootey. Giocavano assieme da bambini, sono cresciuti a un passo l’uno dall’altro e quel ragazzo che da piccolo sognava di fare il medico, che tante volte aveva dato una mano a lui, adesso è l’unica persona cara che gli sia rimasta laggiù. Tignate non ha mai conosciuto sua madre, morta quando lui è nato e la scuola per lui è finita in seconda elementare. Suo padre, morto quando lui aveva 14 anni, non poteva permettersi di più. Quel ragazzino rimasto solo ha provato a costruire il suo futuro in quelle terre polverose, ma ha capito presto che doveva cercare altrove le sue opportunità. Così nel 2013, a 21 anni, ha deciso di andare via dal Ghana per raggiungere la Libia e, da lì, quella lunga striscia di terra promessa di cui aveva tanto sentito parlare, l’Italia. Un viaggio lunghissimo al limite della vita: passando per il Burkina Fasu, il Niger, il deserto e finalmente la Libia. Dieci mesi ad aspettare l’imbarco assieme a migliaia di altri disperati come lui finché un giorno non l’hanno messo su una bagnarola che ha passato il Mediterraneo ed è arrivata a Lampedusa.

Una nuova casa

All’inizio lo hanno accolto i ragazzi della comunità Papa Giovanni XXIII, poi la famiglia di Sandra. Lei (che di cognome fa Talacci e ha 52 anni) e suo marito Alfredo Magnanelli, 50 anni, hanno tre figli (23, 18 e 13 anni) e la loro casa è sempre stata un posto accogliente: prima di Tignate per 23 anni è rimasta con loro fino all’ultimo dei suoi giorni una ragazza dalla salute gravemente compromessa. E adesso è dal 1 maggio del 2015 che ospitano il ragazzo ghanese. «Sono fiera di te» gli ha detto Sandra dopo aver scoperto della sua donazione all’amico. La clinica è quasi pronta, Sootey infilato in un camice bianco sorride da una fotografia inviata via WhatsApp. Tignate, adesso sì, può pensare a se stesso.


di Giusi Fasano

17 aprile 2019

FONTE: Corriere della Sera

sabato 27 marzo 2021

Silvio Irilli, coloro gli ospedali per aiutare a vincere la paura

Stanze grigie e anonime possono trasformarsi in una cascata di colori ed emozioni capaci di far tornare il sorriso ai bambini che devono effettuare il prelievo o una radioterapia. La sua professione la vive un po' come una missione Silvio Irilli, artista che dipinge gli ospedali per aiutare a vincere la paura.

Dal Fazzi di Lecce e il Monaldi di Napoli all'Istituto Nazionale Tumori di Milano, 15 ospedali diversi, per un totale di 3000 metri quadri sono stati dipinti in 9 anni da nord a sud Italia. “Con i colori, le emozioni e la fantasia, riporto l'umanità in ospedale”, racconta all'ANSA.
Originario di Chieri, in provincia di Torino, Silvio dipinge da trent'anni. “Ho iniziato da bambino a disegnare, a 21 anni ho iniziato a lavorare come illustratore nel settore dell'editoria, nel 2008 fui chiamato a dipingere 350 metri quadri del soffitto dell'ingesso dell'aquario di Atlanta, negli Stati Uniti, visitato da 3 milioni di persone ogni anno”. E' nato così il tema marino che lo ha fatto conoscere nel mondo, ma la svolta professionale è stata nel 2011, quando è stato chiamato dal Policlinico Gemelli per dipingere un corridoio di radioterapia oncologica.I medici - ricorda Silvio - mi chiesero di provare a dare un'accoglienza diversa ai piccoli malati oncologici. L'obiettivo era creare interazione tra ambiente e paziente, in un luogo normalmente associato a ansia o tristezza”. Di qui è iniziato un lavoro per dipingere 300 metri quadri di soffitto e pareti con onde, stelle marine, delfini e tartarughe sorridenti. E i risultati sono stati incredibili. “I bambini si trovano in un ambiente a loro misura e quando tornano a casa dicono ai genitori che non vedono l'ora di tornare nel sottomarino del Gemelli”.
Questo è diventato un supporto anche per i medici. “I dottori mi hanno spiegato di esser risusciti ad acquisire la fiducia dei pazienti, in alcuni casi non è stato necessario addormentare i bimbi per effettuare la radioterapia, andando oltre ogni aspettativa”.

Da qui, nel 2012, è nato il progetto "Ospedali dipinti", che in questi anni ha permesso di trasformare in un bosco incantato il corridoio dell'Ospedale Regina Margherita di Torino o ambientare in un acquario il pronto Soccorso di Novara, ancora, portare Villa Adriana dentro la sala bunker di radioterapia del Gemelli.
I temi da rappresentare nelle creazioni nascono da un colloquio realizzato con dottori e associazioni che prendono in carico il progetto. Le immagini vengono dipinte in studio e stampate su carta da parati o pellicola adesiva lavabile e certificata per l'uso ospedaliero. “Questo - spiega - consente una grande velocità nel trasformare i reparti, cosa impossibile se fosse tutto dipinto in loco, perché il reparto diventerebbe un cantiere per settimane. Invece nel giro di un weekend riusciamo magicamente a rivoluzionare un ambiente. Poi i dipinti vengono rifiniti a mano”.

A rendere possibile tutto questo è l'aiuto di onlus, fondazioni e privati che vogliono donare reparti dipinti a strutture ospedaliere. In questo modo, sottolinea, “le strutture pubbliche non debbono spendere soldi per la decorazione dei reparti”. E i progetti non mancano. A febbraio Irilli sarà all'Ospedale di Messina per realizzare l'Isola del Sorriso nel reparto di Neuropsichiatria, in collaborazione con l'associazione ABC Amici dei Bimbi in Corsia e con il contributo di Msd Italia. Quindi a Taranto, per terminare le stanze di degenza del reparto di Oncoematologia, che sarà intitolato a Nadia Toffa. “Il mio obiettivo - conclude - è aiutare più bambini possibili a vincere le paure e farli continuare a sognare anche in ospedale. Magari, in futuro, rendendo le mie opere anche interattive”.

10 dicembre 2019

FONTE: Ansa Salute&Benessere

lunedì 8 marzo 2021

L’ospedale gioiello che cura i bambini nel paese che non c’è, il Somaliland

Nel pacifico Somaliland, non riconosciuto dalla comunità internazionale, funziona il Mas Children Hospital di Hargeisa. È l’unico del Corno orientale che cura bambini altrimenti destinati a morire. Un gioiello africano gestito da africani

E se non c’è l’incubatrice? «Usiamo il metodo di mamma canguro». Ogni tanto succede, racconta la dottoressa Khadra: arrivano i neonati prematuri in apnea, «non pesano neanche un chilo», ma in ospedale non c’è un apparecchiatura dove metterli. «Allora ricorriamo al metodo più naturale ed efficace: li avvolgiamo in un marsupio di pezze e li lasciamo tutto il giorno sul petto della madre, pelle a pelle…». Funziona? «Deve funzionare. Perché fare il medico qui è una questione d’energia e di fantasia».

Qui è il Mas Children Hospital di Hargeisa, capitale del Somaliland. Un gioiello africano, gestito da medici africani. L’unico del Corno Orientale in grado di ricoverare bambini destinati, altrimenti, a morte sicura. Sei pediatri diretti da Khadra Ibrahimi, 45 anni, studi a Roma e specialistica al Sant’Anna di Torino, tornata a casa quattro anni fa per dare una mano. E costruire questo progetto Mas, sigla dedicata a Mohamed Aden Sheikh: un medico esiliato dal dittatore somalo Siad Barre, che negli Anni 90 faceva il consigliere comunale a Torino e che prima di morire, rincasato nel Somaliland indipendente, non riuscì per pochi mesi a vedere la posa dell’ultima pietra: «Da queste parti - spiega Khadra - avere un ospedale specialistico è una cosa rarissima. Eppure è utile come e più degli ospedali tradizionali. Perché una volta bisognava andare in Europa, per certe cure».

Cinque anni d’attività, 60 mila bambini curati gratis, chirurgia plastica e pediatrica, otorino e ortopedia, un’équipe tutta locale istruita dai medici del Regina Margherita di Torino. Da un mese il Mas ha aperto anche un blocco operatorio e una terapia intensiva, altri tre anni di training d’una missione internazionale diretta dal professor Piero Abbruzzese, anima italiana dell’ospedale, pioniere della cardiochirurgia infantile, ora direttore scientifico dell’onlus Marco Berry e consulente del governo di Hargeisa: «Quando sono arrivato, nel 2011, non c’era niente. Mi è piaciuta subito l’idea d’un ospedale che funziona, più che su un generico concetto di carità, sulla solidarietà consapevole verso un Paese ignorato dal mondo».

L’ospedale che c’è nel Paese che non c’è. Perché il pacifico Somaliland è un paradosso geopolitico, non riconosciuto dalla comunità internazionale che da sempre copre d’aiuti la vicina Somalia degli shebab e delle corti islamiche. Da un quarto di secolo indipendente da Mogadiscio - una guerra che costò centinaia di migliaia di morti, un milione di profughi, Hargeisa rasa al suolo dalle bombe di Siad Barre - il Somaliland oggi ha moneta, esercito, governo. Ed è un piccolo miracolo di stabilità africana: le ultime elezioni si sono svolte senza sparatorie. Terra poverissima, i 4 milioni d’abitanti vivono di rimesse degli emigrati e d’un po’ di bestiame venduto ai ricchi del Golfo.

Poche cose danno orgoglio come l’ospedale Mas: «Nessuno ci riconosce come Stato - sorride Khadra - ma i pazienti ce li mandano, eccome...». Pur fra mille problemi: i blackout, da rimediare coi generatori; l’acqua, che manca in metà capitale; stipendi e forniture da pagare, «abbiamo raccolto 200 mila dollari di beneficenza, ma non bastano mai». E soprattutto i pezzi di ricambio: «Se si rompe una macchina per l’anestesia, come la ripari? L’ultima volta è venuto un volontario da Firenze. Ma ora vorremmo formare tecnici nostri». Indipendenza, autonomia. Al professor Abbruzzese, per riconoscenza, è stato appena dedicato il nuovo padiglione chirurgico: «Glielo dovevamo. Voi italiani fate tanto per noi. Ma noi lo sappiamo: un giorno l’Africa dovrà imparare ad aiutarsi da sola».


di Francesco Battistini

8 gennaio 2018

FONTE: Corriere della Sera

domenica 21 febbraio 2021

Sacerdoti in corsia nei reparti Covid. Il conforto dei Sacramenti e una parola di speranza

I racconti dei sacerdoti impegnati in servizio nei reparti ospedalieri Covid raccolti dal giornale diocesano "La Libertà" di Reggio Emilia-Guastalla. Sono una ventina in tutto i preti che hanno chiesto e ottenuto di entrare nei reparti Covid per portare il conforto dei sacramenti e una parola di speranza negli ospedali di Reggio Emilia, Guastalla e Scandiano. Un segno di consolazione divenuto concreto grazie a una convenzione firmata dal direttore generale dell’Ausl-Irccs di Reggio Emilia Cristina Marchesi e dal pastore della Chiesa reggiano-guastallese Massimo Camisasca

A volte basta poco per cambiare l’umore di qualcuno. Più volte colgo in me il forte desiderio di poter fare tutto il possibile per rendere gli altri contenti; anche aiutando a vedere la stessa realtà ma con l’ottimismo di chi il bicchiere lo vede mezzo pieno, anziché mezzo vuoto. È prevalso il tempo trascorso nelle camere fra un malato e l’altro, soprattutto per ascoltare i loro racconti; sedersi accanto (nella distanza di sicurezza concessa) per immergersi nei loro ricordi e passioni, essere coinvolti dai loro sogni, desideri e progetti, ma anche condividere e giustificare le loro paure e fatiche. In quei momenti mi è stato concesso di essere una presenza importante mandata dalla Provvidenza; un vero e proprio strumento del Signore inviato lì per infondere calore e per garantire a quel malato il sostegno donato da una presenza umana e divina insieme”. Con queste parole don Giuliano commenta sul giornale diocesano di Reggio Emilia-Guastalla, “La Libertà ”, il suo servizio in un reparto ospedaliero Covid.

Nulla di speciale, in fondo: prendersi cura di un bisognoso ci permette di sperimentare quanto nel Vangelo ci viene raccontato del buon samaritano: modello di vita da fare nostro sempre, al di là di ogni nostra specifica vocazione”, aggiunge il sacerdote, che è collaboratore nell’unità pastorale "Regina della Pace" di Casalgrande e Salvaterra (Reggio Emilia). E come don Giuliano ci sono altri presbiteri, una ventina in tutto, che hanno chiesto e ottenuto di entrare nei reparti Covid per portare il conforto dei sacramenti e una parola di speranza negli ospedali di Reggio Emilia, Guastalla e Scandiano:

6 giorni su 7, con turni dalle 13 alle 20, nella più rigorosa osservanza dei controlli a cui essi per primi si sottopongono e nel rispetto della libertà di coscienza dei cittadini. Un segno di consolazione divenuto concreto grazie a una convenzione firmata dal direttore generale dell’Ausl-Irccs di Reggio Emilia Cristina Marchesi e dal pastore della Chiesa reggiano-guastallese Massimo Camisasca.

È stata ed è per me una priorità in questo tempo di Coronavirus, sia durante la prima che la seconda ondata della pandemia, assicurare la presenza di sacerdoti all’interno degli ospedali”, afferma mons. Camisasca. E aggiunge:

Garantire la vicinanza di un prete a chi è gravemente malato o sta morendo è la più alta forma di carità che la Chiesa possa esprimere. Accompagnare chi muore all’ultimo passo è il dono più importante che possiamo fare ai nostri fratelli. Non c’è infatti solitudine più grande di quella della morte. La presenza del sacerdote alimenta la speranza che l’incontro con Dio sia un incontro vitale, rappresenti l’inizio di una nuova vita”.

L’idea iniziale, maturata anche grazie alla testimonianza di don Alberto Debbi, pneumologo tuttora operante a chiamata presso l’Ospedale di Sassuolo, ha incontrato l’appoggio dei vertici dell’Ausl-Irccs. Sono seguite, da parte della Chiesa diocesana, le richieste di disponibilità ai sacerdoti, individuando come potenzialmente idonei quelli di età inferiore ai 60 anni. Quanti hanno risposto all’appello hanno subito intrapreso un cammino di formazione online; insieme ai preti disponibili, agli incontri preparatori partecipano sia funzionari dell’Azienda sanitaria, che ne curano l’addestramento, sia membri di un’équipe diocesana, che offre un percorso di sostegno.
Offrire un supporto psicologico e spirituale – sottolinea mons. Alberto Nicelli, vicario generale – può costituire un sollievo in primo luogo per i malati; la presenza dei sacerdoti dà poi sostegno alla loro comunicazione, attraverso telefoni e tablet, con i familiari lontani; rappresenta altresì un aiuto al personale medico-sanitario, affaticato e spesso provato in prima persona dal virus”.

Azienda sanitaria e diocesi hanno condiviso la consapevolezza che l’assistenza spirituale può essere in tantissimi casi un “quid” che si aggiunge alle competenze scientifiche e all’azione terapeutica.


di Edoardo Tincani

13 febbraio 2021

FONTE: La difesa del popolo

venerdì 3 aprile 2020

Emergenza Coronavirus: gli alpini del Veneto rimettono in piedi 5 ospedali in 5 giorni


Gli alpini compiono un piccolo “miracolo” ripristinando 5 ospedali in 5 giorni, per far fronte all’emergenza. Le strutture ospedaliere in questione sono quelle di Monselice, Bussolengo, Zevio, Valdobbiadene e Isola della Scala.

Quando il territorio ha bisogno, gli alpini rispondono sempre per senso di responsabilità e abnegazione. Anche durante l’emergenza coronavirus non si sono certo risparmiati e hanno compiuto un “piccolo miracolo”.

Stiamo parlando degli alpini della Protezione Civile Ana Veneto che si sono occupati di ripristinare il corretto funzionamento di cinque strutture ospedaliere in ben cinque giorni.

L’INTERVENTO

Gli alpini sono intervenuti sistemando alcuni aspetti strutturali e non solo, delle strutture ospedaliere mal messe. Sono stati necessari lavori di routine come sistemare il corretto funzionamento dei servizi igienici, ascensori, impianti di ossigenazione e condizionamento.

Inoltre sono stati trasportati anche letti da altre strutture che, sanificati e sistemati, ora sono pronti per accogliere altri pazienti che necessitano di cure.

A rendere noto tutto questo è stato Bruno Cosato, un ex imprenditore ora a capo della Protezione Civile Ana di Treviso. Come responsabile ha raccontato degli alpini e del loro spirito collaborativo.

Vista la necessità, infatti, loro non si sono certo risparmiati e si sono adoperati per sopperire a tutte le necessità del territorio, lavorando sempre con determinazione, pazienza e, soprattutto, coraggio.

I RISULTATI

L’intervento in tempi record non ha previsto soste e limiti di orario. Sono serviti solo cinque giorni per rimettere a nuovo strutture, letti e impianti. Il tutto, ovviamente, si è svolto coadiuvando il lavoro dei tecnici come idraulici ed elettricisti.

Chiaramente gli alpini sono stati ligi al dovere. Infatti hanno seguito tutte le disposizioni governative relative all’utilizzo delle precauzioni. Quindi tutti con mascherine e a dovuta distanza di sicurezza.

Grazie agli alpini, ora gli ospedali potranno ospitare altri 740 pazienti e arginare, per quanto possibile, l’emergenza. Regalare un segno di speranza in questo periodo così buio, è possibile, basta solo volerlo.


27 marzo 2020

FONTE: Pane e Circo