lunedì 8 marzo 2021

L’ospedale gioiello che cura i bambini nel paese che non c’è, il Somaliland

Nel pacifico Somaliland, non riconosciuto dalla comunità internazionale, funziona il Mas Children Hospital di Hargeisa. È l’unico del Corno orientale che cura bambini altrimenti destinati a morire. Un gioiello africano gestito da africani

E se non c’è l’incubatrice? «Usiamo il metodo di mamma canguro». Ogni tanto succede, racconta la dottoressa Khadra: arrivano i neonati prematuri in apnea, «non pesano neanche un chilo», ma in ospedale non c’è un apparecchiatura dove metterli. «Allora ricorriamo al metodo più naturale ed efficace: li avvolgiamo in un marsupio di pezze e li lasciamo tutto il giorno sul petto della madre, pelle a pelle…». Funziona? «Deve funzionare. Perché fare il medico qui è una questione d’energia e di fantasia».

Qui è il Mas Children Hospital di Hargeisa, capitale del Somaliland. Un gioiello africano, gestito da medici africani. L’unico del Corno Orientale in grado di ricoverare bambini destinati, altrimenti, a morte sicura. Sei pediatri diretti da Khadra Ibrahimi, 45 anni, studi a Roma e specialistica al Sant’Anna di Torino, tornata a casa quattro anni fa per dare una mano. E costruire questo progetto Mas, sigla dedicata a Mohamed Aden Sheikh: un medico esiliato dal dittatore somalo Siad Barre, che negli Anni 90 faceva il consigliere comunale a Torino e che prima di morire, rincasato nel Somaliland indipendente, non riuscì per pochi mesi a vedere la posa dell’ultima pietra: «Da queste parti - spiega Khadra - avere un ospedale specialistico è una cosa rarissima. Eppure è utile come e più degli ospedali tradizionali. Perché una volta bisognava andare in Europa, per certe cure».

Cinque anni d’attività, 60 mila bambini curati gratis, chirurgia plastica e pediatrica, otorino e ortopedia, un’équipe tutta locale istruita dai medici del Regina Margherita di Torino. Da un mese il Mas ha aperto anche un blocco operatorio e una terapia intensiva, altri tre anni di training d’una missione internazionale diretta dal professor Piero Abbruzzese, anima italiana dell’ospedale, pioniere della cardiochirurgia infantile, ora direttore scientifico dell’onlus Marco Berry e consulente del governo di Hargeisa: «Quando sono arrivato, nel 2011, non c’era niente. Mi è piaciuta subito l’idea d’un ospedale che funziona, più che su un generico concetto di carità, sulla solidarietà consapevole verso un Paese ignorato dal mondo».

L’ospedale che c’è nel Paese che non c’è. Perché il pacifico Somaliland è un paradosso geopolitico, non riconosciuto dalla comunità internazionale che da sempre copre d’aiuti la vicina Somalia degli shebab e delle corti islamiche. Da un quarto di secolo indipendente da Mogadiscio - una guerra che costò centinaia di migliaia di morti, un milione di profughi, Hargeisa rasa al suolo dalle bombe di Siad Barre - il Somaliland oggi ha moneta, esercito, governo. Ed è un piccolo miracolo di stabilità africana: le ultime elezioni si sono svolte senza sparatorie. Terra poverissima, i 4 milioni d’abitanti vivono di rimesse degli emigrati e d’un po’ di bestiame venduto ai ricchi del Golfo.

Poche cose danno orgoglio come l’ospedale Mas: «Nessuno ci riconosce come Stato - sorride Khadra - ma i pazienti ce li mandano, eccome...». Pur fra mille problemi: i blackout, da rimediare coi generatori; l’acqua, che manca in metà capitale; stipendi e forniture da pagare, «abbiamo raccolto 200 mila dollari di beneficenza, ma non bastano mai». E soprattutto i pezzi di ricambio: «Se si rompe una macchina per l’anestesia, come la ripari? L’ultima volta è venuto un volontario da Firenze. Ma ora vorremmo formare tecnici nostri». Indipendenza, autonomia. Al professor Abbruzzese, per riconoscenza, è stato appena dedicato il nuovo padiglione chirurgico: «Glielo dovevamo. Voi italiani fate tanto per noi. Ma noi lo sappiamo: un giorno l’Africa dovrà imparare ad aiutarsi da sola».


di Francesco Battistini

8 gennaio 2018

FONTE: Corriere della Sera

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