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mercoledì 22 settembre 2021

Sceglie di lasciare tutto e apre un ospedale per gli orfani in Kenia. La storia di Amy Hehe

Il coraggio e il grande cuore di una donna che ha scelto di dedicare la sua vita ai bambini

La storia di Amy Hehe dovrebbe essere divulgata con ogni mezzo in tutto il mondo. È la scelta di vita di una giovane donna americana che ha deciso di dar vita al suo sogno: quello di aiutare chi è malato ed ha bisogno.

Amy ha lasciato tutto per aprire un ospedale ed un centro di aiuto in Kenya. I suoi pazienti sono bambini rimasti orfani, e malati terminali. Persone cui la vita non ha certo presentato il suo lato migliore. A soli 13 anni Amy aveva già capito quale sarebbe stato il suo percorso di vita.

Mollare tutto e aprire un ospedale. Lasciare, lei nata e cresciuta nel ricco Kentucky, uno stile di vita pasciuto e dar vita a Ovi Children’s Hospital.
Al suo fianco c'è Rob, il marito, felice di condividere un progetto di vita che fa dell’aiuto concreto il suo significato più profondo.

Amy cura, assiste, e da speranza a tanti piccoli bambini affetti da malnutrizione, malaria, traumi di guerra, hiv. Creature che, senza il sostegno di questa grande donna, sarebbero abbandonate a loro stesse.

Sebbene questa vita è la realizzazione di un mio sogno, sono la prima ad ammettere che non è per niente facile” ha detto Amy in una recente intervista. L’ambiente del Kenya infatti, oltre a non essere un hotel a 5 stelle, presenta difficoltà ed insidie di ogni genere. Ecco perchè la scelta di mollare tutto ed aprire un ospedale ed un centro di assistenza rende questa storia unica e di assoluto valore.

Troppo spesso ci troviamo a parlare, commentare, suggerire e, perchè no, criticare. Tra tutti questi verbi ne manca uno. Fare!

Non volendoci accodare al coro di coloro che parlano e basta non possiamo che inchinarci di fronte ad esperienze come questa. Divulgarla, perchè possa essere da monito e spunto di riflessione.

15 dicembre 2019

FONTE: Notizie Cristiane

giovedì 22 luglio 2021

Aiuta concretamente un bambino africano

L'Uganda é uno dei paesi più belli dell'Africa. Alcuni luoghi sono stati dichiarati patrimonio dell'umanità e ha ben 9 parchi naturali con leoni, antilopi, elefanti, gorilla e molti altri animali. Le sue bellezze naturali comprendono la savana, il lago Victoria, l'imponente massiccio montuoso Ruwenrozi. Il paese ha 44 milioni di abitanti e più della metà sono adolescenti al di sotto dei 15 anni. Quasi il 90 % della popolazione é di fede cristiana.
L'Uganda, che nei secoli passati ha avuto importanti regni, venne raggiunta nel 1875 dall'esploratore inglese Stanley e nel 1894 divenne un protettorato britannico. Nel 1962 ottenne l'indipendenza dal Regno Unito e da allora ha attraversato varie situazioni storiche drammatiche tra cui due guerre.

Attualmente l'Uganda ha varie situazioni problematiche tra le quali l'emergenza Covid che nonostante le misure di sicurezza e i vaccini deve ancora essere debellato così come non é stato ancora debellato in Italia, la povertà che colpisce milioni di persone adulte e bambini, la diffusione dell'Aids: 25 milioni di persone sono sieropositive anche se c'é una campagna di informazioni per tentare di bloccare l'ulteriore espansione della malattia.
A causa di conflitti, Aids e povertà ci sono in Uganda molti bambini orfani. E proprio per dare un futuro sereno, educazione e protezione ai bambini orfani il signor Moses Omara, un maestro di Storia e materie letterarie, assistente sociale, con varie, importanti esperienze di lavoro in associazioni internazionali tra le quali la FAO, ha fondato SORD (Stanford Foundation for Orphans and Rural development) che tradotto in italiano vuol dire Fondazione Stanford per gli orfani e lo sviluppo rurale. L' associazione ha fondato due scuole, una scuola a Kawenze, un distretto di Kampala, la capitale dell'Uganda e un'altra ad Amotalar, nel nord del paese, per i bambini orfani. Con il signor Omara collaborano alcuni determinati volontari, uomini e donne, sia ugandesi, sia inglesi e canadesi. Moses Omara ci racconta anche dell'amicizia tra SORD e due associazioni di volontariato in Italia: Friends and Bikers for Africa Onlus di Napoli, fondata da Francesco Maglione, di cui hanno scritto varie riviste tra cui "Famiglia Cristiana", che ha supportato le attività scolastiche della scuola di Kawempe dal 2018 al 2020 e Twins & Moto Club sempre di Napoli di Davide Liccardo che ha collaborato a costruire un'aula scolastica sempre a Kawempe. Inoltre Moses Omara ha intenzione se ci saranno altri volontari e volontarie italiani nelle due scuole di inserire nel programma di studi anche la nostra lingua e la nostra cultura. Già alcuni bambini stanno imparando il francese.
Quindi SORD ha un ottimo rapporto con l'Italia che speriamo diventi sempre più stretto in futuro.
Un altro progetto di SORD é stato donare ai bambini una capra. Avere una capra é molto importante per i bambini che vivono in zone povere e rurali perché assicura una quantità giornaliera di latte, elemento fondamentale dell'alimentazione sana dei bambini. Un altro progetto che si é attuato é stato piantare alberi per preservare l'ambiente che purtroppo é molto inquinato.

Le scuole di SORD sono non solo luogo di studio, di apprendimento, di socializzazione per i bambini orfani ma anche le loro abitazioni dove sono trattati con umanità e affetto fraterno. Inoltre i bambini saranno aiutati anche quando saranno più adulti e seguiti per ottenere un lavoro da loro scelto che garantirà loro l'indipendenza economica. Le lezioni si svolgono solo in lingua inglese. L'inglese e lo swahili sono le lingue ufficiali parlate in Uganda dove ci sono anche numerose lingue locali. Conoscere molto bene l'inglese offre l'opportunità di poter ottenere in futuro lavori qualificati e di poter comunicare molto di più. Moses Omara e sua moglie sono devoti cristiani e hanno tre figli.
SORD ha una bella pagina FB pubblica e un bel sito online dove in inglese si racconta la storia dell'associazione, dei volontari, si forniscono chiare informazioni, si spiegano le finalità delle scuole.
Nella pagina fb ci sono anche le fotografie di alcuni bambini e si raccontano le le loro storie. Frequentano le scuole più di 200 bambini e bambine di varie fasce d'età, dai 3 ai 15 anni e di diverse classi scolastiche, come ad esempio Abi, una bambina di 5 anni, Natasha di 8 anni, Emmanuel di 15 anni di cui possiamo vediamo le foto, sorridenti.
La nuova scuola di Amotalar ha urgentemente bisogno di utensili essenziali come scrivanie per gli studenti per un costo totale di 2.300 euro, letti per un costo totale di 2.100 euro, materassi per un costo totale di 1.000 euro.
Ogni donazione sarà di grande aiuto, si può avere le informazioni su come farla scrivendo un email a: info@sorduganda.org

Aiutare concretamente un bambino secondo le proprie possibilità, sia con una piccola sia con una grande donazione (ad esempio una signora ha donato 7 tablet ai bambini per poter studiare qualche tempo fa) sarà un vero, aiuto concreto. I bambini hanno bisogno di molte cose ma come ha comunicato Moses Omara stesso, scrivanie, letti e materassi sono ora gli utensili più urgenti che la scuola deve acquistare.

Aiutare concretamente un bambino vuol dire andare a dormire con la coscienza serena, soddisfatti che se un bambino avrà un letto con un materasso per dormire e una scrivania per studiare questo sarà dipeso anche da noi. Si tratta di necessità vitali che la nostra umanità, coscienza e senso della giustizia reclamano per tutti i bambini del pianeta.
Aiutiamo oggi i bambini orfani delle scuole della Fondazione Stanford.


di Lavinia Capogna

22 luglio 2021

mercoledì 7 aprile 2021

Alain, l'educatore nel pallone che salva i bimbi di Yaoundé

Arrivato in Italia col sogno del calcio e abbandonato dal procuratore senza scrupoli si ritrovò abbandonato e senza soldi. L'incontro con un prete e una comunità lo ha fatto rinascere

Alain sognava quello che sognano tanti bambini africani vedendo giocare i campioni di pelle nera applauditi dai tifosi negli stadi italiani: diventare uno di loro. Le premesse sembravano esserci: giocando nella scuola di calcio Des Brasseries du Camerun nel capoluogo della provincia dell’Ovest, era stato notato da un procuratore che gli aveva fatto balenare un futuro stellare.

Per questo quando aveva solo 15 anni era venuto in Italia con un visto turistico. Qualche provino, poi un giorno un colloquio del procuratore con il manager di una squadra. La prima domanda non è "come si chiama", non è "da dove viene", ma "quanto costa il ragazzo?".

Comincia a giocare nel Brera Calcio, una squadra milanese che milita nella categoria Promozione. Ma mentre il sogno sembra prendere forma, un brutto infortunio lo costringe in ospedale per otto mesi. Lui non demorde, troppo forte è la passione per il calcio, troppo forte il desiderio di sfondare e diventare un campione. Torna a giocare, ma quando il procuratore che aveva alimentato i suoi sogni lo abbandona, Alain si ritrova solo, senza neppure il biglietto aereo per tornare in Camerun da sua madre e dai suoi dodici fratelli.

Un giorno mentre vaga sconsolato per Milano entra nell’oratorio di Lambrate, un quartiere alla periferia della città, per tirare due calci al pallone con altri ragazzi. Conosce il prete che segue i giovani, don Claudio Burgio, gli confida i suoi sogni e la sua amarezza, il sacerdote cerca ospitalità per lui in alcune famiglie della parrocchia che a turno lo accolgono nelle loro case.

«Sono state la mia ancora di salvezza, la mia seconda famiglia – racconta Alain – . Grazie a loro ho ricominciato gli studi e ho trovato una strada per me».

È dall’esperienza di ospitalità condivisa tra quel gruppo di famiglie che nel 2000 è nata Kayròs, una comunità di accoglienza per minori in difficoltà diretta da don Burgio. Lui è stato il primo ospite, oggi sono una cinquantina i giovani che vivono insieme a Vimodrone, alle porte di Milano.

Ora Alain Ngaleu ha 37 anni, è sposato e ha tre figli, è diventato cittadino italiano, lavora come educatore nella comunità che lo aveva accolto, ma la passione per il calcio non ha smesso di scorrere nelle vene.
Da quella passione alcuni anni fa è nata la decisione di prendere il patentino da allenatore e di metterlo a frutto nel suo Paese. Con l’aiuto di alcuni amici ha raccolto magliette, palloni e scarpette, ha caricato tutto in un container, è tornato in Camerun e nella capitale Yaoundé ha aperto Kayròs Camerun, un luogo dove da dieci anni centinaia di giovani imparano a giocare a pallone, vengono aiutati negli studi e accompagnati a trovare lavoro.

Qualcuno ha pure fatto carriera: uno ha partecipato ai campionati mondiali in Brasile under 17 nel 2019, uno gioca nel campionato professionistico camerunense ed è stato selezionato per la nazionale.

Alain non nasconde la soddisfazione per questi risultati, ma ha fatto tesoro della sua storia. «L’esperienza fatta con don Burgio e gli amici della comunità Kayròs è stata decisiva – racconta –. Ho imparato che le passioni vanno assecondate ma senza che ti facciano andare fuori di testa diventando un assoluto. Non bisogna mai smettere di sognare evitando però che il sogno porti fuori dalla realtà, come è accaduto a tanti ragazzi inseguendo il mito di diventare come Eto’o, il mio connazionale più famoso, e di fare soldi a palate. Ci sono ragazzini che si mettono in mano a gente senza scrupoli che sfrutta le loro attese illudendoli di ottenere un facile successo e poi li molla, lasciandoli magari a chiedere l’elemosina sulle strade per poter campare. I giovani hanno bisogno di qualcuno che scommetta su di loro e sappia proporre una strada positiva da seguire, seguendola lui per primo. Come è capitato a me incontrando don Claudio, che mi ha preso per mano e mi ha aiutato a capire che la vita è più grande di un pallone».


di Giorgio Paolucci

29 dicembre 2020

FONTE: Avvenire

martedì 11 febbraio 2020

Jonah, il ragazzino prodigio dell’uncinetto sta raccogliendo migliaia di dollari per gli orfani dell’Etiopia, un punto alla volta


Lui si chiama Jonah Larson ed è un bambino come tanti se non fosse per una particolarità: a soli 5 anni ha imparato l’arte dell’uncinetto da autodidatta guardando dei video tutorial su Youtube e oggi, che di anni ne ha 11, è considerato un vero e proprio prodigio.

La prima creazione, che fece quando aveva ancora 5 anni, fu uno strofinaccio, e da allora non si è più fermato per merito sia della sua passione che delle donazioni di materiale da parte di numerosi fan. Donazioni che lo hanno incoraggiato ad andare avanti e per le quali Jonah è molto grato. A tal punto da voler fare qualcosa di altrettanto generoso per altri bambini, quelli etiopi, terra da cui Jonah proviene e che ha lasciato dopo l’adozione, senza però dimenticarsi delle sue radici.

Grazie alla fama conquistata in questi anni, Jonah ha infatti deciso di lanciare una raccolta fondi su GoFundMe per sostenere, in collaborazione con Roots Ethiopia, organizzazione non profit del suo villaggio di nascita, le scuole rurali povere e aiutare le madri e i giovani a identificare i loro punti di forza e a sviluppare capacità imprenditoriali.

Cosa che Jonah ha saputo fare fin da piccolo, tant’è che oggi ha una sua attività, “Jonah’s Hands”, e sui social è seguitissimo: basta guardare la sua pagina Instagram dove l’estetica dei manufatti è talmente curata, con colori ben abbinati e design innovativi, da lasciare a bocca aperta qualunque appassionato di crochet.


Il piccolo Jonah produce di tutto, dalle zucche all’uncinetto ai guanti, dai cappelli alle coperte, dalle borse ai centrini, e riceve puntualmente materiale in regalo dai suoi numerosissimi fan sparsi per il mondo.

La sua seguittissima serie, chiamata “Impara a lavorare all’uncinetto con Jonah” insegna a tutti questa meravigliosa arte sdoganando, fra le altre cose, pregiudizi, visto che spesso il crochet è associato alle donne.

Le sue creazioni sono state pubblicate su diversi magazine, tra cui la rivista specializzata “Crochet World”, inoltre fa spesso apparizioni televisive ed è apparso nello show di OGGI condotto da Kelly Clarkson. Insomma, ormai è una star!


Con la fama sono arrivate anche le collaborazioni con nomi d’eccellenza, fra cui Daniel Sheehan di Atlanta, che lo ha conosciuto grazie a Instagram e che oggi lo sta guidando nella progettazione della sua linea di moda.

Ma il segreto del suo successo non sta solo nella sua genialità ma nell’amore che dimostra per le persone, confermato dalla raccolta fondi per la sua terra d’origine, l’Etiopia. Di sicuro riuscirà nell’intento di aiutare bambini e mamme etiopi a far crescere e sviluppare i propri talenti. Dal canto nostro possiamo aiutarlo a raggiungere questo importante obiettivo facendo una donazione su GoFundMe.

Complimenti per il tuo talento e per la tua generosità piccolo, ma grande, Jonah!


di Laura De Rosa

18 ottobre 2019

FONTE: Greenme

domenica 28 ottobre 2018

La bella storia di nonna Irma, a 93 anni in Kenia per aiutare i bambini dell'orfanotrofio


Se qualcuno pensa che una persona dopo i 90 anni non sia più in grado di fare niente di importante, se non forse stare a casa a guardare e accudire i propri nipoti o pronipoti (cosa comunque lodevolissima e di grande importanza) legga questa storia.... e si ricreda.

Lei si chiama Irma Dallarmellina, "nonna" Irma per tutti, e ha 93 anni. E' una persona forte, ha visto la guerra, è rimasta vedova a 26 anni, con tre figli a carico, e poi ha perso una figlia. Vive a Noventana Vicentina e circa 10 anni fa ha conosciuto Francesca Fontana e Giannino Del Santo, una coppia vicentina, moglie e marito, che vanno in missione tutti gli anni in Kenia per un mese all'anno. Coinvolta dal loro esempio ed entusiasmo, nonna Irma ha iniziato ad aiutarli come poteva, con piccole ma importanti donazioni in denaro, quello che la sua pensione gli ha permesso di fare. In questo 2018 però non si è accontentata di questo e ha voluto fare di più..... ovvero andare lei stessa, di persona, in Kenia, nonostante le sue 93 primavere. Così, assieme alla figlia, con il suo trolley rosso e il suo bastone di sostegno, il 20 febbraio di quest'anno è partita alla volta di Nairobi per rimanervi tre settimane e offrire le sue mani, la sua esperienza e la sua simpatia ai bambini dell’orfanotrofio.
Appena arrivata in Kenia nonna Irma ha voluto subito incontrare Don Remigio, un missionario "giovanotto" come lei, che da vari anni sostiene economicamente, e che da diverso tempo è ricoverato in ospedale perché malato. Dopo di ciò ha voluto incontrare immediatamente i bambini del posto.... ed è stata gioia grande per tutti! Con Francesca e Giannino, i volontari che l'hanno "coinvolta" in questa avventura, nonna Irma è andata a visitare l'orfanotrofio che la missione gestisce, quindi ha trovato il tempo di inviare qualche foto e un messaggio vocale a casa, poca roba perché le comunicazioni non sono facili, ma comunque molto significativi:
Sto bene. Il viaggio è stato lungo, ma sono già operativa. E sono felice!.

Questo semplice messaggio e queste foto sono state postate sui social network dalla nipote Elisa Coltro e in men che non si dica sono diventate “virali”, raccogliendo in breve tempo migliaia di like e condivisioni.Questa è la mia nonna Irma – scrive Elisa -  una giovanotta di 93 anni, che stanotte è partita per il Kenya. Non in un villaggio turistico, servita e riverita, ma per andare in un villaggio di bambini, in un orfanotrofio. Ve la mostro perché credo che tutti noi dovremmo conservare sempre un pizzico di incoscienza per vivere e non per sopravvivere. Guardatela... ma chi la ferma? Io la amo”.



La nipote Elisa, come si può ben comprendere da queste parole, è orgogliosa della sua amata nonna, e non lo nasconde:
Mia nonna ha sempre amato la vita e non si è mai fermata davanti a niente. Ha dedicato la sua esistenza alla famiglia e ad aiutare chi le stava vicino - racconta - Per me è sempre stata un esempio. Un esempio che la nipote ha raccolto nel migliore dei modi dal momento che in estate, da qualche anno a questa parte, anziché andare in vacanza come fa la maggior parte dei suoi coetanei, adopera le proprie ferie per aiutare i rifugiati siriani nei campi greci. Ed è proprio il caso di dire che "buon sangue non mente".

Nonna Irma in Kenia è diventata subito la nonna di tutti. Nella sua valigia rossa ha portato pochissimi indumenti, per lasciare spazio ad ago, filo colorato, forbici, colla e a tante cartoline, perché lei è sempre stata bravissima a cucire delle scatole con le vecchie cartoline. Lo fa a casa, per gli amici, e lo ha fatto in viaggio per i nuovi piccoli amici kenioti. In ogni scatola c'è l'amore di un oggetto fatto a mano e un sorriso.

La bella esperienza di nonna Irma in territorio africano, come detto, è durata tre settimane, al termine delle quali è rientrata nella sua casa di Noventana Vicentina. Un esperienza che le è rimasta nel cuore: “Ho visto tante cose belle, ma anche tanta miseria - afferma - Mi sono rimasti nel cuore i bambini, ma non hanno niente. Neanche l'acqua e le strade. E' una vergogna. Se avessi una proprietà mia venderei tutto e lo darei al Kenya. Ma sono povera e vivo solo della mia pensione”.
Nonna Irma è diventata un esempio per chi vuole partire per l'Africa, ma lei dice: “Non devono fare come me, che sono rimasta poco. Devono rimanere per dei mesi. Anziché andare in vacanza al mare, devono andare in Kenya”. Poco tempo dice lei.... ma quando si ha un età come la sua, ogni giorno speso in questo modo è oro puro.
Nonna Irma ha anche le idee molto chiare su ciò che andrebbe fatto, e non si nasconde certamente dal dirlo: “Mettere i soldi che si spendono per le guerre per costruire invece delle fabbriche. E mettere anche del sale in zucca a quei quattro che comandano il mondo: andate a farle voi le guerre, se vi piacciono tanto!”.
Parole forti e taglienti, da parte di chi di cose ne ha viste e fatte tante!


E' veramente una bella storia questa di nonna Irma e lei è un bellissimo esempio per tutti, che ci ricorda più che mai come questo Dono preziosissimo che si chiama "Vita" vada vissuta pienamente, con forza, coraggio e tanta buona volontà. Ma sopratutto ci ricorda di "spenderla bene", con tanto Amore, per aiutare il nostro prossimo, in particolar modo quello più bisognoso. Grazie di tutto nonna Irma!

Marco

Febbraio - Marzo 2018

FONTI: Repubblica, Greenme, Tg com24, La Stampa, Il Corriere, Volontariatoggi

domenica 21 ottobre 2018

Felicità è amare gli ultimi della terra


La missionaria laica Annalena Tonelli fu uccisa 15 anni fa in uno degli ospedali da lei fondati

«Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita; più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Questo non è un merito, è una esigenza della mia natura». La vita e la morte di Annalena Tonelli, uccisa quindici anni fa nel Somaliland, sono racchiuse in queste parole. Un grido che interpella l'attuale assopimento delle coscienze nei confronti degli “ultimi” e dei diversi.
Missionaria laica, questa esile donna che indossava la tunica africana e il copricapo delle donne musulmane, per diciassette anni, in Kenia, “fece fiorire il deserto”, condividendo la vita dei nomadi che salvò dal genocidio.
«Io sono nobody, nessuno», diceva. Quel nulla era il suo “tutto in Dio”. Giunta in Africa, depositò ogni privilegio, povera fra i poveri, senza sicurezze, senza istituzioni alle spalle. Sola, fra i somali che le furono amici, quando videro che rischiava la vita per loro. Più volte minacciata di morte, non se ne andò mai, anche quando ebbe la certezza che l'avrebbero uccisa. Accadde il 5 ottobre nel 2003, un colpo di fucile alla testa, nella sua stanzetta francescana, attigua all'ospedale di Borama. Era appena passata di letto in letto per dare la buona notte, con una carezza e una stretta di mano, agli ammalati dell'ultimo ospedale che aveva creato per curare ogni genere di malattia e accogliere bambini ciechi, sordi, disabili. La sua grande scommessa fu la tubercolosi, una delle prime cause di morte. Per debellarla creò un protocollo, riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della sanità, che ha salvato milioni di persone.
Tutta la sua esistenza è stata un canto d'amore: «La vita ha senso solo se si ama, nulla ha senso al di fuori dell'amore... allora la nostra vita diventa degna di essere vissuta, diventa bellezza, grazia, benedizione».

Di Mariapia Bonanate

FONTE: Famiglia Cristiana N. 40
7 ottobre 2018


Altro articolo, breve ma molto ben scritto, sulla figura di Annalena Tonelli, a 15 anni dalla sua scomparsa. Lo riporto con molto piacere sulle pagine di questo blog, perchè questa splendida figura di Carità Cristiana, che pure non amava affatto che si parlasse di sè, merita veramente di essere conosciuta e amata.

Marco

mercoledì 17 ottobre 2018

“Io sono nessuno”: Annalena Tonelli

Quindici anni fa, per l'esattezza il 5 ottobre 2003, veniva uccisa da un colpo di fucile alla testa Annalena Tonelli, missionaria laica dal cuore grande come il mondo intero, figura meravigliosa di autentica Carità Cristiana, tutta dedita ai poveri e ai malati africani.
Si potrebbero utilizzare tantissime parole per descrivere Annalena, ma credo che nulla sarebbe mai abbastanza.... preferisco allora riportare sulle pagine di questo blog questo magnifico articolo incentrato sulla sua figura trovato sul web. Un mio piccolissimo omaggio ad una persona che ha tanto da dirci con il suo esempio, con la sua dedizione e con il suo Amore totale e incondizionato. Una figura stupenda che consiglio veramente a tutti di conoscere e approfondire. Da parte mia mi sento solamente di elevare un sentitissimo “Grazie” a Dio, per averci donato un anima così bella, il cui ricordo, ne sono certo, non verrà mai meno nel cuore delle persone.



"Io sono nessuno": Annalena Tonelli



Religiosa nell’intimo, senza vestire un abito. Medico e madre. Dolcissima e forte. Per chi ha vissuto con lei, queste contraddizioni, solo apparenti, si scioglievano in una quotidianità intessuta di gioia. E di passione, come emerge dalla sua prima biografia, pubblicata ad un anno dalla sua uccisione presso il suo ospedale per i malati di tubercolosi a Borama in Somaliland.
Annalena infatti è morta il 5 ottobre, il giorno prima di vedere completata la nuova ala dell’ospedale che lei aveva fatto costruire per uno di quei miracoli della buona volontà che sembra possano accadere solo grazie all’impegno di qualcuno che crede fino in fondo in quello che fa.
Lei che aveva inventato un particolare metodo di cura delle TBC, malattia endemica tra la popolazione somala, aveva dato vita, grazie agli aiuti che le venivano in gran parte dal Comitato contro la fame nel mondo di Forlì, a una piccola ma efficace struttura da 200 posti letto a cui facevano capo oltre 1000 malati. Ancora oggi l’ospedale continua a funzionare anche senza di lei. Proprio come desiderava questa grande donna che iniziava il suo testamento con queste parole: “Non parlate di me, non avrebbe senso”, e che non si stancava di ripetere di se stessa “Io sono nessuno”.
Non è stato facile per gli autori del libro ricostruire la sua complessa e avventurosa vita. Fuggiva le occasioni ufficiali, rifiutava tutte le interviste; prima di accettare il prestigioso Premio Nansen dell’UNHCR, c’era voluta tutta la pazienza degli amici per convincerla ad andare a Ginevra… Eppure in questa biografia, sembra che sia Annalena stessa a parlare di sé. Sono infatti raccolte in fondo alla biografia molte lettere inedite e una lunga dichiarazione da lei rilasciata nel 2002, in Vaticano, durante una delle rarissime occasioni pubbliche a cui aveva accettato di partecipare in occasione della Giornata internazionale per il volontariato.
Volevo seguire Gesù e scelsi di essere per i poveri. Da allora vivo al servizio dei poveri. Per Lui feci una scelta radicale, anche se povera come un vero povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamenti di contributi per quando sarò vecchia”.
Quella dell’"Ut unum sint" è stata ed è l’agonia d’amore di tutta la mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto per essere buona e veritiera, mai violenta, nei pensieri, nell’azione, nella parola. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola. Dobbiamo imparare a perdonare. Oh, com’è difficile il perdono. I miei musulmani fanno tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo nella loro vita… eppure la vita ha un senso solo se si ama. Nulla ha senso fuori dell’amore.
La mia vita ha conosciuto tanti e tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. E ne sono uscita con la convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Ed è allora che la vita diventa degna di essere vissuta. Perdo la testa per i brandelli di umanità ferita: più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia
”.
Si scherniva di non avere meriti speciali, di fare solo quello che la sua natura di donna giusta e appassionata le dettava. Però, spiegava che nei poveri non poteva fare a meno di vedere “Gesù l’Agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo”. E poi ringraziava Dio per il dono più grande che aveva ricevuto nella sua vita: “I miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico ma è rocciosa e arroccata in Dio. I miei nomadi mi hanno insegnato a fare tutto in nome di Dio”.

Sconvolge che al termine di questo suo lungo cammino d’amore, Annalena sia stata uccisa con un colpo d’arma da fuoco sparato a distanza ravvicinata, dopo avere terminato la visita serale ai suoi degenti. Aveva 60 anni, più di metà dei quali dedicati a servire i somali più poveri, i relitti di una società tanto particolare e dilaniata dalla guerra civile. Ma lei, missionaria laica, forlivese di nascita, somala per scelta, questo servizio l’aveva scelto per amore, e la preghiera la riconfermava ogni giorno in questa dimensione.
La chiamavano infatti la "Madre Teresa della Somalia" per la sua vita spesa ogni giorno al servizio degli ultimi, dei malati, dei poveri, nelle pieghe di un nascondimento da cui nemmeno il conferimento di importanti riconoscimenti era riuscita a tirarla fuori. La sua morte, come spesso avviene per i missionari che scelgono il silenzio della carità, ce l’ha svelata in tutta la sua dolcezza, in tutto il suo coraggio.
Annalena era preparata a morire, da molti anni. Qualche mese prima aveva scritto agli amici: “Vorrei che ciascuno di quelli che amo imparasse a vedere la morte con molta più semplicità. Morire è come vivere. Camminare consiste tanto nell’alzare il piede che nel posarlo. La mia morte, la mia malattia, il mio dolore non sono assolutamente diversi dalla morte, dalla malattia, dal dolore di uno di questi adulti e dei bambini che muoiono sotto i nostri occhi ogni giorno, sul gradino di casa nostra. La mia vita è per loro, per questi piccoli ammalati, per i feriti, per chi ha mutilazioni nel corpo e nello spirito, per gli oppressi, per gli sventurati senza averlo meritato. Potessi io vivere e morire d’amore. Mi sarà dato?”.
La preghiera di Annalena è stata ascoltata.
La sua biografia rivela il profilo di una donna straordinaria. Dormiva solo quattro ore per notte, il suo ritmo di lavoro era senza soste. Mangiava fagioli e riso a pranzo. Tornava raramente in Italia a trovare la famiglia, non ne aveva il tempo. Di suo non aveva che due tuniche, uno scialle, un paio di sandali regalati da qualcuno che l’aveva vista andare in giro scalza. Era una piccola donna tutta pelle e ossa ma piena di energia, infaticabile.
La sua giornata in ospedale cominciava alle 7,30 con la riunione con i medici con cui aveva ideato e attuava un progetto sanitario innovativo, il DOTS (Directly Observed Therapy), ovvero l’attenta osservazione dei malati di tubercolosi provenienti da tribù di nomadi o seminomadi. Poi si fermava con gli ammalati, accanto ai letti per parlare con ognuno. Una carezza speciale era sempre per i bambini che si specchiavano nei suoi grandi, disarmanti occhi azzurri cerchiati di occhiaie, arrossati dalla stanchezza di giornate interminabili di lavoro, fino a notte inoltrata. Eppure Annalena era felice. Diceva: “Nella mia vita non c’è rinuncia, non c’è sacrificio. Rido di chi la pensa così. La mia è pura felicità. Chi altro al mondo ha una vita così bella?”.
Oltre all’ospedale seguiva scuole di alfabetizzazione per bambini e adulti tubercolotici, corsi di istruzione sanitaria, una scuola per piccoli sordomuti e handicappati. Si batteva contro le pratiche di mutilazioni genitali femminili, e questo impegno in favore della donna le aveva attirato addosso minacce e persecuzioni. Forse perfino il colpo di pistola che l’ha uccisa.

Annalena era arrivata in Africa nel 1970 dopo avere conseguito una laurea in giurisprudenza. Si ritrova nel nord est del Kenya, presso la missione di Wajir tra tribù nomadi, rigidamente musulmane ad insegnare ai bambini e curare i malati. Si trova per la prima volta di fronte alle vittime della tubercolosi, allontanate dalle famiglie, abbandonate da tutti per la paura del contagio, condannate ad una fine lenta. “In quel momento mi sono innamorata di loro…” racconta Annalena, sempre sproporzionata nella sua grande capacità di amore. Li accoglie, li veste, regala loro piccole cose e la felicità di essere curati. Apre una piccola struttura di cura fatta di capanne: prima 40, poi 100, 200… Qui inizia a sperimentare un nuovo metodo di cura contro la TBC, poi adottato dall’Oms con la sigla Dots e ancora oggi applicato in tutto il mondo.
Viene espulsa dopo 17 anni di volontariato per avere denunciato l’eccidio dell’etnia dei Degodia, in cui in governo keniota era coinvolto: rientra in Italia in tempo per assistere suo padre malato sino alla fine. Ma nella sua città natale, Forlì, sente che l’Africa le manca, la chiama. L’anno dopo riparte per la Somalia. La gente è la stessa, anche la lingua e la religione, ma c’è la guerra civile dopo la cacciata del dittatore Siad Barre. Si stabilisce a Mogadiscio dove dà da mangiare agli sfollati, viene derubata, rapinata e sequestrata, la sua casa è bersaglio di raffiche di mitra. Mentre imperversano i combattimenti lei recupera i cadaveri dalle strade per seppellirli, cura i malati, nasconde i rifugiati. Poi si trasferisce a Merca, sull’Oceano Indiano, dove fa riattivare il porto in disuso da 25 anni per permettere l’arrivo di aiuti umanitari. Lavora come medico presso l’Ospedale della Caritas che ospita 500 malati: spende un milione di vecchie lire al giorno (una bella cifra per la fine degli anni ’80) che le arrivano da benefattori di tutto il mondo dopo che qualche coraggioso giornalista è riuscito a arrivare sino a lei…Malgrado il fisico minuto ha una grande forza fisica e una buona dose di coraggio che le permette di non piegarsi di fronte ai ricatti e alle prepotenze dei ras locali che cercano di impadronirsi degli aiuti scaricati dalle navi.
Lascia Merca nel 1995, a causa della situazione insostenibile creatasi in seguito ai sanguinosi conflitti tra clan rivali. Il medico italiano che la sostituisce nel servizio all’ospedale della Caritas è Graziella Fumagalli, uccisa solo pochi mesi dopo il suo arrivo.
L’ultima tappa del viaggio africano di Annalena è Borama, una cittadina vicina alla frontiera con l’Etiopia, nel Somaliland. Un centro di 100.000 persone, fatto di baracche di legno affacciate su strade polverose. Recupera una vecchia struttura e con i fondi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la trasforma in ospedale, che riesce a far funzionare grazie agli aiuti che riceve dall’Italia, in particolare dal "Comitato contro la lotta alla fame nel mondo" e dalla diocesi di Forlì. Grazie alla rete di solidarietà attivata da “doctor Tonelli”, i primi 30 malati diventano rapidamente 300, riescono finalmente ad avere un letto vero, medicinali e terapie sistematiche e continue come è necessario per combattere malattie come la tubercolosi e l’AIDS.
Quando nel giugno del 2002 le viene comunicata l’assegnazione del premio Nansen da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Annalena rimane stupita, perché di questo premio, confessa candidamente agli amici, non ne conosce nemmeno l’esistenza. Con il premio Nansen, si legge nella motivazione, le viene riconosciuto a livello internazionale "l’impegno eccezionale per migliorare la sorte di coloro che in Somalia non hanno alcuna protezione. Attraverso di voi, l’UNHCR vuole ricordare che i rifugiati… hanno diritto ad essere trattati con dignità, di essere nutriti, ospitati, curati. Grazie alla vostra opera, ricordate al mondo che i diritti hanno un’anima e che è nel quotidiano, concretamente, che i diritti dell’uomo devono essere rispettati e fatti vivere…".
Annalena è la dimostrazione vivente, ormai agli occhi di tanti, delle trasformazioni e dei cambiamenti che un solo individuo, anche sprovvisto di mezzi particolari, può costruire per migliorare la vita degli altri.


di Miela Fagiolo D’Attilia e Roberto Italo Zanini

FONTE: Note di pastorale giovanile

domenica 17 dicembre 2017

Costruire il futuro? E' un gioco da ragazzi


LE MISSIONI DON BOSCO OPERANO IN CIRCA 50 PAESI

Dalla Liberia alla Cambogia, dall'India alle Filippine, anche in Siria, sotto le bombe. Scuole, centri di formazione professionale e oratori aperti a tutti, cristiani e non. Parla il presidente Giampietro Pettenon

Sono in Liberia e in Cambogia, in India e nelle isole Salomone, in Congo e nelle Filippine. Sono perfino ad Aleppo (Siria), dove, anche sotto le bombe, organizzano “estate ragazzi”. Dei 16 mila religiosi che compongono la congregazione salesiana, circa 10 mila vivono sparsi nel mondo, a fianco dei giovani. «La dimensione missionaria ci appartiene fin dalle origini» spiega Giampietro Pettenon, un coadiutore salesiano presidente delle Missioni don Bosco. E nonostante la straordinaria diversità di ambienti di vita, ci sono alcune costanti. «Le nostre scuole e i nostri centri di formazione professionale sono aperti a tutti, cristiani e non e ovunque sono riconosciuti per il loro impegno formativo». Poi, naturalmente, c'è l'oratorio. «Un cortile, un pallone e una persona pronta ad accoglierti. Questo modello funziona a tutte le latitudini. Senza mai rinnegare quello che siamo» riflette Pettenon, «sappiamo avere uno stile molto “laico” che ci consente di raggiungere le realtà più lontane. Siamo accettati e rispettati in Myanmar, un Paese ateo».
In tempi di grande instabilità, molti missionari sono esposti a pericoli e a volte pagano con la vita: «Tra le aree più critiche lo Yemen e la Siria». Ma anche quando non ci sono forti tensioni politiche, ogni giorno si combatte la battaglia contro vecchie e nuove forme di disagio, «a cominciare dalla durissima realtà dei ragazzi di strada, presente in tante grandi città del mondo».
Per sostenere questo straordinario impegno ci sono le Missioni don Bosco, collegate a una cinquantina di Paesi. Oltre 200 mila sono i benefattori che scelgono di dare un contributo. «Sono la nostra forza. Su indicazione del fondatore, ogni giorno preghiamo per loro durante la prima Messa mattutina celebrata nella basilica di Maria Ausiliatrice a Torino, punto d'origine dell'esperienza salesiana». Per saperne di più: www.missionidonbosco.org 011/3990101

di Lorenzo Montanaro


NEL CUORE DELL'AFRICA

Dalla strada alla vita, i miracoli di Lubumbashi


Nella terza città del Congo i Salesiani ofrono ai ragazzi poveri ed emarginati una concreta possibilità di riscatto sociale


Quando lo vedono arrivare, a bordo del suo furgone, i bambini di strada gli corrono incontro e lo abbracciano. Padre Eric Meert, sacerdote belga, è uno dei salesiani presenti a Lubumbashi, la terza città del Congo. Per migliaia di giovani costretti a vivere di espedienti, senza famiglia né un tetto, lui è uno dei pochissimi punti di riferimento, è un sorriso da incontrare, una carezza da ricevere, insieme con una concreta proposta di cambiamento.
Quella congolese è una missione storica, la più antica presenza salesiana in Africa: la sua fondazione risale al 1911. Nel tempo questa realtà ha dovuto e saputo trasformarsi, per servire i nuovi poveri e modellarsi sui cambiamenti di una terra dai mille contrasti.
«A Lubumashi da anni la situazione dei bambini di strada è divenuta un'emergenza» ci racconta Alessia Andena, del dipartimento progetti Missioni don Bosco, appena rientrata dal Congo. «Arrivano da tutto il paese, nella speranza di trovare un'alternativa alla desolante povertà delle campagne». Ma quando, completamente soli, raggiungono la città, incontrano un destino duro e pieno di pericoli.
Tra le baracche sgangherate si possono raccogliere tante storie. «Molti ragazzi finiscono sulla strada perchè i genitori non li possono mantenere: manca il cibo e l'istruzione non è gratuita. Altri vi arrivano a seguito di disgregazioni familiari». Ma ci sono anche fattori culturali. «Vi sono bambini che vengono accusati di stregoneria. Può bastare un'anomalia del comportamento, magari dovuta a forme di disabilità, oppure una disgrazia in famiglia per la quale si cerca un capro espiatorio. E' una ferita profonda: se non si interviene in tempo lascia i segni per tutta la vita».
A questo si aggiungono tutti i pericoli legati alla vita di strada: il degrado, il rischi di subire abusi, il consumo di droghe. Ecco i mille volti che padre Eric incontra ogni notte, mentre gira i quartieri periferici insieme a un confratello burundese. Ogni ragazzo, con il suo nome e la sua storia, riceve un'attenzione unica e personale. E per tutti c'è la proposta di andare al centro di Bakanja Ville, il primo passo verso una nuova vita. In questa struttura salesiana (una ventina i padri che vivono a Lubumashi, cui si affianca il lavoro di assistenti sociali, psicologi, educatori) i ragazzi ricevono una prima assistenza in una casa sicura. «Quando possibile si cerca di reinserirli nelle famiglie d'origine. E si offre loro la possibilità di studiare, gratuitamente, per costruirsi un futuro» spiega ancora Alessia Andena.
Sul modello di don Bosco, anche in Congo i Salesiani hanno avviato scuole e centri di formazione professionale, che formano meccanici, falegnami e molti altri professionisti. «Grazie a questi percorsi tanti giovani riescono a uscire dal disagio. Quando capiscono di essere amati, il cambiamento diventa possibile». Una storia, tra tante? «Ho incontrato un bimbo di soli nove anni. Timido e gentile, era in strada da quattro giorni e dormiva da solo. Gli ho promesso che a Bakanja Ville ci saremmo incontrati. E lui mi ha dato fiducia».

di Lorenzo Montanaro

FONTE: Famiglia Cristiana N. 30
24 luglio 2016


Che opera straordinaria che compiono i missionari nel mondo! Essi portano Fede, speranza, aiuto morale e materiale, amicizia.... e tanto altro ancora. E lo portano sopratutto nei luoghi dove la povertà, l'ignoranza, l'anarchia e le guerre la fanno spesso da padrone. I missionari sono veramente una grande "Luce" accesa nel mondo!
Ricordiamoci spesso di loro.... ricordiamoci di loro e sosteniamoli sia materialmente che spiritualmente, perchè essi hanno bisogno di noi, così il mondo ha bisogno di loro!

Marco

mercoledì 5 aprile 2017

Miriam e Alessandro, due cuori e una missione: “Dare un futuro ai bimbi della Tanzania”


Procidana lei, napoletano lui. Con un sogno: realizzare un centro per bambini disabili nel cuore dell’Africa: “Siamo circondati da occhi che sorridono. Malgrado tutto”

Micolina è una vera e propria peste. Va all’asilo e ha una voce acutissima, ma sa ammaliare con un semplice sorriso. E’ la quartogenita di una donna malata di Aids: l’Hiv da queste parti è un vero e proprio flagello.L’abbiamo conosciuta mentre piantava alberi per un progetto di forestazione: una donna fortissima, accudisce con cura – nonostante la malattia – anche Ana, Novetha e Betty”.

Questa è solo una delle mille storie che s’intrecciano nel cuore dell’Africa, in Tanzania.

Impossibile non lasciarsi coinvolgere, spiegano Alessandro Grimaldi e Miriam Esposito. A fare da collante è la loro, di storia: innamorati l’uno dell’altra, hanno deciso soprattutto di rimboccarsi le maniche. Pomerini è un villaggio sull'altopiano della regione di Iringa, che in lingua hehe – sarà una casualità? - vuol dire "forte".

Alessandro ha 37 anni, napoletano, una laurea in economia aziendale, ha anche curato la rendicontazione di una serie di progetti della Regione Sicilia. Miriam ha 24 anni, è dell’isola di Procida: casette colorate e profumo di pesce, studia terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva alla Sun. Due cuori e una missione: aiutare i più piccoli del villaggio, grazie all’opera della NGO Mawaki, che da 2004 provvede a soddisfare i bisogni nel campo della salute, dell’educazione, dell’economia di una buona fetta di popolazione di questo angolo d’Africa, dove la gente “vive con profonda dignità la propria condizione, una condizione che – malgrado tutto - non gli impedisce di guardare al futuro con la speranza e con il desiderio di migliorarsi”.

Il nostro incontro con l' Africa è avvenuto in tempi diversi, ma ha prodotto lo stesso risultato: un amore incondizionato per quella terra rossa e per coloro che la abitano”, sorride Miriam. Nel 2002 il colpo di fulmine di lui, nel primo viaggio in Tanzania. Dieci anni dopo, l’illuminazione di lei, che ha scoperto che quella di aiutare i più piccoli, in particolare i disabili, è la sua missione.


Qualche mese fa, ad agosto, l’idea di rimboccarsi le maniche per gli ospiti di un centro per bambini diversamente abili costruito nel 2015 dal governo nazionale e che oggi rischia di chiudere. “Ma nulla è perduto: stiamo provvedendo alla ricerca dei fondi necessari, siamo certi che il sostegno alla causa non mancherà”, spiega Alessandro. Per sostenere il progetto basta collegarsi al sito https://www.splitit.it/centro-bambini-disabili-africa: l’obiettivo, veicolato anche da una campagna social con lo slogan "Io ci sono" e l'hashtag #mawaki, è la gestione e l’ampliamento del centro.

Così, sulla scia di un progetto nato da fra Paolo, ordine dei frati minori rinnovati, una coppia napoletana prova a regalare sorrisi ai bimbi africani. “Occhi che sorridono – sottolinea Miriam – occhi in cui specchiarsi, sembrano quasi biglie. E dentro ti ci rivedi, felice”. Sorride anche la piccola Micolina. “Ad agosto – racconta Alessandro - le abbiamo dato una bambola, i suoi occhi luccicavano impreziosendo quel volto infreddolito. Ha iniziato a correre a più non posso, mostrando con orgoglio a tutto il villaggio la sua nuova compagna di giochi”. Poi, si è girata verso Alessandro e Miriam e ha detto asante. E’ una delle parole più frequenti, da queste parti: quasi un mantra. La pronunciano con semplicità, grandi e piccini. Alessandro e Miriam, di solito, rispondono con un sorriso, facendo spallucce. Vuol dire grazie, naturalmente.

di Pasquale Raicaldo

15 narzo 2017

FONTE: Repubblica.it 

giovedì 16 febbraio 2017

La storia del piccolo Hope, bimbo africano abbandonato da tutti perché ritenuto uno "stregone", ma salvato da una donna danese!

L'hanno chiamato Hope, speranza, e la sua è arrivata grazie a una volontaria danese, Anja Ringgren Loven, che da alcuni anni lavora con il marito in Nigeria per una ong che si occupa di sviluppo ed educazione e che intende denunciare la piaga dei bambini "stregoni". In molti Paesi africani, infatti, le famiglie abbandonano, torturano o addirittura uccidono i bambini ritenendoli responsabili di stregonerie e disgrazie. Hope che ha due anni vagava solo da otto mesi, nutrendosi di rifiuti, prima di essere stato trovato e salvato da Anja.

L'hanno ribattezzato Hope, la speranza in cui tutti abbiamo il diritto di credere. Hope è un bimbo nigeriano di due anni, che è stato abbandonato dalla sua famiglia perché ritenuto uno stregone.

In Africa, da Kinshasa capitale del Congo alla Nigeria, quello dei bambini stregoni è un autentico dramma. In questi Paesi è infatti molto diffusa la credenza degli enfants sorciers: cioè molti ritengono che alcuni bambini possano essere veri e propri “stregoni”, capaci di avere un influsso malefico su parenti o vicini e ai quali viene attribuita la responsabilità di disgrazie che possono accadere a famiglie o comunità.
Un’inchiesta abbastanza recente dell’emittente britannica Channel 4 aveva già fatto emergere come solo in due stati della federazione della Nigeria ci siano almeno 15.000 bambini accusati di stregoneria.

Ma la storia di Hope, come dicevamo, è una storia di speranza e ha un lieto fine.
Le immagini del piccolo hanno fatto il giro di tutti i social network. In particolare, la sua foto è sul profilo di Anja Ringgren Loven, 31 anni, volontaria danese dell'African Children’s Aid Education and Development Foundation, che l'ha trovato che girovagava scalzo, nudo e affamato. Da otto mesi vagava da solo nutrendosi di avanzi e spazzatura. L’immagine di quell’esserino magrissimo, che beve dalla bottiglietta d'acqua della volontaria ha intenerito tutti.

E sul suo post su Facebook Anja ha scritto: «Questa serie di immagini mostrano il motivo per cui mi batto. Perché ho ​​venduto tutto quello che possiedo. Perché mi sto muovendo su un territorio inesplorato». Lei stessa ha fondato tre anni fa con il marito l’ong indipendente African Children’s Aid Education and Development Foundation, con l'obiettivo di costruire un orfanotrofio e aiutare i bambini che subiscono inimmaginabili e inaudite violenze dopo essere stati etichettati come strega o stregone. I più piccoli sono trascurati o perfino uccisi dagli stessi membri della comunità.


Hope girovagava nudo da otto mesi per il villaggio di Uyo, nel sud della Nigeria, e ha vissuto rovistando tra gli scarti gettati per strada dai passanti, sin quando ha incrociato Anja l'ha preso in braccio, coperto, gli ha fatto un bagnetto e lo ha portato all'ospedale più vicino. «Ora le sue condizioni sono stabili e continuano a migliorare, infatti, ha ripreso a mangiare e la cura sta avendo i risultati sperati. Oggi è un bambino forte e ci sorride. Non so proprio come descriverlo a parole. Questo è ciò che rende la vita così bella e preziosa, e quindi lascerò che le immagini parlino da sole», ha detto ancora Anja.

La cooperante ha raccontato ancora sui social: «Vediamo bambini come Hope torturati, minacciati o uccisi solo perché qualcuno decide che sono maledetti».

Una catena di solidarietà si è presto mossa e soldi per aiutare Hope sono arrivati da tutto il mondo. «Con questo denaro possiamo dare un futuro a Hope e riservargli le migliori cure. Ma anche costruire una clinica e salvare tanti innocenti dalle torture».

Ora Hope, come mostrano anche le altre immagini postate in rete, sta meglio e gioca con il bambino di Anja. «È forte», spiega la sua nuova mamma. «Le trasfusioni di sangue cui si è dovuto sottoporre e i vermi che gli infestavano la pancia ora sono un brutto ricordo. Hope ora è stabile. Mangia da solo e risponde bene alle medicine. Oggi ha provato a sedersi e a sorridere».

Nello stato di Akwa Ibom, dove si trova Hope, indicare un bimbo come stregone è ritenuto un crimine, ma purtroppo questa pratica viene perpetrata. Anja, come racconta nella sua pagina, ha appena finito di girare un documentario per denunciare questo fenomeno, che si intitolerà Anja Afrika e che verrà diffuso in primavera.

18 febbraio 2016

di Giusy Galimberti

FONTE: Famiglia Cristiana


Nigeria, Hope ora va a scuola: volontaria ricrea lo scatto di quando salvò il bambino


Esattamente un anno fa il web faceva la conoscenza di Hope, il bambino nigeriano salvato dalla volontaria danese Anja Ringgren Loven.
Il piccolo era stato abbandonato dalla sua famiglia perché creduto uno stregone e aveva vagato per otto mesi fino a che non era stato trovato da Anja e dai suoi collaboratori. Oggi Hope - "Speranza" in inglese - sta molto meglio, vive presso la "African Children’s Aid Education and Development Foundation", un orfanotrofio nel sud est della Nigeria diretto da Anja e suo marito, David Emmanuel Umem, che accoglie i bambini abbandonati dalle famiglie a causa della superstizione.

Per festeggiare la prima settimana di scuola di Hope, Anja ha deciso di ricreare lo scatto attraverso il quale la rete aveva conosciuto la storia del bambino e che la ritraeva mentre cercava di convincerlo a bere dell'acqua da una bottiglietta. Un modo per festeggiare la nuova vita del piccolo, resa possibile anche dalle molte donazioni che hanno permesso alla Ong svedese di accogliere, istruire e curare molti altri bambini abbandonati come Hope

4 febbraio 2017

FONTE: Repubblica.it


Nei giorni scorsi i media hanno parlato diffusamente della storia del piccolo Hope, ed io pure ho voluto dedicare un post a questo piccolo bambino africano sulle pagine di questo blog.
La prima cosa che mi viene da pensare (e certamente sarà il pensiero di molti) è come sia veramente incredibile che possano esistere ancora oggi situazioni come queste: bambini abbandonati a loro stessi (e quindi a morte sicura!) perché ritenuti "stregoni", avere influssi malefici o cose del genere! Dall'altra parte però c'è anche l'Amore di persone come Anja, che si è presa cura immediatamente di questo bimbo abbandonato da tutti e che ha fondato, assieme al marito, una Ong che si occupa proprio di salvare bambini come lui. Con tutto questo non voglio dire che il popolo Africano sia un popolo senza cuore, mentre l'Europa sia tutto il contrario..... assolutamente no! Però è certo che l'ignoranza uccide ancora molte, molte persone su questa terra, e certamente dev'essere impegno di tutti cercare di cancellare certe assurde credenze che portano solamente a tanta inutile sofferenza. Per il resto questa vicenda dimostra, come sempre, che nel mondo vi è sempre una parte di Bene e una parte di male, e come dev'essere impegno costante di tutti cercare di fare emergere il Bene sul male, l'Amore sull'odio, la Sapienza sull'ignoranza. Proprio quello che ha fatto la splendida Anja, proprio quello che fanno tantissime persone di buona volontà in tutto il mondo, proprio quello che ciascuno di noi, nella situazione in cui siamo e con i talenti che possediamo, è chiamato a fare nella vita di tutti i giorni.

Marco

domenica 29 novembre 2015

Un sorriso per la vita

In Africa sono ancora molto diffusi il labbro leporino e altre patologie collegate. Le strutture hanno difficoltà a risolvere il problema. Così è nata un'associazione di volontari che operano i bambini e formano il personale. Li abbiamo seguiti in missione

Cotonou. Il risveglio è stato doloroso, il digiuno un po' pesante e le due notti nel reparto dell'ospedale non proprio piacevoli, ma è con un sorriso raggiante che la piccola Mael ora cammina, la mano stretta a quella della sua mamma, Juanita, lungo il viale in terra battuta che conduce al cancello d'uscita del Centro ospedaliero universitario (Chu) di Cotonou, la capitale del Benin. Nel parcheggio gremito di motorini, uno dei mezzi di trasporto più usati in questa metropoli di oltre un milione di abitanti, Mael sale sullo scooter che la riporterà a casa, fasciata e legata dietro la schiena della madre. Ancora qualche giorno di dieta semi liquida, una cicatrice nel palato che velocemente si riassorbirà, e l'incubo vissuto nei suoi primi quattro anni di vita sarà per sempre dimenticato. D'ora in poi Mael potrà mangiare e bere senza rischiare il soffocamento a ogni pasto e con un po' di pratica recuperare il ritardo accumulato per giocare e imparare insieme ai bambini della sua età. E forse, essendo ancora giovane, potrà correggere quel timbro nasale che segna a vita le persone affette da palatoschisi, ossia l'apertura del palato.
Mael fa parte dei 62 bambini beninesi operati gratuitamente per correggere la palatoschisi, la labioschisi (il cosiddetto “labbro leporino”) o labiopalatoschisi (apertura del palato, del labbro e in alcuni casi della gengiva) dai medici volontari dell'Ong italiana Emergenza Sorrisi durante una missione svolta in Benin dal 21 al 31 maggio scorso. Grazie alla cooperazione del ministero della Sanità del Benin e a un'organizzazione non governativa locale, La Resurrection, si è potuto dar vita alla terza missione del genere in questo piccolo paese dell'Africa occidentale, parte dell'antico regno del Dahomey. Una sinergia ormai rodata che ha condotto a un nuovo successo di questo fruttuoso esempio di cooperazione Nord-Sud, nel quale entra anche una componente di formazione del personale locale e di prevenzione. 

Gruppo affiatato

Nell'interpretazione di questo spartito ognuno ha eseguito il proprio ruolo in uno spirito di reciproco rispetto e di adattamento a situazioni nuove e per certi versi estreme.
Un'avventura, è bene sottolinearlo, in cui ognuno ha fatto un dono: chirurgi, anestesisti, infermieri, pediatri italiani disposti a lavorare gratuitamente sfruttando periodi di ferie in un ambiente spartano e lontano dagli standard a cui sono abituati in Italia; medici e assistenti locali, che hanno sconvolto gli ordinari ritmi di lavoro per adeguarsi alle richieste del team; il ministero della Sanità, che ha accettato il ricovero gratuito dei beneficiari e dei loro parenti; le madri beninesi, che hanno affidato i propri figli a questi dottori bianchi e sconosciuti; l'Ong La Resurrection, che ha attraversato il paese in lungo e in largo per sensibilizzare le popolazioni sul problema della labiopalatoschisi, spiegare che vi si può rimediare, almeno in parte, annunciare l'arrivo della missione e la possibilità di beneficiarne. “Solo grazie a questo patto di fiducia e di supporto si è potuti arrivare al successo di questa missione, che speriamo, in futuro, potrà coinvolgere sempre meno medici italiani e sempre più medici locali” sottolinea Francesca Pacelli, coordinatrice delle missioni internazionali di Emergenza Sorrisi. Il team che ha operato in Benin, composto da 10 medici altamente qualificati, ha potuto assistere, ognuno nella propria specializzazione, il personale locale insegnando i passi da compiere secondo gli standard internazionali.
Se la labiopalatoschisi è diventata rara nei paesi ricchi, resta molto diffusa nel Sud del mondo, dove carenze alimentari e vitaminiche unite a infrastrutture poco sviluppate, all'assenza di medici sufficientemente qualificati e a fattori socio-culturali non consentono di trovare una risposta adeguata al problema. “Il nostro obiettivo è non solo di operare bambini affetti da questa patologia, ma di mettere in atto delle misure per poter prevenire la comparsa di questa e altre malformazioni con una campagna di prevenzione di massa, tesa alla somministrazione, per esempio, di acido folico, la cui carenza è dimostrata essere uno dei fattori principali nel meccanismo di insorgenza della patologia labiopalatoschisi”, spiega il capo missione, Mario Altacera, specialista in chirurgia plastica e maxillo-facciale ad Acquaviva delle Fonti (Ba).
Nelle aree remote del Benin – come in altre zone dell'Africa – la povertà, l'analfabetismo e antiche credenze costituiscono ancora un ostacolo alla cura di alcune malformazioni. C'è chi non si fida della medicina portata dall'Occidente e crede che un intervento chirurgico causerà la morte del proprio figlio. Chi ritiene invece che l'arrivo di un neonato malformato sia una sciagura voluta dal cielo o da un sortilegio che non si può cambiare. Chi ancora, nella peggiore delle ipotesi, non riesce ad accettare un erede malformato, la vergogna e la discriminazione, e si macchia anche di infanticidio.
Per i 62 bimbi e ragazzi operati la vergogna e l'esclusione fanno ormai parte del passato e la testimonianza che porteranno nei propri villaggi, nei propri quartieri, aiuterà a sfatare antichi miti e riserve.
Pierre, 22 anni, uno dei pazienti più grandi con diverse operazioni alle spalle e altre malformazioni, ha corretto un'apertura del labbro superiore, ma avrebbe bisogno di altre cure per tornare ad avere un volto "normale". Tuttavia l'affetto di cui è stato circondato durante il suo soggiorno in ospedale, sempre in compagnia di parenti e amici, gli hanno ridato forza e entusiasmo. Per l'ultimo controllo due giorni dopo l'operazione si presenta indossando la maglia del Barcellona, la sua squadra di calcio preferita. Si fa dare uno sguardo dal chirurgo: è tutto a posto. Non vede l'ora di raggiungere i suoi compagni sul campo e di giocare una nuova partita.


Esperienza importante

Anche i medici italiani tornano a casa con un bagaglio di soddisfazione, di gioia e di emozione senza paragoni.Si porta tutto nel cuore per sempre. Sono emozioni che non si possono descrivere, solo chi le vive può capire come ci si sente” dice Jolanda Barile, infermiera, al ritorno dalla sua terza missione dopo quelle compiute in Indonesia e in Gabon.
Tra i volontari di questo viaggio in Benin, qualcuno partiva per la decima o undicesima volta, e tutto sommato la situazione trovata a Cotonou è stata piuttosto tranquilla rispetto ad altre esperienze trascorse in Bangladesh sul Brahmaputra, nella Repubblica Democratica del Congo, in Iraq o in alcune aree dell’Etiopia. Per qualcuno invece è stata una prima assoluta o quasi: “L’anno scorso ero partito per una missione umanitaria, con un’altra organizzazione, in Mozambico – racconta Ivan Alonge, infermiere -. Operavamo in una clinica privata, con dotazioni molto simili a quelle che si trovano in Italia, in ottime condizioni. Mi ero fatto una falsa idea di quello che realmente si vive in Africa”.
Il reclutamento di medici e infermieri disposti a partire in missione per Emergenza Sorrisi si fa in base a candidature ricevute, ma anche e soprattutto attraverso volontari già noti all’organizzazione, che introducono collaboratori di fiducia, diventandone "tutori" durante la missione.
L’Ong è nata cinque anni fa con il nome di Smile Train Italia – affiliata all’organizzazione statunitense Smile Train – e dal primo gennaio scorso ha cambiato denominazione sociale per poter ampliare il raggio delle proprie attività. “Dopo anni di interventi in paesi come Iraq, Afghanistan, Kurdistan, Indonesia, Bangladesh, Benin, Gabon, Congo e migliaia di visite, ci siamo resi conto che non potevamo più evitare di occuparci anche di bambini e pazienti con gravi conseguenze derivanti da ustioni, traumi, tumori, ma ai quali non siamo stati finora in grado di dare una risposta” spiega Fabio Massimo Abenavoli, presidente di Emergenza Sorrisi. Saranno dunque questi un nuovo impegno e una nuova sfida, che si spera verrà assecondata dai donatori. “La crisi economica che ha colpito il mondo intero non ha ridotto lo spirito e i valori di solidarietà che spingono tutte le nostre azioni – dice ancora Abenavoli -. Se sembrano prevalere egoismo e individualismo, nella realtà dei fatti le azioni concrete di sostegno al bisognoso esistono e sono forti, ma nella maggior parte dei casi “dimenticate” per far posto al gossip e al pessimismo. Noi possiamo garantire una cosa: a tutte le realtà che ci sostengono promettiamo che il nostro impegno verrà ripagato nell’unica moneta universale e resistente a qualsiasi crisi: il recupero dei sorrisi dei nostri bambini!”.


di Celine Camoin (Missioni Consolata)

FONTE: A Sua Immagine N. 99
29 novenbre 2014 



Non mi stancherò mai di ringraziare tutte quelle persone che, gratuitamente, mettono a disposizione i propri "talenti", il proprio tempo, la propria professionalità, per il Bene del prossimo. Nel caso di "Emergenza Sorrisi", questa Ong opera in Paesi molto poveri e quindi in condizioni tutt'altro che agiate, e anche questa è una ragione di grande merito per tutti coloro che vi si dedicano.
Cosa sarebbe il mondo senza queste persone? Cosa sarebbe il mondo senza Carità?  I tempi che stiamo vivendo sono difficili, ma la Carità, che è Amore tramutato in opere, esiste ed esisterà sempre, perchè Dio stesso ha messo nel cuore dell'uomo una scintilla del Suo Fuoco di Amore. Sta a noi tirarlo fuori questo Amore e farlo fruttificare nel migliore dei modi.
Grazie di tutto!

Marco