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sabato 24 aprile 2021

Chiedere e dare perdono: la forza di Claudia e Irene

Una è la vedova dell’appuntato Antonio Santarelli, ridotto in fin di vita ad un posto di blocco e morto dopo un anno di coma nel 2012. L’altra è la mamma di Matteo, il giovane aggressore, che per quella morte sta scontando 20 anni in una comunità di don Mazzi. Insieme hanno dato vita all’associazione «AmiCainoAbele».

Il dolore è una cosa seria. Ce lo insegna anche il Vangelo: Gesù piange per l’amico Lazzaro che è morto; Giairo, uno dei capi della Sinagoga, che chiede la vita per la figlioletta morente; Maria che, straziata dal dolore, resta ai piedi della croce assistendo impotente all’agonia del Figlio.

Il dolore è una cosa seria, è una dimensione della vita sulla quale ci giochiamo anche la nostra fede. Ma il dolore è anche una strada, come lo è stata la via crucis. È una strada che va percorsa tutta, evitando inutili scorciatoie, ma immergendosi nell’abisso, che a volte è solo disperazione, per incamminarsi – a passi anche stentati – verso la feritoia di luce che intravediamo. È questa l’esperienza che hanno vissuto Claudia Francardi e Irene Sisi, due "mamme coraggiose", che hanno saputo convertire il dolore in un sentiero di speranza. Per loro e per molti altri.

Claudia Francardi è la vedova di Antonio Santarelli, l’appuntato scelto dei Carabinieri, che una mattina di festa è uscito di casa per prendere servizio e non vi ha fatto più ritorno. Quella mattina del 25 aprile 2011 la vita di Antonio si è intrecciata indissolubilmente con quella di Matteo Gorelli, un ragazzo poco più che diciottenne, il quale di ritorno da un rave party, si imbatte in un posto di blocco dei Carabinieri nella zona di Pitigliano (Grosseto). Doveva essere quasi una pratica di routine e invece quell’alt genera l’inferno. Antonio, insieme al collega, viene aggredito, riporta gravissime lesioni cerebrali e dopo un anno di coma, l’11 maggio 2012 muore.

Per quell’aggressione, diventata mortale, Matteo sta scontando venti anni in una struttura di don Antonio Mazzi nel Milanese. Una terribile storia di cronaca, come purtroppo molte ne leggiamo, che poteva finire lì, "ridursi" ad essere – appunto – "solo" una terribile vicenda di "nera" e che invece, per la forza del perdono, diventa anch’essa una storia di resurrezione. Grazie a Claudia, la vedova del Carabiniere, e Irene, la mamma del giovane che sta scontando una pena per omicidio. Dal buio della disperazione, che in modi diversi le ha fatte sprofondare nell’abisso, Claudia e Irene hanno trovato la forza della risalita, faticosa, lenta, nient’affatto scontata, ma ce l’hanno fatta. A rendere possibile la loro rinascita è stato il perdono, chiesto e donato, desiderato e maturato nel cuore. Insieme Claudia e Irene hanno dato vita all’associazione "AmiCainoAbele", presentata ufficialmente pochi giorni fa a Grosseto, nell’ambito della festa parrocchiale di Santa Lucia, nel quartiere Barbanella.

Con loro, in questo cammino faticoso, c’è sempre stato un sacerdote, don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana di Grosseto ed una vita spesa in mezzo a quelle «periferie esistenziali» di cui tante volte ci parla Papa Francesco. Nel corso degli anni don Capitani ha dato vita a tante realtà sociali e di volontariato, «ma –’ ha detto – stavolta ho contribuito a far nascere qualcosa di diverso, a suo modo straordinario».

Ha parlato di «ritorno alle origini», don Enzo, ma non in senso temporale, a quando cioè con uno sparuto gruppo di volontari e operatori dette vita al Ceis anche in Maremma. No, un «ritorno alle origini» nel vero senso della parola, un ritorno alle origini «di noi come persone – ha spiegato –. Ciascuno di noi quando è nato era in pace con tutti; la vita poi ci porta quasi a spezzare l’incantesimo della fraternità umana e nelle nostre scelte si insinua il tarlo della divisione, del risentimento, della collera, dell’ingiustizia… Quanto sarebbe bello se ognuno di noi si impegnasse a recuperare l’armonia delle origini», ha sospirato.

"AmiCainoAbele" nasce con questo scopo: ritornare alla origini, non dimenticando – certo – che il male provoca conseguenze, che bisogna rispondere del dolore generato in altri, ma che c’è anche da ricomporre un quadro, un’armonia spezzata. Claudia e Irene sono partite da qui per imparare a guardasi negli occhi, chiedendo e ricevendo perdono. Non è una storia "zuccherosa" questa; anzi, è la stessa Claudia Francardi a dire subito: «Non sono pazza», ma «se diciamo di credere in Gesù, non possiamo prendere del Vangelo solo quello che ci conviene». Ma il percorso imboccato da questa donna esile, delicata, ma forte e coraggiosa, è stato dolorosissimo, così come quello di Irene.

Entrambe hanno lasciato che il dolore – quello che soffoca, toglie il respiro, annulla la vista – facesse il suo corso. Poi è iniziata la risalita. Paradossalmente è stata proprio la morte di Antonio Santarelli a far dire a Claudia che non avrebbe voluto un futuro di rabbia, di rancore, di vendetta. Doveva fare i conti con quel giovane che le aveva "ucciso l’amore", così come nel lungo e straziante periodo di coma del marito, ha dovuto fare i conti con la disperazione, con la voce dei medici che le ripetevano che per Antonio non c’era alcuna possibilità, con la depressione, coi mesi di buio, di dolore impotente.

Nel frattempo stava andando avanti il processo di prima grado e dopo la morte di Antonio, l’accusa per Matteo si fa più grave: omicidio. Poi arriva la sentenza: ergastolo. Nella concitazione del momento c’è chi sorride e chi si dispera, c’è chi piange e chi si da di gomito: solo queste due mamme, fragilissime come una porcellana di Capodimonte, sentono nel loro cuore che non basta un tribunale. «Quando ho sentito la parola ergastolo – racconta Claudia – mi sono sentita morire un’altra volta. Matteo aveva fatto qualcosa di aberrante, ma non potevo rassegnarmi all’idea che non gli fosse concessa una possibilità di riscatto
».

L’incontro tra le due mamme era già iniziato nelle settimane precedenti quella sentenza di condanna (che poi in appello è stata mitigata a vent’anni): un giorno Irene fece recapitare a Claudia una lettera, nella quale con poche parole, le chiedeva perdono. Quella lettera non è finita nel cestino: Claudia l’ha aperta e l’ha letta. C’è voluto del tempo, perché maturasse una risposta, poi un giorno le due donne si sono incontrate ed un abbraccio ha sciolto molto, se non tutto. Irene non ha mai minimizzato o cercato "scusare" il figlio, anzi si dice convinta che proprio grazie al fatto che anche in fase processuale non si siano cercate scappatoie, ma solo la verità e che Matteo si sia preso fino in fondo la responsabilità di quanto commesso, Claudia abbia avuto la possibilità di imboccare la strada del perdono. Il cammino continua, la risalita è lenta, ma un sentiero si è aperto e nessuno vuol tornare indietro.

Dalla discesa all’inferno al percorso di resurrezione

La prima cosa che Claudia Francardi ha fatto, il giorno in cui a Milano si è incontrata faccia a faccia con Matteo Gorelli, il giovane che aveva aggredito suo marito fino a condurlo alla morte, è stato guardare le mani di Matteo. «Mi sono chiesta come sia stato possibile che mani tanto piccole e affusolate avessero potuto compiere un gesto tanto tremendo». E quelle mani hanno incontrato quelle di Claudia grazie ad un Rosario: «Quel giorno – racconta la donna – avevo con me una corona e ho chiesto a Matteo se potevo metterla tra la sua e la mia mano». E così è avvenuto.

La forza della riconciliazione è passata anche da quel gesto, per certi versi ardito. «Per Matteo – ha spiegato la mamma Irene – è stato difficilissimo incontrare per la prima volta Claudia: in lei rivedeva il male che aveva commesso, la rappresentazione della sua colpa. Ma poi si è sentito perdonato ed in lui è nata la voglia di diventare una persona migliore». Oggi Matteo studio all’Università, è iscritto al corso di laurea in scienze dell’educazione, vuol diventare educatore nelle carceri «per essere – spiega la mamma – un ponte tra il passato e il futuro che può esserci».

Nel contempo prosegue l’impegno di Irene Sisi e Claudia Francardi per far sì che la loro vicenda diventi un seme fecondo per altri. Le due donne partecipano ad incontri nelle scuole ed è proprio durante il viaggio di ritorno da uno di questi incontri che quasi all’unisono si sono dette: «Come possiamo fare in modo che questa nostra storia non resti solo un fatto per noi?».

È nata così l’idea di dar vita all’associazione «AmiCainoAbele» per coinvolgere altre persone e diffondere la cultura della riconciliazione. Che passa attraverso alcune parole che stanno alla base del progetto: verità, responsabilità, compassione. Il perdono, infatti, è un fatto personale, ma può nascere dentro un cuore preparato e all’interno di una situazione in cui la giustizia fa il suo percorso. Verità e responsabilità: quella che ha detto Matteo e che Matteo si è assunto. Se anche in sede processuale la verità non fosse emersa fino in fondo e Matteo non avesse compiuto un percorso di consapevole pentimento, non ci sarebbe stato un "dopo" diverso da quello che sembrava già scritto: una storia di dolore insopportabile, capace solo di "congelare" ciascuno nel proprio dramma.

Da questo percorso di discesa nell’inferno del male, la risalita è diventata invece un percorso di resurrezione, che può guarire "Caino" e "Abele" e può aiutare tanti altri a sperimentare che il perdono non è utopia, non è per gente "debole", ma per chi ha testa e cuore, per chi sente dentro di sé che c’è una strada percorribile, per quanto stretta e piena di insidie e dentro una vicenda che stordisce c’è un pertugio e una ferita enorme, che ancora fa male, ha però potuto trasformarsi in una feritoia dalla quale filtra quel tanto di luce che ha permesso il perdono.


di Giacomo D'Onofrio

11 ottobre 2014

FONTE: Toscana Oggi

lunedì 29 giugno 2020

Le madri del perdono tolgono il cappio dal collo


In Iran è attivo un movimento che incoraggia le famiglie delle vittime di omicidio a graziare i responsabili. Nella Repubblica Islamica, al primo posto nelle esecuzioni capitali, sono stati salvati molti condannati. “Non sono tanti gli iraniani che credono nella legge del taglione”: nel 2016 risparmiate almeno 228 vite

Centinaia di persone si erano radunate davanti alla prigione di Nour, nel nord dell'Iran, per assistere all'impiccagione di un uomo di nome Balal, condannato per omicidio. “Perdonalo! Perdonalo!” gridava qualcuno tra la folla. Fu allora che la madre della vittima (un giovane accoltellato in una rissa) si avvicinò all'omicida, lo schiaffeggiò e, lasciando tutti a bocca aperta, gli tolse il cappio dal collo. Anche il boia si sciolse in lacrime. La donna aveva perdonato il colpevole, risparmiandogli così la vita. “Ho sognato mio figlio. Mi ha detto che non vuole vendetta”.
In Iran la legge del taglione prevede che il sangue si paghi con il sangue. Ma il "movimento del perdono" non ci sta. L'acronimo persiano è "Legam": significa "Campagna per l'abolizione della pena di morte passo dopo passo". Nella Repubblica Islamica, che insieme alla Cina è al primo posto al mondo per le esecuzioni capitali, la società civile ha cominciato nel 2014 (quando Balal fu perdonato) ad attivarsi con sit-in e sui social media contro la pena capitale, con l'aiuto di celebrità dello sport e del cinema (incluso il regista Asghar Farhadi) che invitavano le famiglie delle vittime al perdono. In caso di omicidio, infatti, la shaira (la legge islamica) prevede la morte, ma la famiglia della vittima ha diritto a risparmiare il condannato in cambio di un pagamento in denaro.
Il popolo iraniano è un popolo gentile. Una famiglia che ha perduto un figlio non vuole che la stessa cosa accada ad un'altra famiglia”, dice al Corriere uno dei fondatori di "Legam", l'85enne Mohammed Maleki, che abbiamo incontrato nella sua casa a Teheran. “In realtà – sostiene – non sono tanti gli iraniani che credono nella legge del taglione”. Quel che è chiaro è che, in un paio d'anni, il movimento del perdono ha ottenuto risultati concreti, anche se non ha certo fermato le esecuzioni. Nel 2016, almeno 530 persone sono state messe a morte, secondo i dati dell'organizzazione "Iran Human Rights" (IHR). Tuttavia, tra i condannati per omicidio (che è la seconda principale accusa che porta alla forca, dopo il traffico di droga) sono di più coloro che sono stati "perdonati" (228) rispetto agli impiccati (142). E i dati per il 2017 sono simili, preannuncia IHR. Il prezzo pagato dagli attivisti di "Legam" è però altissimo. “Per questa attività Narges Mohammadì è stata condannata a 10 anni di carcere”, spiega Maleki, anche lui più volte arrestato (e torturato) per attivismo sociale e politico dal 1981 al 2009. “Io per legge sono troppo anziano per il carcere, ho problemi al cuore e ho il cancro. Ma creano problemi alla mia famiglia: a mio figlio maggiore hanno rifiutato di consegnare la laurea ed è disoccupato; il più giovane è in Olanda e se rientra rischia l'arresto, mentre io non posso lasciare l'Iran, non lo vedo da sette anni”.
Nel 2016 altre 296 persone sono invece finite sulla forca per traffico di droga (il 56% del totale). A novembre, però, è arrivata una buona notizia, spiega il portavoce di "Iran Human Rights" Mahmood Amiry-Moghaddam: il parlamento ha approvato un emandamento alla legge sui narcotici che, se applicato, potrebbe portare a commutare la pensa di morte a 5000 condannati. “Finora dal passaggio della legge non ci sono state esecuzioni per crimini di droga. In ogni caso, il significato va oltre quello immediato. Da dieci anni ci occupiamo di pena capitale: non c'era sensibilità per i condannati per traffico di droga, nemmeno da parte degli attivisti dei diritti umani. Il fatto che ora le stesse autorità ammettano che le esecuzioni non hanno risolto il problema e che il parlamento per la prima volta in 38 anni abbia approvato un emandamento è un risultato significativo. E' il risultato di anni di lotta da parte della società civile dentro e fuori l'Iran”.


Di Viviana Mazza

FONTE: Speciale “Buone Notizie” del Corriere della Sera
2 gennaio 2018


Che grande Virtù è quella di saper perdonare! E perdonare una persona che ha ucciso una persona cara, persino un figlio, è un atto veramente Eroico e Santo! Onore e merito quindi a tutti coloro che sanno perdonare, onore e merito al "movimento del perdono" in Iran, che ha salvato (e certamente ne salverà ancora) tantissime vite umane condannate alla pena di morte. Grazie di esistere!

Marco

giovedì 26 gennaio 2017

La forza rigenerante del perdono


Un matrimonio felice, poi l’abbandono improvviso del marito, l’attesa, il ritorno. Carla ha sperimentato “una resa incondizionata al Mistero che rifà nuove tutte le cose”

Dopo ventiquattro anni di matrimonio apparentemente sereno – racconta Carla Bonifati – l’unione con mio marito è arrivata a un drammatico capolinea. Dire di vederti il mondo crollarti addosso è poca cosa, quando il senso di appartenenza ti ha segnato in modo definitivo e pensi di aver dato tutto perché il tuo nucleo familiare fosse felice e quieto. E lentamente, nel dolore, cominci ad interrogarti: ma sei veramente tu che costruisci, sei veramente tu che custodisci?

Bambino dai capelli rossi

La storia di Carla e suo marito Pio Barletta sembra trovare inizio nel tempo lontano dei primi ricordi d’infanzia. “E’ impressa dentro di me l’immagine di un bambino dai capelli rossi che all’asilo mi aveva protetta da altri bambini. Ricordo che quando, dopo tanti anni, ho rivisto Pio a Castrovillari durante le vacanze estive, il pensiero è tornato a quel bambino buono che mi aveva difesa”. Pio durante l’adolescenza si trasferisce a Milano, ma torna a Castrovillari per le vacanze. E’ in questi mesi spensierati che inizia a conoscere Carla e a condividere con lei incontri e caritative con il gruppo di Comunione e Liberazione.Ci siamo legati sempre di più e quando è stato il momento di scegliere cosa fare all’università abbiamo deciso di andare entrambi a Roma. Volevamo far crescere il nostro rapporto stando finalmente vicini”.

Richiamo della terra

Carla si iscrive a Psicologia, Pio a Scienze politiche. “Lui voleva laurearsi ma allo stesso tempo sentiva che ci stava stretto in un lavoro che ignorasse la sua creatività e manualità. Così se ne è letteralmente inventato uno. Io nel frattempo mi sono laureata. Dopo solo due settimane ci siamo sposati e trasferiti in Calabria da me”. Pio sente forte il richiamo delle sue radici, di quella terra lasciata troppo presto e che non ha vissuto in profondità. “In un certo senso lui ha sconvolto la sua vita trasferendosi da Milano a Castrovillari, ma lo stesso è successo per me che avevo rifiutato una proposta di dottorato per stare con lui. Ero certa che la mia strada fosse un’altra, e insieme a Pio”.

Senza alcun dubbio

Il matrimonio è cercato da Carla e Pio con convinzione: “Non ci interessava cosa pensassero gli altri, noi ne eravamo certi. L’abbiamo voluto fino in fondo questo matrimonio. Non ci importava dell’aspetto economico, non ci importava dei soldi che non c’erano. Abbiamo organizzato tutto con semplicità e ci siamo affidati tanto anche alla fantasia, all’aiuto degli amici. I primi anni di matrimonio sono stati senza figli. E’ stato un grande dolore, un problema mio. Solo dopo otto anni è arrivato finalmente Giulio”.

Una vita in frantumi

Passano gli anni, la vita di Carla e Pio si cristallizza nella routine quotidiana, fatta anche di silenzi, distanze, incomprensioni. “Ho iniziato a dare tutto per scontato, come se tutto fosse ormai così e non potesse più cambiare. Era la nostra vita, cosa poteva succedere? Avevamo una storia di fede condivisa, amici, nostro figlio. E invece…”. E invece per Pio le cose cambiano interiormente, si fanno confuse, contrastanti, poi sempre più chiare. Una sera le dice che lui ha un’altra donna. E’ un mondo che va in frantumi. L’imprevedibile si fa largo in una storia che sembrava già a lieto fine. Carla non sa cosa fare: “Mi ero fatta scudo della dottrina, ma ho finito con il considerare l’altro al pari di un soprammobile, la cui esistenza scontata non mi richiamava più realmente al destino di felicità al quale entrambi eravamo stati chiamati. Era venuto meno il donarci l’un l’altro, ogni giorno.

La libertà è di chi ama

Pio va via di casa, cerca una nuova felicità altrove. Carla lotta con sentimenti che non le appartengono. E’ ferita, arrabbiata, si ammala.In mezzo a tanto male ho cominciato a dirigere il mio sguardo al cuore di Gesù, a chiedergli di perdonare il male, che per il nostro egoismo finiva con il coinvolgere anche nostro figlio, e a confermargli la certezza che avevo che Lui era presente. Non nascondo i sentimenti di rabbia, di frustrazione, di rifiuto attraverso cui sono passata, ma ogni volta una voce più grande mi ripeteva di non avere paura della libertà, anche se questa implicava soffrire, capire, perderlo e lasciarlo andare. Perché al fondo di questa libertà che Pio stava cercando con tutto sé stesso, anche se del tutto mondana, c’era sicuramente Cristo ad attenderlo, fonte della vera vita e della vera gioia”.

Anime gemelle

Non ho mai pensato che quell’uomo non fosse più mio marito, che non fosse degno del mio amore gratuito. Mi tornavano spesso in mente le parole di una lettera di Tolkien al figlio Michael: "Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non siano che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)". La mia anima gemella era davvero quella che avevo sposato e in qualche modo, Lui, ci avrebbe fatto rincontrare con i suoi strumenti”.

La grazia del perdono

Per Carla, dopo la lunga notte, inizia l’alba dell’anima. L’Amore di Dio le avvolge il cuore, si scopre cambiata davanti a Lui.Mi sono ritrovata a pregare per la sua felicità, appassionata al suo destino come il giorno in cui gli avevo detto sì davanti a Dio. E io avrei atteso. Mi dicevo "Tu puoi andare dove vuoi e io non ti trattengo, ma se vuoi tornare io sono qui, perché un Altro mi consente di comprendere veramente cosa sia una casa, un luogo: non una costruzione delle nostre mani, ma l’avvenimento di una Grazia, di una scelta da parte sua, di un privilegio di sguardo". Mai mi sono sentita così amata. E miracolosamente è accaduto che anche Pio abbia avuto il cuore toccato da questo fiume di Grazia e abbia riconosciuto l’errore, trovando la forza di chiedermi perdono e di tornare là dove la sua esperienza di uomo era realmente riconosciuta e compiuta”.

Rigenerati in Cristo

Abbiamo fatto festa. Il mio rancore è misteriosamente scomparso, lasciando il posto a una nuova accoglienza e a una nuova pagina della nostra storia. Dove il vero punto non è moltiplicare parole, ma camminare alla sua presenza”. Carla e Pio hanno difeso la loro famiglia senza arrendersi, cadendo e poi rialzandosi. Oggi vivono una nuova vita insieme, rigenerata da quel perdono reciproco che rende nuove tutte le cose. (m.l.r.)


Il racconto del marito Pio

Riassumere il mio cammino è davvero arduo”, racconta Pio. “Sicuramente è stato un percorso di ricerca della mia felicità riposta più nella superficialità, fidandomi di falsi sorrisi e false promesse, piuttosto che nella realtà che mi stava davanti. Dopo diverse difficoltà lavorative e le incomprensioni sistematiche con Carla, ho creduto che la felicità stesse nel bruciare le situazioni quotidiane senza progetto e senza futuro. Mi sembrava così… ma non ero contento. Con questa nuova donna non mi sentivo veramente accolto, si parlavano lingue diverse (non solo culturalmente), avevamo età differenti. La costante e sempre rispettosa vicinanza di Carla, attenta ai miei tempi anche se rigorosamente distante, mi ha dato la scossa del risveglio e ha fatto scaturire in me l’umile richiesta di perdono, perché come il figliol prodigo ho capito finalmente che la felicità non dovevo cercarla altrove, era già dentro di me, bastava solo riconoscerla. Ed era nella misericordia, nella riconoscenza, in uno sguardo diverso che trafigge la nostra stupida corsa e la qualifica, la colora, la rende desiderabile, rispettosa dei propri tempi”.

FONTE: A Sua Immagine N. 128
20 giugno 2015



In un blog come questo, che parla di Amore (quello Vero, fatto di autentica, genuina donazione di sé stessi), ho pensato che prima o poi dovessi postare qualcosa incentrato sul Perdono, di questa Altissima forma di Amore, tra le più belle, meravigliose e sublimi che esistano. E lo spunto di fare ciò me lo ha dato quella magnifica rivista che è “A Sua Immagine” (rivista collegata direttamente all’altrettanto splendido programma di Rai 1 che va in onda tutti i sabati pomeriggio e che consiglio a tutti di vedere).
Questa storia è veramente bella anche perché si intreccia con quella della propria Conversione personale. Al centro di tutto infatti c’è Lui, Dio, al quale sia Carla che Pio si sono affidati durante il periodo della propria momentanea separazione. Questo tempo ha permesso loro di capire i propri sbagli, di rinnovarsi interiormente e di acquisire quella forza e quella volontà per riavvicinarsi nuovamente e ricominciare tutto daccapo. Ricominciare sì, ma questa volta in un unione che non avesse solamente loro due come soli ed unici protagonisti, ma con la presenza di una terza Persona, Gesù Cristo, nostro Signore e Redentore, vero e proprio “collante” di ogni unione matrimoniale che si vuole fondare sui più veri e autentici Valori Cristiani. E così la storia matrimoniale di Carla e Pio è ricominciata, ma stavolta con uno slancio, una gioia e un Amore del tutto diversi rispetto al passato, quell’Amore che può venire solamente da Dio.


Marco

lunedì 28 dicembre 2015

Luca, vent’anni per Gesù


Voglio vivere una donazione totale all’altro, secondo lo stile dl Gesù.
(Luca)


Una domenica di maggio 1975 a Cuneo. Nella parrocchia "Cuore Immacolato di Maria", è festa di Prima Comunione. Tra bambini c’è Luca Ferrari, otto anni, lo sguardo dolce e sbarazzino, contento del suo primo incontro con Gesù... Si ferma in preghiera davanti alla statua della Madonna, poi le dà la mano, come fa con la mamma. Da quel giorno Ella l’avrebbe guidato sulle orme del Figlio suo. E lui la chiamerà «Mamma Maria».
Luca era nato il 7 dicembre 1967, vigilia dell’Immacolata, terzo dopo Paolo e Laura. Bambino vivace, papà Enrico lo chiamava «il grillo». Dai genitori scopre che Gesù è il più grande Amico e che la vita va spesa come dono d’Amore.
Ogni mattina, ogni sera, con i suoi cari, si raccoglie a pregare. Alle elementari, intelligente e studioso, è capace di amicizia con tutti: buono, sorridente, un gran mattacchione. Tutto lo appassiona. Frequenta il catechismo parrocchiale...
Si affeziona al parroco, Don Giorgio, fervente e dinamico, che diventa la sua guida, colui che, con la mamma Elsa, lo aiuterà a intessere un intenso rapporto d’Amore con Gesù. Quando riceve la Cresima, Luca, undici anni, sa che ora tocca a lui essere un cristiano vero.

Gesù è la gioia

È limpido come l’acqua che scroscia dai monti della sua terra. Impara a conoscere stupendi modelli di vita: Tarcisio, il ragazzo martire di Roma antica (cui è intitolata l’associazione parrocchiale), giovani Santi come Domenico Savio e Pier Giorgio Frassati. Non può sopportare ingiustizie né azioni scorrette: «Io con quello non ci sto più, perché dice troppe parolacce» — s’impenna indignato.
Quando arriva alla scuola media, l’istituto Maria Immacolata, è un ragazzo felice che studia volentieri e che si fa tanti amici con i quali gode un mondo a giocare, a fare sport, a cantare.
A fianco dei genitori, gli nasce dentro la passione per la montagna. Luca è un adolescente che sogna le vette.
Mentre diversi compagni non frequentano più la parrocchia, lui è fedelissimo agli incontri formativi, alla Confessione frequente, alla Messa festiva e spesso anche durante la settimana, sempre con la Comunione. Crescendo, sente di aver ancora più bisogno di Gesù e vuole conoscerlo a fondo: comprende che Gesù è la sorgente della gioia vera.
Nel 1981, dopo la terza media, s’iscrive alle superiori. Ha nel cuore il desiderio di portare Gesù a scuola, dovunque. Comincia a voler bene a tutti i compagni ed è sempre pronto a dar loro una mano, anche quando gli costa. Studia con intelligenza e impegno, sempre promosso tutti gli anni, e vuole approfondire fatti e problemi: ha la passione della Verità. Negli incontri in parrocchia, nel colloquio sempre affettuoso con i genitori. Luca matura una Fede forte e gioiosa. Incontra giovani che trattano con ironia chi crede. Luca risponde con bontà, ma spiega loro con chiarezza chi è Cristo. A scuola c’è un professore che attacca i cattolici. Solo Luca interviene deciso: «Questo non è vero. Lei non può parlare così!»
È pronto a dar ragione della sua Fede con convinzione così profonda e motivata da stupire. Carlo, il suo vicino di banco, un giorno gli confida: «Voglio farmi prete». Luca ne è orgoglioso. Quando Carlo trova difficoltà, solo lui continua a sostenerlo: «Coraggio, va avanti. E’ una scelta meravigliosa». Una volta entrato in noviziato dai salesiani, Luca va spesso a trovarlo: «Tieni duro! Il Signore è con te».
A chiunque incontra, annuncia Cristo con brio, simpatico ed attraente. Ricco di umanità, è accogliente verso tutti e fa sentire loro che solo Cristo è il senso e la bellezza della vita, che Lui è più forte del dolore, del peccato, di qualsiasi dramma. Luca affascina con il suo sorriso e la letizia che emana dalla sua figura: gli altri comprendono che solo Gesù è il segreto di questa vita, di questa gioia.

«Come persona gradita al Signore»

Si impegna in parrocchia interessandosi ai bambini, ai poveri, collaborando con la "S. Vincenzo", senza risparmiare fatica. Si dedica ad un giovane che sta scivolando verso una brutta strada. Durante la festa, una sera di capodanno, in parrocchia, un giovane che conosce è ubriaco. Luca se lo carica sulle spalle e lo porta a casa sua. rinunciando alla festa, e lo fa dormire nella sua camera. Sente che tocca anche a lui far vedere Gesù.
«Qui — dice con i compagni — bisogna sputare l’anima». Ma sa che non potrà far nulla da solo: «Sto portando avanti un progetto di sensibilizzazione per dare aiuto ai bambini dell’India — scrive ad un amico —. Per questo ti chiedo di pregare perché il Signore mi dia la forza».
Luca ha sempre creduto alla preghiera. Ora prega, cuore a cuore con Gesù. Ama molto "Le preghiere" di M. Quoist: le medita e ne fa parte agli amici, con i quali spesso afferma: «L’unica cosa è pregare», perché si fida di Dio e da Lui attende tutto...
Fin da bambino, ha un’affezione grande alla Madonna: la sente e la prega come Mamma, le affida i suoi cari, gli amici, i progetti di bene. La prega spesso nel suo Santuario di Fontanelle. Confida: «Ogni mattina, metto la mia giornata nelle mani della Madonna». Scrive: «Lungo la via della vita, l’incontro con la Mamma è sempre rassicurante». Prega con il rosario e insegna agli altri ad amare «Mamma Maria».
In parrocchia con gli amici ha organizzato un complesso musicale. Partecipa spesso con i genitori e gli amici a giornate allegre in montagna. Si diverte «da matti» a giocare a pallone, a pallavolo ed è pure uno sciatore provetto. Ma nei momenti più impensati, propone agli amici: «Ora preghiamo insieme». Una sera, sale con loro a S. Anna di Vinadio, a piedi. È buio fitto, ma giunti alla meta, Luca li invita a pregare sotto il cielo stellato... Non raramente, si apparta da solo e nessuno può rapirlo dal suo colloquio con Dio. Tutti lo sentono fratello, ma i più attenti si accorgono che è diverso.
A Carlo, l’amico che si avvia al sacerdozio, scrive: «Ti ringrazio perché con la tua presenza ed esempio, mi incoraggi ad andare avanti nel cercare di costruirmi come persona gradita al Signore». È il suo progetto, il medesimo di Gesù: «Sono venuto per compiere la volontà del Padre». Così, quando nasce la nipotina Samantha, Luca, diciottenne, accetta con orgoglio di farle da padrino: «Allora sono diventato grande» — commenta commosso — e partecipa con i genitori della piccola alla preparazione del Battesimo impegnandosi a trasmetterle la sua Fede.
Nel 1986, ha conseguito la maturità. È un giovane forte e slanciato, dallo sguardo bello e puro. Non è mai entrato in una discoteca né ammazza il tempo in esperienze di vizio e di peccato. Durante l’estate, a Taizé, incontra giovani di mezza Europa ed approfondisce la sua capacità di pregare. Fa amicizia con un gruppo di giovani che, al ritorno, gli chiedono un piccolo contributo per i bambini dell’India. Luca possiede in banca 700.000 lire (poco più di 300 euro), frutto del suo primo lavoro, e dice al papà: «Manda tutti i miei soldi a quei bambini». Per loro si priva di tutto quel che ha.
Giunto il tempo del servizio militare, presenta domanda di obiezione di coscienza: «Io sottoscritto... dichiaro di essere contrario all’uso delle armi e della guerra... Voglio vivere una donazione totale all’altro secondo lo stile di Gesù: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano». Voglio donare me stesso per realizzare un incontro nella carità, vincolo di perfezione, nella quale soltanto potranno essere superati gli eterni conflitti tra gli uomini e le nazioni
». Presta servizio civile alla Caritas, presso il Centro-Famiglia di Borgo San Dalmazzo, strappando l’ammirazione degli assistiti e del responsabile. Vuole dare di più, specialmente per i bambini cui fa dopo-scuola. Nei momenti di libertà, spiega ai più giovani il valore del servizio ai fratelli, l’urgenza di costruire un mondo di pace. Ma ormai Dio lo veniva preparando all’offerta suprema.
Nel marzo 1987, Luca si frattura una gamba, cadendo dagli sci. Ingessato, si lamenta con la mamma: «Sono immobilizzato, mentre c’è tanto bisogno di far del bene
». La mamma gli ricorda: «Gesù ha salvato il mondo sulla croce». Luca ascolta: «Mamma, parlami ancora di Lui». La luce arriva ed egli offre la sua sofferenza con Gesù. Risponde: «Adesso andiamo in chiesa a pregare. Ed insieme alla mamma, prega: «A me basta il mio Dio...» (Salmo 15)». Ha compreso che la sofferenza offerta per Amore con il Crocifisso, diventa Redenzione del mondo.

Una svolta nella sua vita

Guarisce presto e riprende le sue attività... scala le montagne. il «suo» Monviso... Di lassù guarda il cielo che è più bello e la terra che si fa lontana e piccina. Le foto lo mostrano sulla vetta, vicino ad una croce... Sono mesi densi di Amore a Cristo e al prossimo, vivificati dalla preghiera e dalla Comunione Eucaristica. Luca diffonde attorno a se la luce e la pace che solo Dio può dare.
Un giorno d’agosto 1987, conversando, la mamma gli ricorda: «La vita si costruisce solo con Gesù... Chi è Gesù per te?». Le risponde Luca: «Gesù è il mio unico punto di riferimento. Colui per il quale viviamo. Ma credi che sia facile costruire tutto su di Lui?».
Sa di aver bisogno del Perdono e della Grazia Divina e cerca tutto questo nella confessione frequente per ripartire più limpido e più capace di amare.
Nel settembre 1987, con gli amici dei "Focolari" (cui appartengono i suoi genitori), Luca è a Roma, in udienza dal Papa: è radioso quando può stringergli la mano, sorridergli...
In ottobre, partecipa alla Messa celebrata presso "l’Ausiliatrice" di Torino, da don Commisso, salesiano, per il 25° di matrimonio dei suoi genitori. Riceve la Comunione sotto le due specie: il calice in cui beve il Sangue di Gesù è quello di Don Bosco e Luca sprizza di felicità. L’ultima foto della sua vita lo mostra così: Luca, con il Sacro Calice tra le mani, vicino al sacerdote, quasi si confonde con il volto di Gesù che ha alle spalle, in una stupenda immedesimazione d’Amore!

«Ho vissuto in Te»

Il 7 dicembre 1987, compie 20 anni. È festa in casa Ferrari. Il 9, presta la sua opera in una casa di riposo. La sera del 10 dicembre, mentre sale da Borgo Gesso, con la sua piccola «500», è investito da un’auto che sbanda. All’ospedale si riscontrano numerose fratture sul suo corpo. Accorrono i genitori. Luca, tutto dolente, chiede ad un’infermiera: «Dica alla mia mamma che le voglio bene». È operato per l’asportazione della milza. Appena riprende conoscenza, dice ai suoi genitori: «Perdono il giovane che mi ha investito. Desidero vederlo per dirglielo di persona». Dopo qualche istante: «Non costituitevi parte civile, non fate nulla che possa nuocergli». Sembra riprendersi bene. Sa che sarà esonerato dal servizio civile: «Papà, — spiega —
io quelle persone là non le voglio lasciare. Lo farò come volontariato, ma i miei venti mesi con loro li voglio passare tutti». E ancora: «Vorrei lasciare al Centro Famiglia di Borgo San Dalmazzo l’assicurazione». «Sì — gli risponde il papà — faremo tutto quello che vuoi, ma ora pensa a guarire».
Seguono giorni di trepidazione e di speranza. Tutti pregano per lui. Ogni giorno, Luca con i genitori prega con il "Magnificat", per lodare il Padre con Maria e offrire tutto per la sua Gloria. Vengono a fargli visita il parroco Dan Giorgio, il vice Don Beppe, sacerdoti, amici: «Luca, vuoi pregare?» —
«Sì. — risponde subito — l’Ave Maria, perché è rivolta a Mamma Maria e poi perché me l’ha insegnata mamma». Vuole spesso la Comunione, perché con Gesù non c’è da aver paura. Nel suo corpo dolente sono infilate più di dieci flebo. Il medico cerca di calmargli il dolore ma Luca gli chiede: «Solo mezza iniezione. Voglio resistere da solo. Voglio essere lucido!».
Negli stessi giorni, nel medesimo ospedale, nasce il nipotino Matteo. Luca commenta: «Se nasce lui, c’è già chi mi sostituisce... io posso anche morire». Ma il giorno di Natale, è in un letto «normale». Non vuole regali: «Mamma, non si può vivere questa festa in povertà?». Alla sera, tutti i familiari si radunano attorno a lui.
Domenica 27 dicembre, Luca sente un dolore al petto. Mormora: «Signore, pietà». Si rivolge alla mamma con voce intensa: «Com’è bello il Cielo!». Poi: «Guarda il campanile della nostra chiesa: si vede solo più la croce!». Le cure continuano, ma la fitta al petto si fa più forte: l’aorta sta cedendo. È il 28 dicembre 1987, festa dei SS. Innocenti. Luca vuole vedere il nipotino Matteo, di pochi giorni: lo accarezza, lo bacia. Mentre il sole tramonta, dietro le vette inondate di luce, Luca chiama: «Mamma, voglio pregare». Ed insieme alla mamma, dice piano, sottovoce, la sua preghiera prediletta, "Gratitudine" di Chiara Lubich: «Gesù, ti voglio bene, perché sei entrato nella mia vita, più dell’aria nei miei polmoni, più del sangue nelle mie vene. Sei entrato dove nessuno poteva entrare... Ogni giorno ti ho parlato, ogni ora ti ho guardato e nel tuo volto ho letto la risposta, nelle tue parole la spiegazione, nel tuo Amore la soluzione. Ti voglio bene, perché per tanti anni hai vissuto con me ed io ho vissuto di Te... Dammi di esserti grato, nel tempo che mi rimane, di questo Amore che hai versato su di me e m’ha costretto a dirti: ti voglio bene».
Sono le sei di sera. Luca, vent’anni colmi di dedizione, contempla Gesù e, nella sua Gioia infinita, gli ripete in eterno «Ti voglio bene».

di Paolo Risso


FONTE:  Unità Pastorale Valfreddana Nord-Ovest


Ho conosciuto la figura di Luca Ferrari, attraverso la mia chiesa, la parrocchia di S. Paolo Apostolo di Parma, il cui gruppo è andato a conoscere i suoi genitori e amici più stretti, in Piemonte, nel paese in cui Luca ha vissuto la sua breve ma intensa vita. Sono rimasto molto colpito da questo ragazzo, così "intriso" di vera, genuina Fede, pur rimanendo un ragazzo come tutti gli altri, amante della vita, degli amici, delle escursioni in montagna.... ma tutto sempre vissuto alla Luce di Cristo, sua unica Guida, Verità e Vita.
E' veramente una bellissima figura, che può rappresentare certamente un modello da imitare per tutti, sopratutto per i giovani di oggi, troppo spesso lasciati soli a loro stessi, alla mercè di un mondo e di una società troppo consumistica e spesso lontana dai Veri Valori. E allora ecco che oggi, 28 Dicembre, proprio il giorno in cui Luca lasciava questa vita, esattamente 28 anni fa, ho pensato di postare questo splendido ricordo di lui, trovato su internet, dalle parole di chi certamente ha avuto modo di conoscerlo bene.  E' il mio piccolissimo omaggio a questo ragazzo, volato in Cielo nel fiore degli anni, per arricchire quel Giardino meraviglioso che è il Regno di Dio, che tutti ci attende, solo che lo vogliamo, e di cui Luca è certamente un fiore stupendo.
Grazie Luca, di tutto !!!

Marco

martedì 2 dicembre 2014

Dopo 17 anni fa la cosa giusta e rimedia ai suoi errori


Non è mai troppo tardi per rimediare ai propri errori
e lo dimostra la storia di un uomo tormentato dal senso di colpa per aver derubato la sua scuola quando aveva solo 12 anni: e così, dopo 17 anni, ha deciso di inviare alla scuola una lettera di scuse e una busta piena di soldi.
E’ successo in California, a Nevada City, dove James Berardi – preside della Grizzly Hill Elementary School – si è visto recapitare una lettera scritta a mano, firmata e accompagnata da 300 dollari. Nella lettera, il mittente spiegava che 17 anni fa, quando frequentava la scuola ed aveva solo 12 anni, aveva rubato dei soldi che dovevano essere destinati ad una gita scolastica o alla festa di fine anno.

Ho fatto irruzione a scuola”, ha scritto l’autore della lettera, di cui non è stato reso noto il nome, “poco prima della fine dell’anno scolastico. Ho rubato il denaro di alcune classi (che lo avevano messo da parte per una gita o per la festa di fine anno) e, dall’ufficio del preside, ho rubato alcuni oggetti che erano stati confiscati. Ho rotto qualche serratura e i telai di alcune finestre. Non so esattamente quant’è costato riparare i danni, né quanti soldi avevo rubato. Secondo i miei calcoli, dovrebbero essere 300 dollari. Ho allegato alla lettera questa cifra per rimediare a ciò che ho fatto, per cercare di risarcire i danni e riparare ai miei errori”.
La bella missiva, infine, si chiudeva con questa frase: “Se, a scuola, lavora ancora qualcuno che si ricorda di questo episodio e ritiene che 300 dollari non siano sufficienti a coprire i danni, non esitate a contattarmi”.

Il preside Berardi ha subito contattato l’ex allievo per ringraziarlo del bellissimo gesto e per comunicargli che i soldi inviati erano più che sufficienti. Ed ha commentato, visibilmente commosso: “Mi auguro che questo gesto gli abbia dato la serenità che stava cercando. Forse l’ha fatto per liberarsi da un grosso peso o dal senso di colpa”.

Secondo gli insegnanti della Grizzly Hill School la lettera vale molto più del denaro che conteneva, perché ha dato agli studenti un’importante lezione di vita. “Questa persona ha fatto una cosa sbagliata”, ha sottolineato Willow De Franco, “E forse si è sentita così male e così in colpa per aver fatto scelte sbagliate, che alla fine ha deciso di rimediare al suo errore”.

di Laura Pavesi

22 luglio 2014

FONTE: Buonenotizie.it



Non è mai troppo tardi per rimediare ai propri errori! Questa vicenda è molto semplice nel suo svolgimento, ma molto significativa, per il gesto, l'atto, il pentimento dell'uomo che sa di aver commesso un errore (fatto peraltro compiuto quando era un ragazzino) e sopratutto la sua voglia di riparare. In questo caso si è trattato di restituire una somma di denaro..... ma il pentimento e l'atto riparatorio si può esplicare in mille modi diversi: la prima e più importante è quella di chiedere semplicemente e con molta umiltà.... "SCUSA".
Riconoscere i propri errori, chiedere perdono, è segno di grande Umiltà..... e chi possiede questa bellissima dote, questa splendidà Virtù, possiede molto, direi persino che possiede TUTTO! Chiedere scusa non significa essere deboli, anzi..... vuol dire essere forti, forti nel capire di essere nel torto, riconoscersi tali nei confronti di chi abbiamo danneggiato (forse la cosa più difficile) e infine, se possibile, voler riparare al torto o ai torti compiuti. Beati, beati coloro che lo fanno! E beati coloro che accettano il perdono della persona pentita...... anch'essi sono Beati.
Chissà in quante parti del mondo avvengono gesti come questi.... e anche di ben più grande portata. Questo è uno, un esempio che è uscito dall'anonimato ed è stato riportato dai giornali..... ma chissà quante volte accadono cose come queste. E meno male dico io..... e peccato, aggiungo, che non succeda sempre. Se l'uomo sapesse sempre chiedere scusa e volesse sempre, tenacemente, voler riparare, per quanto è possibile, agli errori compiuti...... ah, quanto sarebbe migliore il mondo in cui viviamo!
Facciamolo, facciamo sempre.... impariamo a chiedere scusa.

Marco