lunedì 23 dicembre 2019

Paola Senatore, una vita tormentata: dai film erotici al carcere fino alla conversione


Attrice popolarissima per tutti gli anni’70, musa di una generazione di italiani, finì in carcere nel 1985 per droga: da lì un lungo percorso di rinascita attraverso la Fede

Di film ambientati in un carcere femminile ne girò parecchi. Ma un giorno in cella ci si trovò per davvero. Era il 13 settembre 1985: una data spartiacque nella vita dell’ex attrice Paola Senatore, uno dei sogni erotici ventennali per migliaia di italiani (musa di Brass, D’Amato, Lenzi e fra le regine indiscusse della commedia di genere). Ma chi pensa che da lì sia iniziato il baratro, forse si sbaglia. È la stessa Paola a tirale le somme di un’esistenza piena che oggi, da quello sfregio d’immagine in pieni anni Ottanta, può definire “una vera vita”. Che piano piano, e soprattutto nel silenzio, in questi anni ha rimontato con Fede, ordine e riavvicinamento ai propri affetti.

Come si definisce, oggi, Paola Senatore?

«Felice, serena, gioiosa ma con la testa sul collo».

Che infanzia ha avuto?

«Difficile. Mia madre mi raccontava continuamente della sua vita e della sua influente famiglia. Ero una bambina ansiosa con tutti quei racconti che ascoltavo, anche se piccola! Lei doveva sposare un barone molto più grande di lei come deciso dalla famiglia. Erano tempi difficili. Anni difficili. La guerra finì nel 45: lei proprio sotto i bombardamenti conobbe un ragazzo e si innamorarono, fu un colpo di fulmine: la mia vita iniziò lì, concepita sotto quelle bombe. Ma in quel momento iniziarono anche le complicazioni: mia madre si era ribellata ai piani matrimoniali che i nonni avevano per lei. Si rifiutò di entrare in convento e di darmi in affido, come si conveniva».

Come andò a finire?

«Fu mandata da lontani parenti romani che in effetti si presero cura di lei. Ma volle staccarsi ad un certo punto. E per essere più libera mi mise in un collegio. Il distacco fu atroce».

Che ricordi ha di quegli anni?

«Parliamo di un collegio della Roma bene. Eppure i miei ricordi sono ombrosi: mi raccontavano di strani riti, di storie misteriose che accadevano lì dentro, mi sentivo impaurita. Stiamo comunque parlando di esperienze e suggestioni vissute con gli occhi dell’infanzia. Ricordo un bimbo di cinque anni, ma che si dimostrava già un ometto, che un giorno arrivò a dirmi: “Ti proteggerò io”. Stavamo sempre insieme, mi dava forza. Finalmente a sei anni uscii: ero felicissima, era la Pasqua del 1952. Conobbi finalmente zie e nonni e la mia vita prese una piega diversa, morbida e dolce».

Cosa sognava di fare da grande? È riuscita a realizzarsi, secondo lei?

«Si, ci sono riuscita. Io sognavo soprattutto di viaggiare ed ho realizzato il mio sogno. Il viaggio era dentro di me, mi apparteneva. Sarei diventata pilota se il brevetto fosse costato di meno. Volevo scalare monti, attraversare deserti, scandagliare mari, attraversare cieli, di tutto e di più. Ci riuscii. Volevo incontrare il sole questo desiderio mi spaccava in due. Mi mancava molto mio padre: mia madre mi diceva che era morto, ma sapevo che non era vero. Lo capivo dal tono che usava. I vicini di casa dicevano che somigliavo a lui ogni giorno di più: lì mi si bloccava il respiro dall’emozione. Purtroppo non riuscivo mai a chiedere nulla, ma sapere che gli somigliavo per me era qualcosa di stra-mega galattico. Ricominciavo a respirare dopo un quarto d’ora quando ci pensavo. Lo cercavo ovunque. Ecco, per questo amavo il viaggio».

Il suo primo provino?

«Lo ricordo benissimo, dovevo interpretare un film a Parigi, “L’amore quotidiano”, del 1973. Mi fecero fare delle foto da un bravo fotografo: piacquero tantissimo, e così andai in Francia, a Parigi. Avevo 21 anni, fu un’esperienza fantastica. Ricordo che rimasi davanti al quadro di Adamo ed Eva non so quanto. Tanto. Mi colpì, mi avvolse, e quel giorno finii lì il mio peregrinare nei musei. Stordita dalle bellezze che vedevo».

C’è un aneddoto divertente che si ricorda durante gli anni del cinema?

«Ce ne sono tanti, soprattutto legato ai cavalli. Allora: li amavo tanto da adolescente, una mia cugina mi insegnò a cavalcare a 16 anni. Ero affascinata dal galoppo, come dalle corse in auto, faceva parte sempre della mia “inclinazione al viaggio”. A 18 anni andai a Indianapolis, in Florida, per vedere la Formula Uno con degli amici. Fantastico. Ho ancora nelle orecchie il grido dei motori».

Nel 1975 fu diretta da Tinto Brass: lo ha più sentito?

«No. Lavorai un po’ con Tinto, con “Salon Kitty” e “Action”. Poi smisi perché il mio compagno era molto geloso. Ricordo che non sapevo l’inglese, doveva doppiarmi sempre. Mi dispiace che Tinto ora non stia molto bene, non ero aggiornata su questo. Un messaggio per lui? Caro Tinto, posso dirti che pregherò per te per una pronta guarigione e una ripresa. Tu e la tua famiglia siete stati tutti affettuosi con me. Grazie ancora per quello che hai fatto per me, ti voglio bene».

Con che colleghi strinse amicizia in quegli anni?

«Helmut Berger: bellissimo ragazzo, con una grande sensibilità, tenerezza, un bel cuore. Capiva il mio imbarazzo in certe scene. Si era creato un bel rapporto sul set. E anch’io capivo lui, sentivo dei vuoti e alcune sofferenze che mi trasmetteva. Anche se tutti si fermavano sulla nostra bellezza esteriore».

Ha mai subito molestie sul set?

«No, mai subito molestie o subito maltrattamenti. Ero chiara e trasparente. Il marito me lo sceglievo io. Non amavo richieste di matrimonio né tantomeno altri escamotage per arrivare a me. Dicevo: “tu mi paghi, e io ti dò la mia immagine e il mio lavoro, ok. Poi se mi innamoro ti telefono io”. A quel punto qualcuno si infuriava. E il ricatto era sempre lo stesso: ti taglio il ruolo. A me non importava nulla, se accadeva. E poi a volte facevo finta di non capire: mi riusciva bene la parte della ritardata».

Arriviamo al giorno dell’arresto: 13 settembre 1985

«Ricordo dolente. Ero appena tornata da Riccione, mio figlio aveva 11 mesi. Avevamo trascorso una vacanza serena. Ero finalmente una mamma felice. Alle 21 qualcuno suonò il campanello di casa con tale veemenza che non ci volle molto per capire chi fosse. Il mio compagno era uscito verso le 16 e non vedendolo arrivare pensai a un incidente automobilistico. Invece fu trovato qualcosa in auto: pochi grammi di stupefacenti. L’auto era intestata a me e vennero a cercare me. Mi portarono in caserma: per interrogarmi, dicevano. Invece mi ingannarono e iniziarono già tutte le pratiche per l’arresto. Fortuna che prima di andare con loro passai da mia madre e le lasciai in custodia mio figlio: di questo la ringrazierò per sempre».

La sua carriera, poi, subì un tracollo: di lei non si seppe più nulla. L’impressione è che sparì di proposito, anche dopo essere rilasciata e dopo aver scontato i domiciliari. È così?

«Il mio lavoro e il successo diventarono l’ultimo pensiero per me. Mio figlio era al primo posto, solo lui, era molto più importante di ogni cosa per me. Anche se sulla sottoscritta leggevo e sentivo cose pazzesche».

Cosa la ferì, di più, di quello che si diceva di lei in quel periodo?

«Che ero una spacciatrice internazionale, che facevo servizi osè per pagarmi la droga: per due, tre grammi di stupefacente trovati in auto, messi non so da chi ancora. Comunque, decisi di troncare io la carriera. anche se mi offrirono cifre da capogiro, negli anni successivi alla mia disavventura. Dissi sempre no. Sempre e solo no».

Finì anche in cella di isolamento, giusto?

«Sì. Quando mi arrestarono soffrii molto. Pensavo a mio figlio e all’assurdità della situazione che stavo vivendo. Era tutto così insensato. Non sapevo come fosse un carcere, né come funzionava, come comunicare, come chiamare il personale in caso di bisogno, se poteva venire mia madre a trovarmi, se potevo vedere la famiglia. Avevo un groviglio nella testa, un cuore lacerato. Non potevo continuare senza sapere niente. Appena arrivata mi affacciai dallo spioncino blindato per chiedere se ci fosse qualcuno. Silenzio. Non sapevo cosa pensare, cosa fare. Ebbi subito una crisi di nervi. Cominciai ad urlare a piangere, ma non vidi comunque nessuno. Passai attimi che non auguro a nessuno».

Poi cosa successe?

«Dopo aver pianto, mi girai. Vidi un volto amico nella cella. Subito pensai: “Sarà entrato mentre urlavo”. Lui mi guardava e non parlava, pensai che gli facevo pena. Non mi ricordavo dove l’avevo conosciuto. Aveva capelli lunghi, barba, baffi, una tunica bianca con un mantello rosso. Allora per non fare una brutta figura cominciai a riflettere su dove l’avessi mai visto. Pensai “è venuto dall’India” basandomi sul suo l’abbigliamento. O forse dall’Inghilterra. Non riuscii a ricordarlo. Ad un certo punto sentii una voce potente che diceva questo: “Non tutto il male viene per nuocere. Di lì a poco sentii tremare tutto, poi un gran senso di pace».

Un “tipo” che poi ha rivisto spesso

«Una settimana dopo l’interrogatorio col giudice, lasciai la cella d’isolamento per andare al terzo piano con tutte le altre detenute. Appesa sul muro scorsi l’immagine di quel tipo che era venuto a trovarmi. Allora chiesi chi fosse. “E’ Gesù”, mi fu risposto in coro. Scusate, dissi io, ma “Gesù non era un bimbo piccolo in braccio alla Madonna?”. “Sì, certo ma poi è cresciuto” mi risposero le detenute, mettendosi tutte e ridere. Lì mi prese uno sgomento. Volli andare dalla psichiatra per chiederle se fossi impazzita, magari con il trauma dell’arresto. Parlammo tre ore, mi fece sentire normale. E mi diede delle pillole».

Fu quello l’inizio della sua conversione?

«Ripensando intensamente all’incontro fatto in cella d’isolamento, capii che quel tipo era davvero Gesù. E a volte quella che può sembrare una disgrazia è una salvezza. Da quel giorno mi trovai sempre al posto giusto, con la persona giusta. E alla fine pensai che l’arresto era stata, la fortuna più grande che mi era mai capitata perché da lì iniziò la mia vita. Quella vita finalmente dal senso profondo. Lasciai definitivamente lo spettacolo e iniziai il mio cammino spirituale. Dissi addio a tutto: ricchezze, gioielli, firme, feste, festini, saloni di bellezza, vita sregolata, follie, false luci, discoteche, palestre e un miliardo di altre cose per incontrare spiritualmente colui che mi aveva consolato quando ne ebbi bisogno. Oggi sono 35 anni che lo seguo. Insomma, sì, la mia Fede è iniziata in un carcere femminile e in un momento inaspettato e atroce della mia vita. Dal 1985 sono cattolica praticante».

Che progetti ha, oggi, Paola Senatore?

«Vorrei tradurre la mia esperienza in qualcosa da far vedere agli altri. Vorrei dargli voce attraverso un film, curandone la regia. Una storia di vita dentro un piano celeste. Le testimonianze arricchiscono ogni persona e quando c’è una vera conversione vuoi solo raccontarla a tutti perché vuoi che tutti siano felici. Vorrei che altri si confrontassero con quello che ho vissuto io. E sa perché? Perché il mio vissuto, la mia conversione, possono essere di tutti».



di Silvia Maria Dubois

5 novembre 2019

FONTE: Corriere della Sera


E' sempre bello raccontare storie di Conversione, e questa mi è capitata sotto lo sguardo quasi per caso.
E' bello constatare come Gesù possa divenire il "centro" della nostra vita da un momento all'altro, anche se fino ad allora si era vissuta una vita lontano da Lui. E' quello che è successo a Paola Senatore, ed è quello che succede a una moltitudine di persone in ogni momento ed in ogni parte del mondo. Perchè, come la stessa Paola dice: "La conversione, può essere di tutti".
E con questa bella storia di Conversione, auguro a tutti un sereno e felice S. Natale con Gesù Cristo al centro del proprio cuore.

Marco

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