Una cooperativa di donne pianta alberi e li fa crescere dando una mano all'ambiente e alle casse domestiche. Viaggio nel nord dell'Uganda dove il possesso di una quota di bosco può permettere di far studiare i figli
Una pineta in Africa non è cosa facile da incontrare. Dove non ci sono bisogna piantare gli alberi, ripararli dal caldo, aspettare che crescano. Nel distretto di Gulu, per anni teatro di una guerra che ha disboscato terreni e famiglie, c'è una pineta meravigliosa curata da sole donne.
Il posto si chiama Opok. Nel nord dell'Uganda il tarlo della deforestazione minaccia il bacino del fiume Pece che manda le sue acque (sempre più scarse) nel grande Nilo. Qui la Watemu Lapainat Agroforestery gestisce una piantagione di dieci ettari. E' una cooperativa di 37 donne. Per loro gli alberi hanno un valore molto concreto. Per esempio Angela Anyua, una delle fondatrici, con la sua quota di pineta ha mandato la figlia all'università. Ci vogliono dieci anni per poter tagliare un albero e venderlo come legname da costruzione. Intanto si mandano al mercato i rami secchi come legna da ardere. Le donne di Lapainat piantano e seminano, seminano e piantano. In questo modo, il bosco rimane ancora alla terra e viceversa. Trattenendo l'umidità, la pineta fa bene all'ambiente e al bacino del fiume Pece. I lavori pesanti sono appaltati agli uomini di ascia muniti, ma i cordoni della borsa e le redini della strategia restano in mani femminili. Questa avventura verde, partita con un progetto di microcredito, vede il sostegno finanziario dell'Unione Europea e della Fao. Da europeo è bello vedere (e sostenere) queste donne vestite con i costumi tradizionali all'ombra della pineta di Opok. Perché non ci sono uomini nella cooperativa? Perché preferiscono i guadagni facili (da consumare in alcool), rispondono le anziane, piuttosto che i tempi lunghi che una piantagione richiede. Perché non ci sono ragazze? Perché le figlie più giovani, secondo il costume locale, quando si sposeranno dovranno trasferirsi lontano, nel villaggio del marito. E dunque per loro non avrebbe senso entrare nella cooperativa. Fortuna che in un'altra parte della foresta incontri Stella Apiwo, trentenne sposata con figli, che da quando è giovanissima gestisce un pezzo di piantagione con la sua famiglia. Stella arriva a controllare lo stato degli alberi in moto. Si capisce che viene da un'altra classe sociale rispetto alle signore delle cooperative. Evidentemente i suoi guadagni sono anche maggiori. Non ancora al livello di Langoya Dickson, un altro inquilino (finalmente un uomo!) del bosco orizzontale che da quelle parti è comunque una rarità. Ha lavorato per il Dipartimento Forestale dal 1988 al 2004 prima di mettersi in proprio. Langoya ha studiato agraria a Kampala e ad Aberdeen, in Scozia. L'azienda che ha messo in piedi con la moglie conta 150000 alberi: pini, teak ed eucalipti. «Entro il 2024 ognuno varrà sul mercato 8mila scellini ugandesi: in tutto fanno quasi 5 milioni di euro (contro gli 80mila investiti)». Mica male. L'uomo degli alberi fa i conti in tasca anche alle sue vicine. «Per una famiglia media nel villaggio il costo della vita è pari a 3900 euro all'anno. Se anche una famiglia piantasse 5 ettari di mais, non riuscirebbe a far fronte alle spese. Ma se si devolvesse anche solo un ettaro alle piante da frutta, l'obiettivo è raggiunto».
Dall'agricoltura della sopravvivenza si può (si deve) passare all'agricoltura che ha permesso ad Angela Anyua di mandare la figlia all'università. E' chiaro che il fattore tempo è importante: che cosa si mangia, mentre le piante crescono? La differenziazione è più facile per Langoya Dickson che per le 37 donne della Watemu. Che infatti hanno altre piccole fonti di reddito (bancarelle) e il loro piccolo campetto di mais. Ma il segnale è importante, per un continente come l'Africa (che con il Sudamerica perde 5 milioni di ettari di foreste all'anno). I boschi fanno bene all'ambiente. E all'economia domestica.
Il posto si chiama Opok. Nel nord dell'Uganda il tarlo della deforestazione minaccia il bacino del fiume Pece che manda le sue acque (sempre più scarse) nel grande Nilo. Qui la Watemu Lapainat Agroforestery gestisce una piantagione di dieci ettari. E' una cooperativa di 37 donne. Per loro gli alberi hanno un valore molto concreto. Per esempio Angela Anyua, una delle fondatrici, con la sua quota di pineta ha mandato la figlia all'università. Ci vogliono dieci anni per poter tagliare un albero e venderlo come legname da costruzione. Intanto si mandano al mercato i rami secchi come legna da ardere. Le donne di Lapainat piantano e seminano, seminano e piantano. In questo modo, il bosco rimane ancora alla terra e viceversa. Trattenendo l'umidità, la pineta fa bene all'ambiente e al bacino del fiume Pece. I lavori pesanti sono appaltati agli uomini di ascia muniti, ma i cordoni della borsa e le redini della strategia restano in mani femminili. Questa avventura verde, partita con un progetto di microcredito, vede il sostegno finanziario dell'Unione Europea e della Fao. Da europeo è bello vedere (e sostenere) queste donne vestite con i costumi tradizionali all'ombra della pineta di Opok. Perché non ci sono uomini nella cooperativa? Perché preferiscono i guadagni facili (da consumare in alcool), rispondono le anziane, piuttosto che i tempi lunghi che una piantagione richiede. Perché non ci sono ragazze? Perché le figlie più giovani, secondo il costume locale, quando si sposeranno dovranno trasferirsi lontano, nel villaggio del marito. E dunque per loro non avrebbe senso entrare nella cooperativa. Fortuna che in un'altra parte della foresta incontri Stella Apiwo, trentenne sposata con figli, che da quando è giovanissima gestisce un pezzo di piantagione con la sua famiglia. Stella arriva a controllare lo stato degli alberi in moto. Si capisce che viene da un'altra classe sociale rispetto alle signore delle cooperative. Evidentemente i suoi guadagni sono anche maggiori. Non ancora al livello di Langoya Dickson, un altro inquilino (finalmente un uomo!) del bosco orizzontale che da quelle parti è comunque una rarità. Ha lavorato per il Dipartimento Forestale dal 1988 al 2004 prima di mettersi in proprio. Langoya ha studiato agraria a Kampala e ad Aberdeen, in Scozia. L'azienda che ha messo in piedi con la moglie conta 150000 alberi: pini, teak ed eucalipti. «Entro il 2024 ognuno varrà sul mercato 8mila scellini ugandesi: in tutto fanno quasi 5 milioni di euro (contro gli 80mila investiti)». Mica male. L'uomo degli alberi fa i conti in tasca anche alle sue vicine. «Per una famiglia media nel villaggio il costo della vita è pari a 3900 euro all'anno. Se anche una famiglia piantasse 5 ettari di mais, non riuscirebbe a far fronte alle spese. Ma se si devolvesse anche solo un ettaro alle piante da frutta, l'obiettivo è raggiunto».
Dall'agricoltura della sopravvivenza si può (si deve) passare all'agricoltura che ha permesso ad Angela Anyua di mandare la figlia all'università. E' chiaro che il fattore tempo è importante: che cosa si mangia, mentre le piante crescono? La differenziazione è più facile per Langoya Dickson che per le 37 donne della Watemu. Che infatti hanno altre piccole fonti di reddito (bancarelle) e il loro piccolo campetto di mais. Ma il segnale è importante, per un continente come l'Africa (che con il Sudamerica perde 5 milioni di ettari di foreste all'anno). I boschi fanno bene all'ambiente. E all'economia domestica.
2 gemmaio 2018
Corriere della Sera buone notizie
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