domenica 12 agosto 2018

Bologna, l’agente eroe: «In molti scattavano foto, li ho mandati tutti via». I 4 minuti dell’agente eroe


Le forze dell’ordine: bruciavamo, ma abbiamo dato l’anima

«
Ma certo che avevo paura, ero avvolto dalle fiamme e sentivo l’odore della mia carne che bruciava, chi non ne avrebbe avuta?». Provateci voi, a rispondere allo stesso modo per cento volte alla stessa domanda preconfezionata, "ti senti un eroe Riccardo?", mentre sei ricoverato nel reparto Grandi ustionati dell’ospedale Bufalini di Cesena, e hai la schiena, le gambe, le spalle e la nuca, insomma il 25 per cento del corpo, coperto da bruciature di secondo grado, che intanto si fanno sentire. «Eh, un po’ scotta».

La verità è che abbiamo tanto bisogno di buone notizie. L’agente Riccardo Muci da Copertino, Lecce, 31 anni, un matrimonio alle spalle, ex programmatore di volo Alitalia fino alla crisi del 2008, entrato in Polizia seguendo l’attrazione familiare per le divise, il padre Pantaleo è un sottufficiale dell’aeronautica in pensione, era la miglior notizia possibile, in una gerarchia dettata dalla vicinanza al fuoco, perché il coraggio, l’altro giorno sotto quel viadotto, l’hanno avuto in tanti. A riprova del fatto che i miracoli sono spesso un’opera collettiva.

Il racconto

«Con il mio collega eravamo impegnati nel servizio di Volanti sulla via Emilia. Quando abbiamo visto cosa era successo, io ho solo capito la situazione, e quel che sarebbe successo. Sapevo di avere poco tempo, perché ero certo che ci sarebbe stata un’altra esplosione. Sono sceso dall’auto e proprio sotto il ponte, lungo la via, era pieno di persone che facevano foto e riprese. Erano all’altezza del viadotto, addirittura si sporgevano per inquadrare meglio il camion, che da sotto mandava già piccole fiamme, era evidente che stava per saltare in aria. Io mi sono limitato a urlare, a fargli paura, a strattonare per mandare lontano quelli che non mi ascoltavano, mentre il mio collega bloccava la via con la Volante, e anche quella è stata una cosa importante. Davvero, non ho meriti particolari, e neppure ricordi da offrire, perché rivivo tutta quella scena in adrenalina, ho frammenti che scorrono veloci e non riesco a isolarne nessuno. Credo solo di aver usato bene quei quattro minuti tra la prima esplosione e quella pazzesca che è arrivata dopo».


Le ferite

Se l’è presa sulla schiena, mentre si sbracciava come per mandare ancora più lontano la gente che stava facendo fuggire. «Ho sentito un vento bollente che mi sollevava. Sono caduto, e mentre mi rialzavo mi sono accorto che la polo della mia uniforme aveva preso fuoco, ho sentito un dolore pazzesco su tutta la schiena e le fiamme che mi avvolgevano. Ho cominciato a correre urlando a chi vedevo di seguirmi. Appena ho raggiunto la macchina il collega mi ha buttato addosso dell’acqua, sentivo che gridava “acqua, serve acqua”. Finché ce l’ho fatta ho dato una mano ai carabinieri che stavano prestando soccorsi ai feriti, eravamo tutti insieme. Poi ho ceduto, avevo troppo dolore».

Altri eroi

La Polizia chiama, l’Arma dei Carabinieri risponde, o viceversa. Ma questa non è una gara. L’unica competizione è quella solita, tra le nostre due istituzioni. Questi sono solo uomini, persone normali dalle vite normali, gente semplice che quasi si sorprende di essere mostrata in pubblico per aver fatto quello che molti, si spera, avrebbero fatto. Come i militari della caserma di Borgo Panigale, duecento metri in linea d’aria dalla zona dell’esplosione, tutti i vetri infranti. «Abbiamo fatto quel che dovevamo e volevamo, abbiamo dato l’anima» dice sovrappensiero il maresciallo maggiore Arturo Guidoni, che lunedì mattina era appena rientrato dalle ferie, mentre guarda la batteria di telecamere davanti a lui, ed è una frase bellissima. Ha la testa e altre parte del corpo fasciati da garze, ha un racconto diverso solo nei dettagli dagli altri, ma con lo stesso significato. «Abbiamo sgomberato la strada. In ogni modo possibile. Meno male. Perché davvero, è stato tremendo. A un passante davanti a me si sono anneriti gli zigomi all’improvviso. Il calore era intollerabile, mi stava per scoppiare la testa, così mi sono salvato sfondando la vetrata di un bar».


Il maresciallo ordinario Fabio D’Alessio, romano del quartiere Laurentino, padre di un bimbo di otto mesi, ha anche le orecchie coperte da medicazioni, che non riescono a coprire del tutto le piaghe. Il suo pari grado Emanuele Manieri si è bruciato anche i gomiti e appare intimidito da questa esposizione mediatica. «Nessuno poteva immaginare la violenza dell’esplosione». Il comandante della compagnia Elio Norino, con ustioni di secondo grado al cuoio capelluto, racconta come abbia aperto la caserma per dare riparo a chi fuggiva, poi si schermisce alla richiesta di informazioni personali. «Siamo tutti insieme, le singole storie non contano».

Intanto all’ospedale di Cesena l’agente Muci ha ricevuto la telefonata del padre. «Bravo» gli ha detto. E si sono commossi entrambi. La sua convalescenza sarà lunga. «Ma basta con questa cosa che siamo stati coraggiosi. Abbiamo fatto il nostro dovere. E avere paura non è certo un male. Anzi, la paura ci permette di tornare a casa»

di Marco Imarisio

7 agosto 2018

FONTE: Corriere.it

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