martedì 29 marzo 2016

Le cose più forti del mondo


Un giorno un ragazzo chiese al vecchio saggio del paese… quale fosse la cosa più forte.

 Il saggio dopo qualche minuto gli rispose: Le cose più forti al mondo sono nove:

Il ferro è più forte, ma il fuoco lo fonde.

Il fuoco è forte, ma l’acqua lo spegne.

L’acqua è forte, ma nelle nuvole evapora.

Le nuvole sono forti, ma il vento le disperde.

Il vento è pure esso forte, ma la montagna lo ferma.

La montagna è forte, ma l’uomo la conquista.

L’uomo è forte, ma purtroppo la morte lo vince”.

“Allora è la morte la più forte”!

 - lo interruppe il ragazzo -

 “No” – continuò il vecchio saggio – “l’Amore… sopravvive alla morte”!


FONTE: 50 racconti per meditare... e da regalare




sabato 12 marzo 2016

Rinunciano al trapianto di rene per lasciarlo a chi è più giovane di loro e muoiono: le toccanti storie di Walter e Rina

"Lascio il mio posto a chi ha famiglia". Rinuncia al trapianto e muore
 
Walter Bevilacqua, pastore tra le montagne dell'Ossola, aveva 68 anni. Al parroco disse: "Io sono solo, è giusto così".

Varzo -
Sono solo, non ho famiglia. Lascio il mio posto a chi ha più bisogno di me. A chi ha figli e ha più diritto di vivere. Walter Bevilacqua lo aveva confessato al parroco poco tempo fa. La morte l'ha colto durante la dialisi a cui si sottoponeva ogni settimana all’ospedale San Biagio di Domodossola. Il cuore ha ceduto durante la terapia e la bara è stata portata a spalle al cimitero dagli alpini di Varzo, penne nere come lui. Dietro al feretro, le sue sorelle Mirta e Iside: Era proprio come lo descrivono: altruista, semplice. Un gran lavoratore. Sapeva che un trapianto lo avrebbe aiutato a tirare avanti, ma si sentiva in un’età nella quale poteva farne a meno. E pensava che quel rene frutto di una donazione servisse più ad altri racconta Iside.

Una vita piena di sacrifici, così come quelle di altri pastori di montagna, stretti alla loro terra. Solitario e altruista, nel momento più delicato della vita ha detto no al trapianto.
Sono in molti che aspettano quest’occasione. Persone che famiglia e più diritto a vivere di me. E’ giusto cosìaveva detto, con quella naturalezza che l'ha sempre contraddistinto. Bevilacqua è morto a 68 anni, una storia venuta alla luce quando il parroco del paese, don Fausto Frigerio, l’ha raccontata in chiesa durante la messa, un esempio da affidare a tutti. Quella frase pronunciata tanto tempo prima, gli era rimasta impressa: Me l’aveva detto durante una chiacchierata. So che l’aveva confidato anche a un conoscente con cui si trovava in ospedale per le terapie racconta il prete.

E' questa la notizia che ha bucato il silenzio dell'Ossola, in una valle corridoio verso la Svizzera, a una manciata di minuti. Sui monti della valle Divedro, Walter Bevilacqua ha trascorso i suoi anni, allevato dal nonno Camillo, uomo di altri tempi, ligio alle regole, gran lavoratore. Da lui aveva imparato a non risparmiarsi mai, a non lamentarsi delle difficoltù di chi vive in quota.
Credo non abbia mai fatto le ferie racconta chi lo conosceva bene. L’agricoltura e gli animali erano la sua passione. Il suo mondo era là, una fetta di terra strappata alla montagna che poco più in alto diventa spettacolo nella conca dell’alpe Veglia.

di Renato Balducci

20 gennaio 2013

FONTE: Lastampa.it


Rinucia al trapianto di rene e muore: "Datelo a chi è più giovane di me, io la mia vita l'ho fatta"

Paderno, provincia di Treviso, una 79enne ha rifiutato l'intervento che avrebbe potuto salvarla dopo 16 anni di emodialisi.

Da sedici anni era costretta a sottoporsi tre volte alla settimana a dialisi. Nonostante questa lunga battaglia, giunto il momento del tanto atteso trapianto di rene, ha deciso di rinunciarvi. Questo è il gesto di generosità di Rina Zanibellato, 79enne di Paderno in provincia di Treviso, che è morta per favorire qualcun altro in lista di attesa. Aveva spiegato a suo marito, a suo figlio e ai suoi parenti, la volontà e il desiderio di donare il rene della salvezza a un giovane, uno dei tanti ragazzi che aveva incontrato negli anni di dialisi.

Alla proposta di sottoporsi al tanto atteso trapianto, lei ha risposto nell’unico modo che conosceva, attraverso la generosità: “No, datelo a chi è più giovane di me, io la mia vita l’ho fatta”. E così ha continuato la dialisi, senza mai lamentarsi o abbattersi. Fino a giovedì 27 giugno, quando si è spenta nel reparto di Nefrologia dell’ospedale Ca’ Foncello, lo stesso ospedale nel quale aveva visto nel corso degli anni i tanti ragazzi malati come lei.

28 giugno 2013

FONTE: Tgcom24.mediaset.it

 

E' un post abbastanza datato, essendo del 2013, ma troppo profondo, troppo bello nella sua intensità d'Amore perchè io non lo mettessi sulle pagine di questo blog. 
Due persone, Walter e Rina, due vite diverse, distanti tra loro, anche geograficamente.... ma due storie in tutto e per tutto simili, accomunate da un unico comune denominatore: l'Amore, quello Vero, senza compromessi, per il Bene del prossimo e della vita. Sì, Amore anche per la vita, ma non la loro di vita, bensì quella di altri, di persone sconosciute più giovani di loro, a cui queste due splendide persone hanno ceduto il posto, hanno donato quell'organo che sarebbe toccato a loro e che avrebbe permesso loro di vivere ancora a lungo.
Forse qualcuno potrebbe obiettare che per una persona giunta oramai al tramonto della vita, sia più facile compiere un gesto come questo..... pensarlo è lecito, ma farlo è tutta un'altra cosa! Rinunciare alla propria vita non è mai facile.... la vita è sempre la vita, e l'essere umano tende sempre naturalmente verso di essa.

Non so se Walter e Rina fossero Credenti, ma certamente hanno messo veramente in pratica il Comandamento dell'Amore verso il prossimo, che dice:
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
E loro lo hanno fatto, lo hanno veramente fatto, per di più non nei confronti di due amici, ma di persone del tutto sconosciute.
Lo hanno fatto coraggiosamente, amorosamente e gratuitamente.

Riposate in Pace, cari Walter e Rina..... avete vissuto silenziosamente e lontani dai clamori del mondo, ma certamente ora i vostri nomi sono scritti a caratteri d'oro nel Libro Eterno dell'Amore.  Grazie di tutto!

Marco

mercoledì 2 marzo 2016

La fatica e la Fede nel mio record per i bambini farfalla


Ha pedalato ininterrottamente per oltre 35 ore abbattendo il muro dei mille chilometri. Obiettivo: sostenere chi soffre di una malattia dimenticata. «Per me credere è mettersi in azione».

Una preghiera in silenzio, casco in testa, a occhi chiusi e in ginocchio accanto alla sua bicicletta. Davanti a lei, una battaglia di mille chilometri. Una sfida che Anna Mei ha vinto dopo 35 ore, 11 minuti e 6 secondi di pedalate. L’ultimo e il primo pensiero prima di conquistare il record mondiale di permanenza su pista? Sempre loro, i bimbi farfalla.

Perché la 48enne di Milano, che nella vita fa la maestra alle elementari Santo Stefano di Lecco, non ha mai avuto dubbi: «Se batterò il mio record sarà grazie ai bambini farfalla», piccoli affetti da una malattia genetica rara, la epidermolisi bollosa, che rende la loro pelle estremamente fragile come le ali di una farfalla, riempiendosi di bolle e staccandosi a un semplice sfregamento. Ed è per aiutare questi bambini che la ciclista ha deciso di trasformare la sua gara – iniziata il 31 ottobre e conclusa il 1° novembre al velodromo bresciano di Montichiari – in un’opera di sensibilizzazione: chiedere che le mille persone affette da questa malattia in Italia possano accedere a cure e servizi.

OLTRE I PROPRI LIMITI

Mille chilometri e 4.000 giri di pista sono una sfida che non era mai stata provata da nessuna donna. «Posso superare i miei limiti solo grazie alla forza spirituale che ho dentro», racconta Anna. «La fatica fisica riesco a vincerla pensando al dolore che ogni giorno devono sopportare i bimbi farfalla. Dio non ci mette mai sulle spalle una croce che non siamo in grado di portare, dobbiamo avere fiducia e pensare che ci sia stata messa per un motivo». Questo la ciclista l’ha scoperto guardando negli occhi i bambini affetti da epidermolisi. «Portano la loro croce sulle spalle con una tale dignità e forza di vivere: sono anime sensibili capaci di elevarsi sempre più vicino a Dio».

Mentre racconta dei “suoi” bambini farfalla, Anna ripensa al penultimo record su pista, nel 2013. Prima di salire in sella alla bici, un bimbo la ferma: «Grazie per quello che fai per noi», si sente dire quando ha già il caschetto infilato sopra i capelli biondi. «Loro non sanno di essere ben più forti e coraggiosi di tutti noi», ricorda di avere pensato in quel momento.

Ogni volta che scende in pista, la maestra-ciclista prega con un’Ave Maria. «Credo nella protezione di Dio. Nel 2012 ho fatto un brutto incidente: ricordo quando il neurochirurgo mi ha detto che ero a rischio di restare sulla sedia a rotelle... e invece sono tornata in sella dopo soli due mesi». Allora scatta il pensiero: «Credo di essermi salvata grazie a un’effigie della Madonna che ho sotto la sella». La sua devozione mariana è anche legata alla Madonna del Ghisallo, la protettrice universale dei ciclisti. «Il santuario del Ghisallo a Magreglio, in provincia di Como, era caro anche a Gino Bartali e Fausto Coppi. Dentro la chiesa ci sono biciclette e maglie di ciclisti importanti. Anch’io ho lasciato in quella chiesa la mia maglia. Ed è il luogo dove mi sono sposata».


A SANTIAGO E MEDJUGORJE


Anna non ha dubbi: «Dentro ogni sportivo c’è la ricerca di dare a quello che sta facendo un valore che vada oltre il gesto atletico». Un significato spirituale che ha voluto dare anche al Cammino di Santiago, compiuto nel 2013, sola e sempre rigorosamente in bici, o portando una piccola farfalla ai piedi della Madonna di Medjugorje. Nella mente, le parole della mamma di un piccolo affetto da epidermolisi che gliela aveva donata: «Portala là per i nostri bambini». E sono proprio loro che Anna cercava durante le brevissime pause che ha avuto lungo le 35 ore di pedalata da record: un abbraccio a bordo pista e poi via verso la meta.

Sono tre anni che Anna Mei si è liberata di tutti gli sponsor per dedicare la sua attività sportiva a fare conoscere l’epidermolisi bollosa e sostenere le associazioni Sport nel cuore e Debra. «Sono una cattolica che agisce invece che predicare, che preferisce mettere in pratica l’aiuto. A volte si fa fatica a credere che esista il bene fatto senza secondi fini. Eppure siamo in tanti a prenderci cura dell’altro». «Da ragazza», ricorda, «ero una scout dell’Agesci. Mi sono rimasti impressi i principi educativi della strada, il fatto che la strada è un cammino. E sono questi stessi principi che ho riscoperto nell’attività ciclistica e che ricerco con i record mondiali».

Quando non è in sella a una bici, Anna è dietro a una cattedra come insegnante delle elementari. «I miei studenti sono i miei più grandi fan». C’erano anche loro al velodromo, per otto ore a fare il tifo per la loro maestra. «Vorrei far capire loro l’importanza di aiutare l’altro attraverso la propria passione e raccontare una nuova idea di sport che concilia l’agonismo con l’impegno sociale e si basa su allenamento e sacrificio, e non su divismo e doping».

VERSO NUOVI RECORD


Ma perché scegliere di dedicare una carriera sportiva al sostegno dei malati? La ciclista da record racconta di come, la prima volta che ha visto questi bambini con ustioni e vesciche su tutto il corpo, sia rimasta scioccata dalla loro sofferenza. «Eppure non si lamentano e non dicono mai di stare male», racconta.

Ora il record è raggiunto. I mille chilometri sono ormai alle spalle. «Per un po’ mi riposerò». Poi gli occhi cambiano espressione. «Ma presto ripartirò». «Qualche progetto l’ho già in mente: naturalmente, con addosso la maglia con le farfalle e sotto la sella un’effigie della Madonna».

MALATTIA ORFANA:
DEBRA ONLUS LOTTA CONTRO L’EPIDERMOLISI BOLLOSA

Per tutta la vita un malato di epidermolisi bollosa deve fare i conti con diverse ore di medicazioni e bendaggi quotidiani. Per loro può bastare anche solo una frizione a fare staccare la parte più superficiale della pelle, creando lesioni simili a ustioni di II e III grado. È una malattia genetica rara – che in Italia colpisce un bambino su circa 82.000 nati – orfana dal punto di vista degli investimenti per la ricerca, spesso rivolti a patologie più diffuse. Proprio su questo punto vuole intervenire Debra (www.debraitaliaonlus.org), associazione nata da un gruppo di genitori che da 25 anni non supporta solo malati e famiglie ma ha come obiettivo anche quello di fare conoscere la malattia e agevolare la ricerca medica per migliorare la qualità della vita dei bambini farfalla.

di Elisa Murgese

15 novembre 2015

FONTE: Credere N. 46



Una storia davvero splendida: quando la Fede, la Solidarietà, l'impegno per il Sociale, l'etica e lo sport si fondono in un tutt'uno, creando storie meravigliose come queste.
Cara Anna Mei, ti auguro di cuore di volare verso nuovi record mondiali, anche se il primato più bello lo hai già conquistato: l'affetto della gente, in particolar modo quella dei "tuoi" bambini farfalla.
Grazie di tutto!

Marco