domenica 28 ottobre 2018

La bella storia di nonna Irma, a 93 anni in Kenia per aiutare i bambini dell'orfanotrofio


Se qualcuno pensa che una persona dopo i 90 anni non sia più in grado di fare niente di importante, se non forse stare a casa a guardare e accudire i propri nipoti o pronipoti (cosa comunque lodevolissima e di grande importanza) legga questa storia.... e si ricreda.

Lei si chiama Irma Dallarmellina, "nonna" Irma per tutti, e ha 93 anni. E' una persona forte, ha visto la guerra, è rimasta vedova a 26 anni, con tre figli a carico, e poi ha perso una figlia. Vive a Noventana Vicentina e circa 10 anni fa ha conosciuto Francesca Fontana e Giannino Del Santo, una coppia vicentina, moglie e marito, che vanno in missione tutti gli anni in Kenia per un mese all'anno. Coinvolta dal loro esempio ed entusiasmo, nonna Irma ha iniziato ad aiutarli come poteva, con piccole ma importanti donazioni in denaro, quello che la sua pensione gli ha permesso di fare. In questo 2018 però non si è accontentata di questo e ha voluto fare di più..... ovvero andare lei stessa, di persona, in Kenia, nonostante le sue 93 primavere. Così, assieme alla figlia, con il suo trolley rosso e il suo bastone di sostegno, il 20 febbraio di quest'anno è partita alla volta di Nairobi per rimanervi tre settimane e offrire le sue mani, la sua esperienza e la sua simpatia ai bambini dell’orfanotrofio.
Appena arrivata in Kenia nonna Irma ha voluto subito incontrare Don Remigio, un missionario "giovanotto" come lei, che da vari anni sostiene economicamente, e che da diverso tempo è ricoverato in ospedale perché malato. Dopo di ciò ha voluto incontrare immediatamente i bambini del posto.... ed è stata gioia grande per tutti! Con Francesca e Giannino, i volontari che l'hanno "coinvolta" in questa avventura, nonna Irma è andata a visitare l'orfanotrofio che la missione gestisce, quindi ha trovato il tempo di inviare qualche foto e un messaggio vocale a casa, poca roba perché le comunicazioni non sono facili, ma comunque molto significativi:
Sto bene. Il viaggio è stato lungo, ma sono già operativa. E sono felice!.

Questo semplice messaggio e queste foto sono state postate sui social network dalla nipote Elisa Coltro e in men che non si dica sono diventate “virali”, raccogliendo in breve tempo migliaia di like e condivisioni.Questa è la mia nonna Irma – scrive Elisa -  una giovanotta di 93 anni, che stanotte è partita per il Kenya. Non in un villaggio turistico, servita e riverita, ma per andare in un villaggio di bambini, in un orfanotrofio. Ve la mostro perché credo che tutti noi dovremmo conservare sempre un pizzico di incoscienza per vivere e non per sopravvivere. Guardatela... ma chi la ferma? Io la amo”.



La nipote Elisa, come si può ben comprendere da queste parole, è orgogliosa della sua amata nonna, e non lo nasconde:
Mia nonna ha sempre amato la vita e non si è mai fermata davanti a niente. Ha dedicato la sua esistenza alla famiglia e ad aiutare chi le stava vicino - racconta - Per me è sempre stata un esempio. Un esempio che la nipote ha raccolto nel migliore dei modi dal momento che in estate, da qualche anno a questa parte, anziché andare in vacanza come fa la maggior parte dei suoi coetanei, adopera le proprie ferie per aiutare i rifugiati siriani nei campi greci. Ed è proprio il caso di dire che "buon sangue non mente".

Nonna Irma in Kenia è diventata subito la nonna di tutti. Nella sua valigia rossa ha portato pochissimi indumenti, per lasciare spazio ad ago, filo colorato, forbici, colla e a tante cartoline, perché lei è sempre stata bravissima a cucire delle scatole con le vecchie cartoline. Lo fa a casa, per gli amici, e lo ha fatto in viaggio per i nuovi piccoli amici kenioti. In ogni scatola c'è l'amore di un oggetto fatto a mano e un sorriso.

La bella esperienza di nonna Irma in territorio africano, come detto, è durata tre settimane, al termine delle quali è rientrata nella sua casa di Noventana Vicentina. Un esperienza che le è rimasta nel cuore: “Ho visto tante cose belle, ma anche tanta miseria - afferma - Mi sono rimasti nel cuore i bambini, ma non hanno niente. Neanche l'acqua e le strade. E' una vergogna. Se avessi una proprietà mia venderei tutto e lo darei al Kenya. Ma sono povera e vivo solo della mia pensione”.
Nonna Irma è diventata un esempio per chi vuole partire per l'Africa, ma lei dice: “Non devono fare come me, che sono rimasta poco. Devono rimanere per dei mesi. Anziché andare in vacanza al mare, devono andare in Kenya”. Poco tempo dice lei.... ma quando si ha un età come la sua, ogni giorno speso in questo modo è oro puro.
Nonna Irma ha anche le idee molto chiare su ciò che andrebbe fatto, e non si nasconde certamente dal dirlo: “Mettere i soldi che si spendono per le guerre per costruire invece delle fabbriche. E mettere anche del sale in zucca a quei quattro che comandano il mondo: andate a farle voi le guerre, se vi piacciono tanto!”.
Parole forti e taglienti, da parte di chi di cose ne ha viste e fatte tante!


E' veramente una bella storia questa di nonna Irma e lei è un bellissimo esempio per tutti, che ci ricorda più che mai come questo Dono preziosissimo che si chiama "Vita" vada vissuta pienamente, con forza, coraggio e tanta buona volontà. Ma sopratutto ci ricorda di "spenderla bene", con tanto Amore, per aiutare il nostro prossimo, in particolar modo quello più bisognoso. Grazie di tutto nonna Irma!

Marco

Febbraio - Marzo 2018

FONTI: Repubblica, Greenme, Tg com24, La Stampa, Il Corriere, Volontariatoggi

domenica 21 ottobre 2018

Felicità è amare gli ultimi della terra


La missionaria laica Annalena Tonelli fu uccisa 15 anni fa in uno degli ospedali da lei fondati

«Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita; più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Questo non è un merito, è una esigenza della mia natura». La vita e la morte di Annalena Tonelli, uccisa quindici anni fa nel Somaliland, sono racchiuse in queste parole. Un grido che interpella l'attuale assopimento delle coscienze nei confronti degli “ultimi” e dei diversi.
Missionaria laica, questa esile donna che indossava la tunica africana e il copricapo delle donne musulmane, per diciassette anni, in Kenia, “fece fiorire il deserto”, condividendo la vita dei nomadi che salvò dal genocidio.
«Io sono nobody, nessuno», diceva. Quel nulla era il suo “tutto in Dio”. Giunta in Africa, depositò ogni privilegio, povera fra i poveri, senza sicurezze, senza istituzioni alle spalle. Sola, fra i somali che le furono amici, quando videro che rischiava la vita per loro. Più volte minacciata di morte, non se ne andò mai, anche quando ebbe la certezza che l'avrebbero uccisa. Accadde il 5 ottobre nel 2003, un colpo di fucile alla testa, nella sua stanzetta francescana, attigua all'ospedale di Borama. Era appena passata di letto in letto per dare la buona notte, con una carezza e una stretta di mano, agli ammalati dell'ultimo ospedale che aveva creato per curare ogni genere di malattia e accogliere bambini ciechi, sordi, disabili. La sua grande scommessa fu la tubercolosi, una delle prime cause di morte. Per debellarla creò un protocollo, riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della sanità, che ha salvato milioni di persone.
Tutta la sua esistenza è stata un canto d'amore: «La vita ha senso solo se si ama, nulla ha senso al di fuori dell'amore... allora la nostra vita diventa degna di essere vissuta, diventa bellezza, grazia, benedizione».

Di Mariapia Bonanate

FONTE: Famiglia Cristiana N. 40
7 ottobre 2018


Altro articolo, breve ma molto ben scritto, sulla figura di Annalena Tonelli, a 15 anni dalla sua scomparsa. Lo riporto con molto piacere sulle pagine di questo blog, perchè questa splendida figura di Carità Cristiana, che pure non amava affatto che si parlasse di sè, merita veramente di essere conosciuta e amata.

Marco

mercoledì 17 ottobre 2018

“Io sono nessuno”: Annalena Tonelli

Quindici anni fa, per l'esattezza il 5 ottobre 2003, veniva uccisa da un colpo di fucile alla testa Annalena Tonelli, missionaria laica dal cuore grande come il mondo intero, figura meravigliosa di autentica Carità Cristiana, tutta dedita ai poveri e ai malati africani.
Si potrebbero utilizzare tantissime parole per descrivere Annalena, ma credo che nulla sarebbe mai abbastanza.... preferisco allora riportare sulle pagine di questo blog questo magnifico articolo incentrato sulla sua figura trovato sul web. Un mio piccolissimo omaggio ad una persona che ha tanto da dirci con il suo esempio, con la sua dedizione e con il suo Amore totale e incondizionato. Una figura stupenda che consiglio veramente a tutti di conoscere e approfondire. Da parte mia mi sento solamente di elevare un sentitissimo “Grazie” a Dio, per averci donato un anima così bella, il cui ricordo, ne sono certo, non verrà mai meno nel cuore delle persone.



"Io sono nessuno": Annalena Tonelli



Religiosa nell’intimo, senza vestire un abito. Medico e madre. Dolcissima e forte. Per chi ha vissuto con lei, queste contraddizioni, solo apparenti, si scioglievano in una quotidianità intessuta di gioia. E di passione, come emerge dalla sua prima biografia, pubblicata ad un anno dalla sua uccisione presso il suo ospedale per i malati di tubercolosi a Borama in Somaliland.
Annalena infatti è morta il 5 ottobre, il giorno prima di vedere completata la nuova ala dell’ospedale che lei aveva fatto costruire per uno di quei miracoli della buona volontà che sembra possano accadere solo grazie all’impegno di qualcuno che crede fino in fondo in quello che fa.
Lei che aveva inventato un particolare metodo di cura delle TBC, malattia endemica tra la popolazione somala, aveva dato vita, grazie agli aiuti che le venivano in gran parte dal Comitato contro la fame nel mondo di Forlì, a una piccola ma efficace struttura da 200 posti letto a cui facevano capo oltre 1000 malati. Ancora oggi l’ospedale continua a funzionare anche senza di lei. Proprio come desiderava questa grande donna che iniziava il suo testamento con queste parole: “Non parlate di me, non avrebbe senso”, e che non si stancava di ripetere di se stessa “Io sono nessuno”.
Non è stato facile per gli autori del libro ricostruire la sua complessa e avventurosa vita. Fuggiva le occasioni ufficiali, rifiutava tutte le interviste; prima di accettare il prestigioso Premio Nansen dell’UNHCR, c’era voluta tutta la pazienza degli amici per convincerla ad andare a Ginevra… Eppure in questa biografia, sembra che sia Annalena stessa a parlare di sé. Sono infatti raccolte in fondo alla biografia molte lettere inedite e una lunga dichiarazione da lei rilasciata nel 2002, in Vaticano, durante una delle rarissime occasioni pubbliche a cui aveva accettato di partecipare in occasione della Giornata internazionale per il volontariato.
Volevo seguire Gesù e scelsi di essere per i poveri. Da allora vivo al servizio dei poveri. Per Lui feci una scelta radicale, anche se povera come un vero povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamenti di contributi per quando sarò vecchia”.
Quella dell’"Ut unum sint" è stata ed è l’agonia d’amore di tutta la mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto per essere buona e veritiera, mai violenta, nei pensieri, nell’azione, nella parola. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola. Dobbiamo imparare a perdonare. Oh, com’è difficile il perdono. I miei musulmani fanno tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo nella loro vita… eppure la vita ha un senso solo se si ama. Nulla ha senso fuori dell’amore.
La mia vita ha conosciuto tanti e tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. E ne sono uscita con la convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Ed è allora che la vita diventa degna di essere vissuta. Perdo la testa per i brandelli di umanità ferita: più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia
”.
Si scherniva di non avere meriti speciali, di fare solo quello che la sua natura di donna giusta e appassionata le dettava. Però, spiegava che nei poveri non poteva fare a meno di vedere “Gesù l’Agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo”. E poi ringraziava Dio per il dono più grande che aveva ricevuto nella sua vita: “I miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico ma è rocciosa e arroccata in Dio. I miei nomadi mi hanno insegnato a fare tutto in nome di Dio”.

Sconvolge che al termine di questo suo lungo cammino d’amore, Annalena sia stata uccisa con un colpo d’arma da fuoco sparato a distanza ravvicinata, dopo avere terminato la visita serale ai suoi degenti. Aveva 60 anni, più di metà dei quali dedicati a servire i somali più poveri, i relitti di una società tanto particolare e dilaniata dalla guerra civile. Ma lei, missionaria laica, forlivese di nascita, somala per scelta, questo servizio l’aveva scelto per amore, e la preghiera la riconfermava ogni giorno in questa dimensione.
La chiamavano infatti la "Madre Teresa della Somalia" per la sua vita spesa ogni giorno al servizio degli ultimi, dei malati, dei poveri, nelle pieghe di un nascondimento da cui nemmeno il conferimento di importanti riconoscimenti era riuscita a tirarla fuori. La sua morte, come spesso avviene per i missionari che scelgono il silenzio della carità, ce l’ha svelata in tutta la sua dolcezza, in tutto il suo coraggio.
Annalena era preparata a morire, da molti anni. Qualche mese prima aveva scritto agli amici: “Vorrei che ciascuno di quelli che amo imparasse a vedere la morte con molta più semplicità. Morire è come vivere. Camminare consiste tanto nell’alzare il piede che nel posarlo. La mia morte, la mia malattia, il mio dolore non sono assolutamente diversi dalla morte, dalla malattia, dal dolore di uno di questi adulti e dei bambini che muoiono sotto i nostri occhi ogni giorno, sul gradino di casa nostra. La mia vita è per loro, per questi piccoli ammalati, per i feriti, per chi ha mutilazioni nel corpo e nello spirito, per gli oppressi, per gli sventurati senza averlo meritato. Potessi io vivere e morire d’amore. Mi sarà dato?”.
La preghiera di Annalena è stata ascoltata.
La sua biografia rivela il profilo di una donna straordinaria. Dormiva solo quattro ore per notte, il suo ritmo di lavoro era senza soste. Mangiava fagioli e riso a pranzo. Tornava raramente in Italia a trovare la famiglia, non ne aveva il tempo. Di suo non aveva che due tuniche, uno scialle, un paio di sandali regalati da qualcuno che l’aveva vista andare in giro scalza. Era una piccola donna tutta pelle e ossa ma piena di energia, infaticabile.
La sua giornata in ospedale cominciava alle 7,30 con la riunione con i medici con cui aveva ideato e attuava un progetto sanitario innovativo, il DOTS (Directly Observed Therapy), ovvero l’attenta osservazione dei malati di tubercolosi provenienti da tribù di nomadi o seminomadi. Poi si fermava con gli ammalati, accanto ai letti per parlare con ognuno. Una carezza speciale era sempre per i bambini che si specchiavano nei suoi grandi, disarmanti occhi azzurri cerchiati di occhiaie, arrossati dalla stanchezza di giornate interminabili di lavoro, fino a notte inoltrata. Eppure Annalena era felice. Diceva: “Nella mia vita non c’è rinuncia, non c’è sacrificio. Rido di chi la pensa così. La mia è pura felicità. Chi altro al mondo ha una vita così bella?”.
Oltre all’ospedale seguiva scuole di alfabetizzazione per bambini e adulti tubercolotici, corsi di istruzione sanitaria, una scuola per piccoli sordomuti e handicappati. Si batteva contro le pratiche di mutilazioni genitali femminili, e questo impegno in favore della donna le aveva attirato addosso minacce e persecuzioni. Forse perfino il colpo di pistola che l’ha uccisa.

Annalena era arrivata in Africa nel 1970 dopo avere conseguito una laurea in giurisprudenza. Si ritrova nel nord est del Kenya, presso la missione di Wajir tra tribù nomadi, rigidamente musulmane ad insegnare ai bambini e curare i malati. Si trova per la prima volta di fronte alle vittime della tubercolosi, allontanate dalle famiglie, abbandonate da tutti per la paura del contagio, condannate ad una fine lenta. “In quel momento mi sono innamorata di loro…” racconta Annalena, sempre sproporzionata nella sua grande capacità di amore. Li accoglie, li veste, regala loro piccole cose e la felicità di essere curati. Apre una piccola struttura di cura fatta di capanne: prima 40, poi 100, 200… Qui inizia a sperimentare un nuovo metodo di cura contro la TBC, poi adottato dall’Oms con la sigla Dots e ancora oggi applicato in tutto il mondo.
Viene espulsa dopo 17 anni di volontariato per avere denunciato l’eccidio dell’etnia dei Degodia, in cui in governo keniota era coinvolto: rientra in Italia in tempo per assistere suo padre malato sino alla fine. Ma nella sua città natale, Forlì, sente che l’Africa le manca, la chiama. L’anno dopo riparte per la Somalia. La gente è la stessa, anche la lingua e la religione, ma c’è la guerra civile dopo la cacciata del dittatore Siad Barre. Si stabilisce a Mogadiscio dove dà da mangiare agli sfollati, viene derubata, rapinata e sequestrata, la sua casa è bersaglio di raffiche di mitra. Mentre imperversano i combattimenti lei recupera i cadaveri dalle strade per seppellirli, cura i malati, nasconde i rifugiati. Poi si trasferisce a Merca, sull’Oceano Indiano, dove fa riattivare il porto in disuso da 25 anni per permettere l’arrivo di aiuti umanitari. Lavora come medico presso l’Ospedale della Caritas che ospita 500 malati: spende un milione di vecchie lire al giorno (una bella cifra per la fine degli anni ’80) che le arrivano da benefattori di tutto il mondo dopo che qualche coraggioso giornalista è riuscito a arrivare sino a lei…Malgrado il fisico minuto ha una grande forza fisica e una buona dose di coraggio che le permette di non piegarsi di fronte ai ricatti e alle prepotenze dei ras locali che cercano di impadronirsi degli aiuti scaricati dalle navi.
Lascia Merca nel 1995, a causa della situazione insostenibile creatasi in seguito ai sanguinosi conflitti tra clan rivali. Il medico italiano che la sostituisce nel servizio all’ospedale della Caritas è Graziella Fumagalli, uccisa solo pochi mesi dopo il suo arrivo.
L’ultima tappa del viaggio africano di Annalena è Borama, una cittadina vicina alla frontiera con l’Etiopia, nel Somaliland. Un centro di 100.000 persone, fatto di baracche di legno affacciate su strade polverose. Recupera una vecchia struttura e con i fondi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la trasforma in ospedale, che riesce a far funzionare grazie agli aiuti che riceve dall’Italia, in particolare dal "Comitato contro la lotta alla fame nel mondo" e dalla diocesi di Forlì. Grazie alla rete di solidarietà attivata da “doctor Tonelli”, i primi 30 malati diventano rapidamente 300, riescono finalmente ad avere un letto vero, medicinali e terapie sistematiche e continue come è necessario per combattere malattie come la tubercolosi e l’AIDS.
Quando nel giugno del 2002 le viene comunicata l’assegnazione del premio Nansen da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Annalena rimane stupita, perché di questo premio, confessa candidamente agli amici, non ne conosce nemmeno l’esistenza. Con il premio Nansen, si legge nella motivazione, le viene riconosciuto a livello internazionale "l’impegno eccezionale per migliorare la sorte di coloro che in Somalia non hanno alcuna protezione. Attraverso di voi, l’UNHCR vuole ricordare che i rifugiati… hanno diritto ad essere trattati con dignità, di essere nutriti, ospitati, curati. Grazie alla vostra opera, ricordate al mondo che i diritti hanno un’anima e che è nel quotidiano, concretamente, che i diritti dell’uomo devono essere rispettati e fatti vivere…".
Annalena è la dimostrazione vivente, ormai agli occhi di tanti, delle trasformazioni e dei cambiamenti che un solo individuo, anche sprovvisto di mezzi particolari, può costruire per migliorare la vita degli altri.


di Miela Fagiolo D’Attilia e Roberto Italo Zanini

FONTE: Note di pastorale giovanile

lunedì 8 ottobre 2018

«I miei 20 anni accanto a Padre Pio»


«Ho assistito a molti eventi inspiegabili, dalla sua stessa guarigione, grazie alla Madonna, a quella del mio papà. Ma il più grande è stato il suo Amore per Gesù»

Padre Marciano Morra ha un'aria severa che incute un po' di timore. Minuto ma affilato, ha l'espressione di un esigente professore di Latino. Ma è la sua corazza da timido. Quando entra un po' in confidenza e si lascia andare ha un sorriso dolcissimo. Nessuno meglio di lui può parlare di san Pio da Pietrelcina, padre Pio come tutti continuano a chiamarlo, del quale ricorrono in questi giorni due importanti ricorrenze che lo riguardano: i cento anni dall'impressione delle stimmate, avvenuta il 20 settembre 1918, e la sua morte, il 23 settembre 1968.

Padre Marciano ha ottantanove anni e per quasi venti è stato un suo confratello nel convento di San Giovanni Rotondo, dove il santo visse dal 1916 fino alla sua scomparsa. E' quindi una miniera di ricordi, aneddoti, emozioni che racconta con la sua voce pacata. «Era bellissimo stargli accanto», dice. «Facevamo a gara per passare del tempo insieme a lui: era come stare vicino a un papà affettuoso. Ci illuminava con la santità. E ci deliziava perché era un uomo gioviale e divertente. Ma c'erano volte in cui ti guardava fisso. Quello era il momento in cui leggeva nella coscienza con uno sguardo magnetico che ti trapassava. Sapevi che stava scrutando nel tuo cuore. Leggeva nelle persone come fossero stati dei libri aperti».

Nella sagrestia della vecchia chiesa del convento di Santa Maria delle Grazie, padre Marciano ci parla delle stimmate, forse il mistero più eclatante di padre Pio. Ferite alle mani, ai piedi e al costato che rimandavano alla Passione di Cristo e che erano sempre aperte come piaghe vive. Padre Marciano le ha viste più volte da vicino. «Padre Pio teneva le mani sempre coperte da mezzi guanti anche perché un ordine del Sant'Uffizio gli proibiva di mostrare le ferite. Li toglieva solo quando celebrava la Messa e allora era possibile vedere le piaghe. Servirgli Messa perciò era un compito ambito perché si era vicini a un grande mistero. In più, tornato in sagrestia, il Padre faceva baciare le mani, sempre senza guanti, ai due che erano stati con lui sull'altare. In quel momento potevo vedere bene le ferite che aveva sul palmo. Posso testimoniare che erano veri e propri buchi che trapassavano le mani da parte a parte. Il vero miracolo delle stimmate però non sta tanto nella loro presenza e nel fatto che padre Pio le abbia portate per cinquant'anni ma nel fatto che poi sono scomparse. Per ordine del Vaticano, le piaghe erano state esaminate diverse volte da medici. Alcuni avevano dichiarato l'inspiegabilità della loro natura, altri invece le avevano giudicate un imbroglio affermando che padre Pio se le procurava da solo usando degli acidi. Con la loro scomparsa però, nessuno ha più potuto dire nulla. Come è possibile infatti che una piaga, a prescindere da come si sia formata, scompaia senza lasciare neppure una piccola cicatrice? Questo è il vero miracolo che testimonia la veridicità delle stimmate.»

«Qui in sagrestia ho veduto padre Pio compiere un prodigio, guarendo il mio papà che era molto malato», continua padre Marciano. «Aveva un tumore ai polmoni e i medici gli avevano dato poco da vivere. Padre Pio lo guardò fisso, poi lo prese per il bavero della giacca e con l'altra mano iniziò a tirargli dei pugni sul petto dicendo: “E chi te l'ha detto che tu stai malato? Tu stai bene! Stai bene!”. E subito dopo: “Ora ti saluto. Arrivederci!”. Disse proprio così: “Arrivederci!”. Non capii subito cosa voleva dire ma lo compresi in seguito. Il mio papà aveva i giorni contati e invece guarì e incontrò ancora padre Pio. Ci lasciò quindici anni dopo per un'altra malattia».

Padre Marciano ricorda un altro episodio importante: «Ero presente anche quando padre Pio fu miracolato dalla Madonna. Era il 1959. Quell'anno era stata portata in Italia la statua pellegrina della Madonna di Fatima che girava le diocesi delle più importanti città. Per interessamento del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, amico di padre Pio, si fece in modo che la statua fosse portata per due giorni anche a San Giovanni Rotondo. Però padre Pio era a letto da quattro mesi. Aveva un tumore ai polmoni e si diceva che stesse per morire. Lo portammo di peso in chiesa, dove era stata sistemata la statua della Madonna. Lì si fermò in preghiera, baciò l'immagine della Vergine e le pose tra le mani una coroncina del Rosario. Poi si fece portare alla finestra per vedere l'elicottero che partiva con la statua. Era stato deciso, infatti, che l'elicottero sarebbe andato via dopo aver fatto tre giri sopra Casa Sollievo della Sofferenza, l'ospedale fondato da Padre Pio. Quando lui vide il velivolo che si allontanava, disse: “Madonnina, sei venuta in Italia e io ero ammalato. Ora te ne vai e mi lasci ancora ammalato”. Poi, improvvisamente fu come se fosse stato attraversato da una scossa. Ero a pochi metri da lui e lo vidi tremare. Si girò e gridò: “Ma io sto bene. Sto bene. Andiamo a confessare”. Ovviamente gli fu impedito di andare in confessionale e venne riportato della sua cella. Ma il giorno dopo riprese la vita di sempre. Era perfettamente guarito».

di Roberto Allegri

FONTE: Famiglia Cristiana N. 37
16 settembre 2018


Sono passati pochi giorni dalla ricorrenza dei 50 anni della "nascita al Cielo" di padre Pio da Pietrelcina e 100 anni dall'impressione delle sue sacre stimmate. Ho pensato quindi di postare sulle pagine di questo blog qualcosa che riguardasse questo meraviglioso Santo così amato dalla gente di tutto il mondo, e l'articolo "giusto" l'ho trovato su Famiglia Cristiana con questa bella testimonianza del bravissimo padre Marciano Morra, suo confratello a San Giovanni Rotondo per tanti anni.
Tante cose si sono dette e scritte su padre Pio in tanti, tanti anni.... ma l'Amore verso questo Santo non sembra risentire del passare del tempo e la devozione nei suoi confronti è sempre vivissima nel cuore delle persone. E di questo, personalmente, ne sono solo estremamente felice, perchè padre Pio è e rimarrà sempre un esempio luminosissimo per tutti di Santità e di Amore Vero per Gesù, la nostra Madre Celeste e il prossimo, per il quale si è completamente speso in tutto l'arco della propria vita.

Marco