Oggi (27 gennaio 2019 n.d.r.) è la Giornata della Memoria e vorrei che prestassimo una particolare attenzione alla testimonianza della scrittrice Edith Bruck, un'ebrea ungherese di 86 anni che nell'aprile del 1944 fu deportata ad Auschwitz con tutta la sua poverissima famiglia. Girò sette campi di concentramento fino al 15 aprile del 1945, quando lei e sua sorella furono liberate dagli Alleati. Ha perso, nei lager nazisti, i genitori e il fratello.
Edith Bruck non ha mai nascosto nulla dell'orrore dei campi di concentramento, che descrive come «un inferno», il «male assoluto». Dice perfino che «il sole avrebbero dovuto vergognarsi di sorgere su quei campi». E non nasconde neppure il fatto che quell'orrore possa ripetersi, perché il mostro dell'antisemitismo e del razzismo è sempre vivo.
Ma rispetto a tanta narrazione dei lager Edith Bruck sa aggiungere qualcosa di sorprendente, che dà forza e speranza alla vita di ciascuno di noi, in qualsiasi situazione di bruttezza e di dolore ci possiamo venire a trovare. È sconvolgente come questa donna, questa straordinaria donna, riesca sempre, nei suoi racconti, a trovare un positivo anche nella realtà più orribile, in quella più apparentemente senza speranza. «Della mia prigionia nei lager nazisti conservo la memoria – dice – di quattro piccoli episodi che hanno permesso che io sia viva».
Il primo piccolo episodio accadde subito, al suo arrivo ad Auschwitz. I nazisti dividevano i deportati in due direzioni: chi andava verso destra era destinato ai lavori forzati, chi andava verso sinistra alle camere a gas. Suo padre, suo fratello e sua sorella furono indirizzati verso destra; lei e la mamma verso sinistra. «Io non sapevo quale fosse la differenza fra destra e sinistra – racconta Edith Bruck – e stavo attaccata alla gonna di mia madre. A un tratto un soldato tedesco, l'ultimo della fila, si chinò verso di me e mi sussurrò: “Vai a destra, vai a destra!”. Il tedesco è simile all'Yiddish che io parlavo e capii, ma non volevo lasciare mia mamma. Lui insisteva, mia mamma cercava con forza di trattenermi, allora quel soldato la colpì con il calcio del fucile facendola cadere e mi spinse verso destra.
Non ho più rivisto mia mamma da quel momento, e quando racconto questo fatto mi blocco: ma poi riparto, perché devo testimoniare che un soldato delle SS mi ha salvato la vita».
Il secondo episodio che racconta Edith Bruck è del giorno in cui lei e la sorella buttarono a terra, nella neve, dei giubbotti militari che dovevano trasportare. Un soldato si avvicinò per ucciderla con la pistola in pugno, quando lei gli prese un braccio. Fu il gesto che le salvò la vita: «Se una lurida sporca schifosa ebrea ha il coraggio di mettere le mani su un tedesco, merita di vivere», le disse.
Il terzo episodio è di quando uno dei suoi aguzzini le diede la propria gavetta da lavare, e lei si accorse che c'era dentro un po' di marmellata. «In quella marmellata c'era la vita, e lui me l'aveva lasciata apposta. Era la mano di Dio scesa sulla terra».
Infine, il ricordo di quando, chiusa in un castello, pelava le patate e il cuoco le chiese come si chiamava: «Allora io c'ero, avevo un nome, non ero un numero tatuato su un braccio! “Mi chiamo Edith”, risposi. Il cuoco si chinò su di me. Mi disse: “Io ho una figlia piccola come te”, e mi regalò un piccolo pettine che aveva nel taschino».
Com'è possibile che una donna che ha vissuto quell'inferno conservi il ricordo di quei piccoli gesti? Quale miracolo accade in lei? «Nessuno può immaginare – dice – che cosa possa voler dire un gesto positivo in un campo di concentramento. Senza quei piccoli gesti dei miei carcerieri io oggi non sarei assolutamente qua. Perché in quei piccoli gesti era la salvezza, era la speranza. Allora non tutto era perduto, non tutto era buio. E così è oggi: non tutto è perso. Non bisogna mai perdere la speranza, anche se viviamo in un mondo difficile. Ognuno di noi può aggiungere una goccia di bene in questo immenso mare nero».
Come sarebbe tutto diverso – come saremmo tutti diversi – se ognuno di noi sapesse cogliere sempre il positivo dentro la realtà. E se riuscissimo a pronunciare queste stesse parole di Edith Bruck: «Non riesco a odiare nessuno al mondo. Credo che questa sia una grazia per me».
di Michele Brambilla
27 gennaio 2019
FONTE: Editoriale della Gazzetta di Parma
Articolo molto, molto bello e significativo che riporto con estremo piacere sulle pagine di questo blog.
Le parole di Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di concentramento e poi divenuta scrittrice di grande successo nonché testimone verace degli orrori dell'olocausto, ci insegnano come anche nel “nero più nero” ci possa essere qualche raggio di luce, come anche nell'“inferno in terra” dei campi di sterminio nazisti ci potesse essere qualche sprazzo di Amore che, nel caso suo, gli sono valsi la sopravvivenza. Il “nero assoluto” non esiste, sembra dirci Edith, e questo è un insegnamento importantissimo! Dobbiamo sempre avere fiducia nell'essere umano.
Un'altra cosa che mi piace sottolineare della testimonianza di Edith è la sua positività, il suo ottimismo, la sua visione speranzosa della vita e dell'uomo, il suo vedere sempre e comunque il “bicchiere mezzo pieno”. E' una dote bellissima questa, una dote che, per le stesse parole di Edith “non mi fa odiare nessuno al mondo”. E questa penso che sia la cosa in assoluto più bella, perché dove non c'è odio alberga l'Amore, e l'Amore è il più grande attributo di Dio, la Forza più grande dell'Universo e la vera ragione dell'esistenza dell'uomo.
Grazie cara Edith per la tua testimonianza, ricolma di fiducia e di speranza.
Marco
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