Maxime Mbandà indossa l’uniforme della Croce Gialla di Parma. In meta ci va tutti i giorni da quasi un mese e mezzo. Nazionale di rugby con venti presenze in maglia azzurra, terza linea delle Zebre di Parma, da quando il suo campionato, primo in assoluto nel nostro Paese, ha ufficialmente sospeso l’attività, non ci ha pensato due volte. Figlio di un medico congolese e di un’agente di assicurazioni, Maxime dal giorno del compleanno della madre ha deciso di mettersi a disposizione dei malati. «Ho compiuto una ricerca e ho scelto la Croce Gialla. Inizialmente il compito assegnatomi è stato di portare farmaci e alimenti agli anziani soli a casa, ma poi c’era bisogno di personale sulle ambulanze e da allora io mi sostituisco ai familiari assistendo il malato accanto alla barella mentre andiamo o torniamo dagli ospedali di questa zona».
Dolcezza e professionalità
Questo 27enne alto 188 centimetri e pesante 105 chili di muscoli fa davvero sentire protetti, è rassicurante non soltanto per la stazza ma anche per la dolcezza e la professionalità. «Ho imparato che ci sono tante cose che diamo per scontate e riteniamo assolutamente importanti come vestirsi alla moda, avere una bella automobile, l’ultimo modello di telefonino ma che poi quando subentra un periodo terribile come questo mostrano di colpo tutta la loro vacuità e superficialità rispetto all’amore, alla famiglia e soprattutto alla salute». A fargli un po’ da guida in questo nuovo campionato della vita sono stati i pazienti: «Alcuni versavano in condizioni davvero gravi, tenuti in vita addirittura da due bombole di ossigeno - prosegue Mbandà -, tra essi persino un missionario che nella sua esistenza aveva affrontato tante disavventure. Cerco nei loro sguardi la conferma che stanno lottando, tento di carpire i sentimenti che mi comunicano. Io da sportivo provo a trasmettere l’importanza del senso di agire come una squadra. Nel rugby ognuno ha un compito differenziato, ma tutti dobbiamo collaborare per arrivare a raggiungere l’obiettivo comune, sprecando meno energie possibile. Nel mio sport si corre avanti passando la palla all’indietro per andare in meta, quindi si tratta di un finto indietreggiare. Anche nella quarantena regredire significa lottare per vincere l’emergenza. Per questo seguire le regole dettate da altri, stare in casa non è una sconfitta ma lo sforzo di una società che vuole vincere».
Turni da dodici ore
Alla fine di ogni turno giornaliero che dura anche 12 ore, Maxime è più stanco di quando finisce un derby, ma non demorde. «I miei genitori mi hanno insegnato che bisogna aiutare le persone quando hanno meno forze, energie, possibilità di noi. Perciò non mi lamento, torno a casa e riprendo a studiare perché tra poco devo laurearmi in scienze motorie con una dissertazione che farò in via telematica. Noi che siamo sani dobbiamo sentirci fortunati: ho visto tanti giovani ingabbiati per settimane in questa malattia, che è davvero dura e finché non ti ammali o non presti assistenza da vicino non capisci quanto sia cattiva. Ai giovani cresciuti nell’era dei social, perciò abituati a parlare con gli altri attraverso la tecnologia, suggerisco un gesto antico: usate il telefono per chiamare quelle persone che non hanno nessuno, sono sole, anziane».
di Luca Bergamin
30 aprile 2020
FONTE: Corriere della Sera
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