martedì 29 settembre 2015

Suor Manuela Vargiu: consacrati con la voglia di cantare la gioia di Dio!!!


Suor Manuela è giovanissima, vive a Roma e continua gli studi di teologia, fa parte dell’ordine “Le Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso”. Come Suor Cristina, anche lei ama la musica e il canto e in varie occasioni ha partecipato al Festival “Il mondo canta Maria” insieme ad altri artisti della Christian Music. A conclusione d’intervista ho chiesto a Suor Manuela di dare un consiglio a Suor Cristina che al momento è su tutti i canali web e televisivi. Prima della sua vocazione alla vita consacrata, Suor Manuela era una studentessa di medicina con tanti amici e un fidanzato. Viveva in Sardegna a Sassari. Conduceva una vita normale e serena e proprio in quella normalità, comincia a sentire la strana sensazione che le mancasse qualcosa. Un viaggio a Lourdes gliene darà la conferma…

Come e quando ti sei accorta di essere chiamata alla vita consacrata?

Certamente è stato un cammino lento e progressivo dell’anima, ero una ragazza come tante altre e studiavo medicina. Il mio sogno era partire con “Medici senza frontiere”, nei paesi in via di sviluppo per aiutare tante persone. Dentro al cuore, continuamente sentivo che Gesù mi chiedeva qualcosa di più. Ho sempre avuto un bel rapporto con Gesù, sentivo che mi stava chiedendo altro, ma continuavo a fare “orecchie da mercante” perché l’idea di dover lasciare tutto (il sogno di diventar medico, il mio ragazzo, la mia famiglia e i miei amici) mi spaventava tantissimo. Avevo paura di fare questo salto nel buio, perché così lo definivo, un salto che poi si è rivelato non nel buio ma nella Luce di Cristo. La mia resistenza alla chiamata del Signore era anche dovuta al fatto che il mio ragazzo non frequentava la Chiesa ed era lontano dall’ambiente cristiano. Mi diceva spesso che erano stati i preti e le suore ad avermi fatto il lavaggio del cervello e di conseguenza sosteneva che ciò che sentivo era tutta illusione. Continuava a farmi domande di fede molto grandi di fronte alle quali io stessa spesso non trovavo risposta! Così alla fine ho detto “Basta, Signore se ci sei vienimi a cercare nel chiasso del mondo”.

Suor Manuela, quando ti sei consacrata avevi soltanto 21 anni. Perché hai scelto proprio quest’ordine delle Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso?

Perché fin da adolescente sono stata sempre attirata, conquistata dal Crocifisso; vedere quest’uomo li, crocifisso, mi dava la misura alta dell’Amore e pensavo sempre al fatto che Gesù è stato così grande nell’Amore da dare la vita per noi. Anche io in qualche modo desideravo dare la vita per gli altri, non sapevo ancora qual’era la strada ma volevo vivere la misura alta dell’Amore. Quando parlavo con il mio padre spirituale, lui spesso mi parlava di questa congregazione, delle Missionarie Figlie di Gesù Crocifisso, ma anche in quel caso continuavo a fare “orecchie da mercante” perché il convento mi sembrava un luogo stretto per me e quindi preferivo non dargli peso, nonostante ciò, quando poi da sola mi trovavo davanti al Crocifisso mi sentivo attirata da Lui e chiamata da quest’Amore più grande.

Com’era la tua vita prima di sposare il Signore? Eri vicina alla Chiesa e frequentavi qualche gruppo?

Come dicevo prima sono sempre stata vicina alla parrocchia ma non frequentavo nessun gruppo. Dirigevo il coro dei bambini della parrocchia, mi occupavo dell’animazione liturgica. Tutto ciò che era musica mi ha sempre attirata e mi aiutava a lodare Dio. Sono sempre stata vicina a Gesù, pregavo con Lui ma non con delle formule già scritte, amavo chiacchierare con Lui. Frequentavo anche tanti amici che non stavano in parrocchia, uscivo con loro nei fine settimana, andavamo nei locali. Vivevo la mia fede ma in modo tale che non mi chiamasse troppo in causa. Mi nascondevo dietro l’immagine di una brava ragazza pur di non farmi chiedere di più dal Signore.

Ad un certo punto lasciasti gli studi di medicina e anche il tuo ragazzo. Perché ti sentivi tanto combattuta nel dare il tuo
Si al Signore, cosa ti spaventava?

Mi spaventava il pensiero di dover lasciare tutto ciò che per me era sicuro, le mie sicurezze costituite dai miei studi e da un futuro da me già programmato; mi spaventava dover lasciare la mia famiglia, gli amici e il mio ragazzo per fare un salto verso la strada che il Signore mi avrebbe indicato. Un po’ come quando il Signore nell’antico testamento chiama Abramo e gli dice “Esci dalla tua terra e va nella terra che io ti indicherò”. Prima gli chiede di uscire e solo dopo gli indica la terra, e così era per me, mi chiedeva di uscire, mi dovevo prima fidare, non mi diceva cosa avrei trovato, l’unica garanzia che mi dava era quella della Sua presenza accanto a me, dovevo fidarmi di Lui.

Ad un certo punto, decidi di staccare con tutto e ne approfitti per trascorrere l’intera estate frequentando le discoteche, nel “chiasso del mondo”. Era un modo per sentire meno la chiamata che in quel momento ti provocava ansia e paura nel lasciare tutto?

Era un modo per nascondermi perché solitamente il Signore sceglie di parlare nel silenzio e di conseguenza io sceglievo il chiasso per non sentirlo, ma anche per sfidarlo perché di fatto io gli lanciai una sfida: “Signore vienimi a cercare nel chiasso del mondo se ci sei davvero”. Ed è stato bellissimo perché in realtà il Signore mi ha cercato in modo discreto, lasciandomi libera. Proprio in quel chiasso che avevo scelto mi trovai a sperimentare un vuoto incredibile nel cuore e in questo vuoto ritrovai la nostalgia di Dio, di quel Dio che mi aveva sempre riempito il cuore della Sua presenza. Mi sentivo come il figlio della parabola del Padre misericordioso, quel figlio che va via e dopo aver sperperato tutti gli averi del padre, si ritrova a mangiare il cibo dei porci e dopo un po’ nemmeno quello. Iniziai così a pensare a tutto quello che avevo quando stavo a casa di Dio Padre, dove avevo tante cose, quando ero con Lui il mio cuore traboccava di gioia, vivevo nelle pienezza nonostante le difficoltà, e invece lontana da Lui mi sentivo a mani vuote. Il Signore è proprio in quella nostalgia che sentivo che mi ha riconquistata o meglio ancora mi ha ri-attirata a sè. Gesù è entrato nel chiasso del mondo con una brezza leggera facendosi presente nel mio cuore.

In quel periodo il tuo direttore spirituale ti è stato molto di aiuto, ma non solo… Un giorno vieni chiamata dall’UNITALSI a dare una testimonianza a Lourdes e ti viene chiesto anche di cantare. Proprio lì, la Madonna ti aiuta a capire qual’era la tua strada. Che succede?

Poco prima di partire per Lourdes, pregai la Madonna e le chiesi di mettermi una mano in testa e di portarmi a Lourdes e di indicarmi lì la strada... Lei esaudì questo mio desiderio. Infatti, venni chiamata dall’Unitalsi per dare una testimonianza a Lourdes e per cantare, così chiesi di poter partire con gli ausiliari per poter prestare servizio agli ammalati. Durante la giornata dedicata alla celebrazione penitenziale, sentii il desiderio di confessarmi, ma in quel momento stavo prestando servizio e non potevo partecipare alla celebrazione in maniera attiva. La sera quando già tutto era finito chiesi ad un Vescovo di confessarmi l’indomani, dato l’ora tarda, invece lui con fare molto paterno si rese subito disponibile. Andammo insieme di fronte alla Grotta e ancor prima della confessione iniziammo un dialogo che durò per più di un ora e che si concluse con la confessione. Attraverso la paternità di questo Vescovo passò tutta la paternità di Dio che mi riportò a Sé, anche grazie all’intercessione di Maria, che come una mamma mi aveva portata lì. La grazia del sacramento della confessione sciolse la paralisi del mio cuore ed in quel momento sentii forte il desiderio di non aspettare più, ma finalmente di fare un salto, non più nel buio, ma nelle braccia di Dio, in quelle Sue mani che ormai ero certa mi avrebbero sempre accompagnato.

Suor Manuela, hai una grande passione sin da piccola per la musica e il canto. Essendo una giovane suora come Suor Cristina, che al momento la vediamo sotto l’effetto mediatico dei media e del web dopo la sua partecipazione a The Voice, che consiglio vorresti darle essendo una tua consorella?

Penso innanzitutto che ad ognuno di noi sono stati dati dei doni per il bene comune e penso che Suor Cristina abbia deciso di partecipare a questa trasmissione per donarci questo suo dono, come in fondo anche lei stessa ha detto “Ho un dono, ve lo dono”. Certamente il Signore ci chiede di portare il Vangelo ovunque, attraverso quello che siamo e attraverso i doni che ci ha dato. Sicuramente il mondo dello spettacolo è un mondo che nasconde anche tante insidie e tanti pericoli, ma questo non ci deve chiudere ed impaurire. In modo semplice penso che dobbiamo starle vicino e dobbiamo pregare per lei! Certamente bisogna avere tanta prudenza, ma se il Signore la sta chiamando per questa via, la condurrà Lui e la prenderà per mano.

Tu hai scritto un brano dal titolo “Come vorrei” tratto dall’album Anime, che parla proprio della crocifissione di Gesù…

E’ un brano a cui sono molto legata e che fra l’altro ho cantato a Lourdes e ho avuto anche la grazia di cantarlo davanti a Giovanni Paolo II. Questo brano racconta l’Amore più grande che passa proprio per la Croce e racconta il mio desiderio di essere portata in qualche modo sulla Croce di Cristo per vivere la misura dell’Amore più grande che sta nel dare la vita per gli altri. In questo brano chiedo al Signore di darmi la grazia di morire anch’io per Amore così come Lui è morto per Amore nostro.

Il 27 aprile ci sarà la Santificazione di Karol Wojtyla e di Giovanni XXIII. Cos’hai provato a cantare per Lui?

E’ stata una grande emozione e non a caso ho scelto un brano sulla croce, proprio perché Papa Wojtyla stesso mi ha insegnato che la croce non va temuta ma va accolta nella nostra vita e va portata con Amore e per Amore. La croce è stata già vinta dalla Vita, dall’Amore di Cristo, e Giovanni Paolo II mi ha insegnato proprio questo, che la croce è solo una porta spalancata sulla Resurrezione. Quando ho testimoniato davanti a lui mi sono sentita piccola, un puntino davanti a un grande uomo che, attraverso la sua testimonianza, ha saputo regalare la paternità di Dio a tutto il mondo!
di Rita Sberna

6 aprile 2014






Quando vedo e sento parlare una suora o una missionaria o un consacrato di Vera e profonda Fede, rimango sempre ammirato dal loro sguardo luminoso. E' uno sguardo speciale, diverso da quello delle altre persone, uno sguardo che emana gioia, limpidezza, dolcezza e Amore allo stesso tempo. E questo sguardo, questa particolare
luce
negli occhi, traspare più che mai dal volto di suor Manuela Vargiu in questo video (che consiglio a tutti di vedere), una ragazza che ha lasciato tutto (il mondo) per abbracciare la Vita Consacrata, per essere tutta del suo Gesù.
E pensare che c'è ancora chi crede che le persone che lasciano la vita del mondo per abbracciare la Vita Consacrata, siano delle persone infelici, delle persone che
fuggono
il mondo e la società, perchè in essa non si ritrovano, o per trovare una qualche sorta di protezione da un mondo in cui non riescono a inserirsi o ad adattarsi. Oppure si pensa che siano persone che scappano dopo qualche cocente delusione in amore. Niente di più falso, niente di più lontano dalla verità di questo! E per capirlo, lo ribadisco, basta guardare lo sguardo luminoso di suor Manuela mentre risponde alle domande del suo intervistatore. Ed è lo sguardo di una persona FELICE, felice per quello che fa, per quello che è, felice per la strada che ha intrapreso, felice perchè ha trovato l'Amore, quello più Vero, l'Amore di Dio! Un Amore che suor Manuela ha sempre avuto nel cuore, ma che solo con la Consacrazione ha trovato il suo pieno compimento. E del resto è lei stessa a dirlo, alla domanda dell'intervistatore, che le chiede perchè avesse voluto indossare quest'abito (minuto 10' 30")? E lei, con disarmante naturalezza, risponde semplicemente Perchè mi sono innamorata!.  

Il Bene che fanno queste belle anime con la loro vita, con il loro esempio, con la loro preghiera, con la loro dedizione... in una parola: con il loro Amore.... lo capiremo bene solamente quendo saremo
di là. Per adesso mi sento solamente di dire: Grazie suor Manuela per tutto quello che fai e grazie a tutte le persone che, come te, rispondono con gioia e Amore alla chiamata del Signore. Grazie di tutto!
E Lode e Gloria al Signore per donare al mondo anime belle come queste, di cui c'è veramente un immenso bisogno!!!

Marco

martedì 22 settembre 2015

Puerto Rico, il surfista che salva i randagi dalla “Spiaggia dei cani morti”


A Stephen McGarva piacevano gli sport estremi. E quando è volato a Puerto Rico di certo non avrebbe mai pensato di finire all’inferno. Già perché quando lui e sua moglie sono arrivati sull’isola caraibica hanno scoperto Playa Lucia, la cosiddetta Spiaggia dei cani morti. Un luogo dove l’umanità per gli animali non si è mai vista: in mezzo alla sporcizia, i due hanno trovato decine di cani randagi sanguinanti e percossi, già morti o vicini a morire per lo stato in cui vivevano.

Considerati come una piaga per l’industria del turismo locale, i cani vengono scaricati in questa spiaggia spesso picchiati, uccisi o feriti a colpi di machete, avvelenati o bruciati con il carburante. Tutti, comunque, lasciati al loro destino.
Troppo per McGarva che è salito sul suo camioncino ed è andato a cercare del cibo per quei poveri animali.

«Sapevo che se fossi andato via, sarebbe stata una decisione che non mi sarei perdonato per tutta la vita» racconta McGrava nel suo libro “The Rescue at Dead Dog”. La sua vita, e quella di moglie Pamela, era appena cambiata: per due anni la coppia ha deciso di prendersi cura di quei cani.
Ha pulito le loro ferite, li ha lavati, li ha amati, li ha addestrati e preparati perché un giorno potessero trovare una famiglia non a Puerto Rico, ma negli Stati Uniti.

Una storia che purtroppo non ha un lieto fine. Giorno dopo giorno, il suo lavoro ha iniziato a infastidire chi aveva interessi sull’isola. Quei cani erano solo un problema, non dovevano vivere. McGrava racconta al Daily Mail le minacce ricevute, le aggressioni e botte prese per difendere i suoi cani. Inutile cercare di denunciare il tutto alla polizia locale incapace di poterlo proteggere.

«Ho sepolto almeno un cane ogni giorno. Alla fine dei due anni abbiamo sepolto oltre 1200 animali, esseri viventi che conoscevamo e amavamo» racconta il 44enne. Li ha trovati impiccati, bruciati dentro camion abbandonati, uccisi a colpi di machete.

Quando lui e sua moglie sono tornati a Rhode Island per un breve periodo, al loro ritorno hanno trovato la loro casa devastata: ciò che non era stato rubato, era stato distrutto. Così ha dovuto lasciare l’isola, ma non ha abbandonato del tutto i suoi amici animali: grazie a lui centinaia di cani hanno trovato un rifugio sicuro e ha fondato un’organizzazione no-profit, la Acate Legacy Rescue Foundation, che è impegnata nel porre fine agli abusi sui randagi e a costruire rifugi in Messico e a Puerto Rico.

29 agosto 2014

FONTE: http://www.lastampa.it/2014/08/29/societa/lazampa/puerto-rico-il-surfista-che-salva-i-randagi-dalla-spiaggia-dei-cani-morti-QmV1YuEfSxTBeUcsdUaIPK/pagina.html


Gran brava persona questo Stephen MacGarva..... e occuparsi di cani abbandonati, maltrattati, sterminati..... anche questo è Amore!
Grazie Stephen, per tutto quello che hai fatto e che fai.... il mondo ha bisogno di persone come te!

Marco

mercoledì 16 settembre 2015

Stati Uniti: uomo pianta girasoli per oltre 4 miglia in omaggio alla moglie morta di cancro


Una strada di campagna del Wisconsin, Stati Uniti, è stata trasformata in un mare di girasoli da un agricoltore locale, in memoria della moglie scomparsa di cancro

Prima della sua morte, avvenuta nel novembre 2014, la moglie di Don Jaquish, Babbette, era famosa in tutta la contea per i bellissimi girasoli che aveva piantato nella loro fattoria a Eau Claire, tanto da meritarsi il soprannome "La donna dei girasoli".

Don Jaquish ha lavorato come contadino all’ Eau Claire dal 1975, e ha conosciuto Babbette mentre stava svolgendo il suo lavoro di venditore di attrezzature agricole. I due si sono frequentati per anni e si sono sposati nel 2000. Purtroppo, solo sei anni più tardi, a Babbette è stato diagnosticato un tumore: mieloma multiplo.

Tutti quelli che incontravano Babbette si innamoravano di lei - ha detto Jaquish di sua moglie - e io ho avuto la fortuna di essere il ragazzo di cui lei si è innamorata”.

Erano molto innamorati l’uno dell’altra – ha detto White, una delle loro figlie – Mia madre avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei”.

Babbette ha subito 22 diversi cicli di trattamento per il cancro nel corso degli anni… e in questo periodo di tempo ha capito quanto è importante la ricerca per la cura di questa malattia.
È passata da un'aspettativa di vita di due settimane ad una di due mesi fino ad arrivare a nove anni” dice il marito. Il suo atteggiamento era sempre positivo e diceva che ogni giorno di più che poteva rimanere in vita era un giorno guadagnato verso una nuova possibile cura”.

Nel corso di un breve periodo di remissione della malattia, Babbette ha espresso il desiderio di avviare un'attività di vendita dei girasoli, il cui ricavato andasse a beneficio degli altri malati di cancro e per finanziare la ricerca. “Ma purtroppo la sua salute andava sempre più declinando e per lei non era possibile avviare e gestire una cosa come questa” dice la figlia White.


Appena un mese dopo la sua morte, avvenuta il 17 novembre 2014, il marito Jaquish, agricoltore oggi 65enne, con grande entusiasmo raccoglie il desiderio della moglie tanto amata e stipula un accordo con dei suoi vicini:
essi gli affittano un pezzo di terra lungo la statale 85 del Wisconsin a un prezzo ragionevole e lui, questa estate, pianta il fiore preferito di sua moglie lungo un tratto di strada di campagna di oltre quattro miglia, in modo che i semi dei girasoli potessero essere raccolti facilmente.
C’è voluta più di una settimana per Jaquish, lo scorso giugno, ma dopo un periodo di crescita di 75 giorni, i girasoli sono fioriti magnificamente, colorando il paesaggio di una meravigliosa tinta gialla e verde.


Si è avviata in questo modo un azienda produttrice di semi di girasole chiamata “Semi di Speranza di Babbette”, il cui ricavato sarà in gran parte devoluto a favore dei malati di cancro e per finanziare la ricerca.

A Eau Claire, la famiglia di Babbette è stata travolta dall'amore e dal sostegno da parte dei visitatori che sono venuti a vedere i girasoli piantati da Jaquish per desiderio della moglie.

Penso che Babbette stia sorridendo, vedendo tutto quello che abbiamo realizzato – dice Jaquish – e abbiamo avuto davvero una risposta incredibile da parte della gente. Ci arrivano messaggi di posta elettronica da ogni parte del mondo”.

Non ho potuto capire quello che realmente stavamo facendo, fino a quando non ho visto quant’era bello”, ha detto White, una delle figlie di Babbette. “Volevamo che fosse una dichiarazione d'amore. Ci sono 4,5 miglia di girasoli, ed è una vista meravigliosa. E tutto questo è solo per mamma. Questo è ciò che desiderava venisse fatto quando era ancora in vita” ha aggiunto all’ABC News.

Mia moglie Babbette ha sofferto molto e sapeva che molti altri malati di cancro, con le loro famiglie, stavano soffrendo allo stesso modo - ha detto Jaquish -. Quello che ci auguriamo è che il denaro ottenuto da questa attività sia in grado di aiutare tante di queste persone”.


18 agosto 2015

FONTI: Dailymail, Abcnews

lunedì 7 settembre 2015

«La mia Africa torna a vivere»


PROGETTO CUAMM – MEDICI PER L’AFRICA


ENZO PISANI E’ DA TRE ANNI IN SUDAN. GIORNO E NOTTE IN OSPEDALE PER SALVARE VITE E FARNE NASCERE: COSI’ A YIROL I PARTI ASSISTITI SONO TRIPLICATI. COME SI STA FACENDO ANCHE IN ETIOPIA, UGANDA, ANGOLA E MOZAMBICO

La piatta, arida, immobile savana del Sud Sudan è un immagine che assomiglia molto alla realtà del sistema sanitario del giovane paese africano: è all’anno zero. Così nel 2010 era anche a Yirol – 400 chilometri e quasi sette ore di macchina da Juba (capitale del Sud Sudan) – quando un bel giorno vi arrivarono Enzo Pisani e la moglie Ottavia Minervini, per conto della Ong Cuamm – Medici per l’Africa. Compito? Gestire il piccolo ospedale, che doveva servire una contea di 350 mila abitanti e un territorio privo di strutture sanitarie. Famiglia Cristiana giunse a Yirol un mese dopo i due coniugi medici:
«Riguardo alla sanità, è tutto da ricostruire. E non parlo solo delle strutture fisiche», spiegava all’epoca Pisani. «Dopo 20 anni di guerra, la gente non esprime nemmeno più il bisogno di cure mediche. Ha dimenticato pure di avere il diritto alla salute».

NIENTE TURNI, NE’ RIPOSO. Enzo, chirurgo, igienista, specializzato in malattie tropicali, è ancora lì, in Sud Sudan; come pure Ottavia, specializzata in chirurgia d’urgenza e anestesia. Oggi come allora non ci sono turni, né fine settimana di riposo. Si passa in ospedale il giorno intero, spesso anche la notte. La differenza è che i reparti semivuoti di tre anni fa (pronto soccorso, chirurgia, pediatria e maternità) ora sono sempre pieni, nonostante i posti letto siano passati da una quarantina a 120, e i ricoveri da 1800 a 8000 l’anno.
«La morte da parto è quella che indigna di più», diceva allora Pisani. «E’ moralmente inaccettabile. In Italia i casi sono 10 su 100 mila. Qui 2243. Nella sola contea di Yirol in un anno saranno morte 350 donne per dare alla luce un figlio». Oggi, non è più così, almeno in quel piccolo fazzoletto dell’immenso Paese.
In Sud Sudan si muore anche di malaria, di ernia, di una frattura scomposta, di bronchite, di appendicite. Non ci sono strade, industrie, infrastrutture. Un’intera generazione ha conosciuto solo la guerra. Ma a Yirol in tre anni sono stati triplicati i parti assistiti e sicuri (1000 nel 2012, saranno 1200 a fine 2013), con l’arrivo di una nuova ambulanza si riesce a intervenire in fretta nei casi d’emergenza, e le unità mobili girano per tutto il territorio, per visitare e vaccinare.
I coniugi Pisani hanno alle spalle 40 anni d’Africa: Mozambico, Angola, Tanzania, Sud Sudan, l’hanno girata con 5 figli. Presto si sposteranno in Sierra Leone.
«Negli anni 70 siamo partiti per cambiare il mondo. Non ci siamo riusciti. In Africa la gente oggi soffre come allora. Si continua a morire di parto. Perciò, come Cuamm, diciamo “Prima le mamme e i bambini”. Perché non deve accadere più».
In un convegno all’Università Cattolica di Milano, l’Ong ha dato conto dei primi due anni del progetto “Prima le mamme e i bambini” in quattro Paesi africani, Etiopia, Uganda, Angola e Mozambico: quattro ospedali principali, 22 centri di salute periferici, per un totale di 1 milione 300 mila abitanti coinvolti. L’obiettivo: passare da 16 mila a 33 mila parti assistiti all’anno in cinque anni. Al secondo anno, ecco i risultati: oltre 84.700 vite salvate di mamme e bambini, oltre 42 mila parti assistiti nei distretti di riferimento, quasi 91 mila visite prenatali effettuate. Tutto questo grazie all’impegno costante dei medici e operatori sanitari: silenziosi eroi quotidiani, che spendono le loro vite per farne nascere altre ai confini del mondo.
Tujube Dilba Jira ha il viso splendente. E’ la prima volta che arriva in Europa, per partecipare al convegno di Milano. Ha scelto di indossare l’abito della festa, per raccontare la storia delle donne della sua Etiopia. Tujube ha 36 anni, lavora come infermiera e ostetrica all’ospedale di Wolisso, gestito dalla Ong di Padova. E’ sposata e ha due figli, un maschio e una femmina. Racconta di non aver mai smesso di lavorare, neppure durante le sue due gravidanze. La sua missione è aiutare i bambini a venire alla luce.
«Ogni giorno vivo anche un’altra sfida: accrescere la consapevolezza nelle donne, diffondere informazioni, incoraggiare la comunità ad aver cura dei bambini».

IL CAMBIAMENTO A PICCOLI PASSI. Lei, Tujube, è stata fortunata: «Nella mia famiglia ho ricevuto fin da piccola un’educazione. Mia madre lavorava come tecnico di laboratorio per varie Ong. Io sono cresciuta con il suo esempio davanti agli occhi. Grazie a lei, anni fa ho deciso che sarei diventata infermiera». Il suo motto: «Pian piano l’uovo comincia a camminare». In Africa bisogna avere pazienza. I cambiamenti sono piccoli passi. Basta non perdere la perseveranza.
Peter Lochoro, dal canto suo, ha scelto di diventare medico guardando il lavoro dei medici italiani nella sua terra, la Karamoja, regione arida, poverissima nel Nord-est dell’Uganda, al confine col Kenya e Sud Sudan, dove vivono i gruppi tribali seminomadi dei karamojong.
«I medici italiani sono stati la mia ispirazione. Quando io ero ragazzo non c’erano dottori ugandesi in Karamoja. Nella mia famiglia sono stato l’unico a studiare, mio padre volle che almeno qualcuno dei figli avesse un’educazione». Peter ha 45 anni, una moglie infermiera e sei figli: oggi è responsabile-Paese del Cuamm per l’Uganda. «La Karamoja è conosciuta come “territorio italiano”», spiega Peter, «fin dagli anni 70 vi hanno sempre lavorato i medici del vostro Paese». Lui è cresciuto a pochi chilometri da Metany, il villaggio dove ha sede l’ospedale del Cuamm, fiore all’occhiello dell’assistenza sanitaria nella regione.
Peter ha studiato medicina a Kampala:
«A quel tempo in tutta l’università c’erano solo tre studenti karamojomg». In Uganda il Cuamm opera in 11 distretti per un totale di 2,5 milioni di persone assistite. Ma è nella Karamoja che si concentra il grosso dei progetti: «A livello nazionale l’aspettativa di vita è 50,4 anni, tra i karamojong scende a 47,7». L’impegno italiano ha dato i suoi frutti: «Tra il 2006 e il 2011 la regione Nordorientale ha registrato livelli di cambiamento molto più evidenti che nel resto del paese». I progressi arrivano, se si ha la forza di aspettarli. «Nel mondo sviluppato l’Africa è nota per la guerra, la povertà, l’ignoranza, le malattie. Ma in mezzo a questi problemi ci sono la vita, la speranza, la dignità del popolo africano».

Di Giulia Cerqueti e Luciano Scalettari

FONTE: Famiglia Cristiana N. 48
1° dicembre 2013




Cosa sarebbe il nostro mondo se non ci fossero persone come Enzo Pisani e Ottavia Minervini, se non ci fossero medici, missionari, infermieri e volontari che vanno a prestare la loro opera in paesi come L'Africa (e non solo), a vantaggio di popolazioni dove la povertà, la miseria, l'ignoranza, le guerre e le malattie falciano migliaia e migliaia di persone tutti i giorni? Onore e merito allora a tutte queste persone che dedicano il loro tempo, i loro talenti, la loro passione.... in una parola: la loro vita, a favore del prossimo, sopratutto quello più povero e bisognoso dei paesi del Terzo Mondo. Onore e merito a loro, che rendono veramente migliore la terra in cui viviamo. Ma onore e merito, sempre e comunque, a tutti coloro che si dedicano al Bene del prossimo, fosse anche il proprio vicino di casa o la persona bisognosa che abita dietro l'angolo.... sì, perchè per fare del Bene non occorre andare chissà dove, ma si può fare sempre e ovunque, a incominciare, aggiungo io, dalla propria famiglia. Che sia a migliaia di Km di distanza, che sia all'interno della propria abitazione, ognuno di noi può dare il proprio prezioso contributo per rendere migliore la società in cui viviamo. Facciamo di questo ideale di Bene la nostra priorità di vita, impegnamoci veramente a vivere ogni istante della nostra vita con purezza d'intenzioni e Amore vicendevole.
Se lo facessimo tutti, quanto sarebbe migliore il mondo in cui viviamo?

Marco