Una bimba di sei anni di Asti per la prima volta nella sua vita ha deciso di farsi tagliare i lunghissimi capelli solo per poterli donare a un’associazione che li trasforma in parrucche per i bambini e le bambine in chemioterapia. “Sono felice di quello che ho fatto”, ha detto Zoe dopo il taglio.
Ha appena sei anni ma le idee sono già molto chiare. Zoe, una bambina di Asti, ha deciso di donare la sua lunghissima treccia ai bimbi malati di tumore. La scorsa settimana la piccola ha deciso di farsi tagliare i capelli per donarli a un'associazione che, in collaborazione con una azienda che si occupa di parrucche ed extension, li avrebbe trasformati in parrucche per bambini sottoposti a chemioterapia.
Zoe, 6 anni, non si era mai tagliata i capelli dalla nascita a parte una volta in cui se li fece spuntare. La madre racconta al quotidiano La Nuova Provincia: “Mia figlia è sempre stata molto fiera della sua lunga chioma. Tutto è nato questa estate, quando abbiamo letto insieme un libro per bambini ‘La Treccia' che racconta la triste storia di un villaggio in India dove tutte le bambine portavano i capelli lunghissimi. Lei e sua madre ad un certo punto fuggono e incappano in mille difficoltà così i capelli diventano un voto a Dio se si salvano”. Il racconto ha particolarmente colpito Zoe che, in modo autonomo, ha iniziato a dire a tutti che intendeva regalare i suoi capelli ai bambini meno fortunati di lei, quelli malati.
Uno slancio di generosità che si è concretizzato giovedì scorso, quando la bimba e sua madre sono andate in un salone di parrucchiere ed hanno chiesto di tagliare i 40 centimetri di treccia: “Sono felice di quello che ho fatto”, ha detto Zoe dopo il taglio. La lunga chioma è ora è in custodia dalla parrucchiera Valentina che sta ultimando i contatti con le associazioni che si occupano di trasformare i bellissimi capelli delle bimbe in un prezioso regalo per restituire un po’ di normalità ai bambini sottoposti a chemioterapie.
di Davide Falcioni
5 marzo 2020
FONTE: Fanpage
Sembra una frase fatta, "morto sul campo". Don Giuseppe era arciprete di Casnigo ormai da quasi quattordici anni e avrebbe concluso la sua missione a Casnigo. L’ha conclusa prima, in un ospedale, a Lovere, colpito dal coronavirus. Già lo scorso anno aveva avuto problemi di salute. Il suo sorriso perenne, la sua disponibilità, ma anche il suo attivismo nella realizzazione di opere importanti e costose, quel sorriso nascondeva le preoccupazioni.
“Era una persona semplice, schietta, di una grande gentilezza e disponibilità verso tutti, credenti e non credenti. Il suo saluto era "pace e bene". Sempre cordiale e disponibile verso l’amministrazione pubblica, le associazioni e non solo quelle della parrocchia, partecipava a tutte le manifestazioni senza essere mai invadente. Alla festa dei coscritti del ‘47 non mancava mai. Perfino per le veglie funebri chiedeva prima ai parenti se fosse gradita la sua presenza, per dire la discrezione che aveva. Era amato da tutti, da Fiorano arrivavano ancora i suoi ex parrocchiani dopo anni a trovarlo. Ma aveva anche una capacità incredibile di risolvere i problemi economici, di bussare alle porte giuste per avere aiuti. Si muoveva con il suo "galletto" e quel casco vecchio che sembrava quello di sturmtruppen, ha valorizzato i Santuari (l’ultima grana era il tetto della Trinità…) e il recupero della sagrestia opera di Ignazio Hillipront. E naturalmente il nuovo Oratorio, la sua opera maggiore che lo ha preoccupato parecchio. Un arciprete amato da tutti”. Questa la testimonianza di Giuseppe Imberti, a lungo sindaco di Casnigo.
Don Giuseppe è "morto da prete".
“E mi commuove profondamente il fatto che l’arciprete di Casnigo, don Giuseppe Berardelli – cui la comunità parrocchiale aveva comprato un respiratore – vi abbia rinunciato di sua volontà per destinarlo a qualcuno più giovane di lui”: le parole sono di un Operatore Sanitario di lungo corso della Casa di Riposo San Giuseppe di Casnigo. Già, don Giuseppe al respiratore aveva rinunciato, anche se ne aveva bisogno, e questa è forse la miglior fotografia dell’anima di un sacerdote che negli anni trascorsi in Val Seriana aveva conquistato tutti: “Era un prete che ascoltava tutti, sapeva ascoltare, chiunque si rivolgeva a lui sapeva che poteva contare sul suo aiuto – comincia cosi il ricordo di Clara Poli, per anni sindaca di Fiorano, dove Don Giuseppe è stato a lungo parroco – per Fiorano è stato un ottimo parroco, grazie a lui e a don Luigi Manenti che era a Semonte, sono riuscita ad aprire il Centro di Auto Aiuto che ha permetto di aiutare tante famiglie e tanti ragazzi sbandati, senza di lui sarebbe stato impossibile. Con lui l’amministrazione è riuscita a mettere in piedi il grande Cre che adesso è davvero diventato un punto di riferimento per tutti i giovani”. Clara si commuove: “Una grande persona”, poi sorride. “Lo ricordo sulla sua vecchia moto Guzzi, amava la sua moto, e quando lo si vedeva passare era sempre allegro e pieno di entusiasmo, ha regalato pace e gioia alle nostre comunità”.
L’Arciprete di Casnigo don Giuseppe Berardelli aveva 72 anni. Nato il 21 agosto 1947, era originario di Fonteno. Ordinato sacerdote il 30 giugno 1973, il suo primo incarico era stato di coadiutore nella parrocchia di San Giuseppe in città alta, quindi a Calolzio dal 1976 al 1984. Divenne in seguito parroco di Gaverina e dal 1993 parroco di Fiorano al Serio. Nel 2006 la nomina ad arciprete di Casnigo. Aveva avuto problemi di salute ma lui combatteva col suo solito sorriso e quella grinta a chi si affida a Dio. E’ morto all’ospedale di Lovere. Nessun funerale ma i casnighesi lo hanno salutato a modo loro, a mezzogiorno di lunedì 16 marzo si sono affacciati sul balcone di casa e lo hanno salutato con un applauso. Don Giuseppe, appena diventato Arciprete a Casnigo nel 2006 ha lavorato da subito al progetto di ristrutturazione del nuovo oratorio dedicato a San Giovanni Bosco e a San Giovanni Paolo II, il Papa di cui Casnigo conserva la talare-reliquia nel Santuario della Madonna d’Erbia. Don Giuseppe era un prete mariano, molto legato al Santuario ed era amato da tutti. “Il suo è un arrivederci – conclude Clara Poli – non ci lascia soli, da Lassù veglia su di noi e continua a scorrazzare fra le nubi con la sua motocicletta, chissà quanti progetti sta facendo Lassù, anche per noi”….
di Piero Bonicelli
23 marzo 2020
FONTE: Araberara
A 85 anni compiuti torna in sala operatoria. Accade nel Veneto con la sanità agonizzante per l'emergenza coronavirus. “La Sanità del Veneto mi ha chiesto la disponibilità a tornare in sala operatoria, per aiutare in questa fase di emergenza. E io ho acconsentito”.
Giampiero Giron, professore emerito dell’Università di Padova, è l’anestesista che il 14 novembre del 1985 addormentò Ilario Lazzari, il primo trapiantato di cuore in Italia. A dicembre compirà 86 anni e, nonostante l’età da pensione, anche lui è pronto a dare manforte ai medici che in questi giorni lottano negli ospedali per affrontare l’emergenza coronavirus. “Un paio di settimane fa mi ha telefonato un primario padovano chiedendomi se, all’occorrenza, la Sanità pubblica potrà contare sulla mia esperienza. Da quel giorno vivo con il telefonino sempre a portata di mano. Possono chiamarmi in qualunque momento e io, nell’eventualità, sono pronto ad andare. Lo ritengo un dovere: a prescindere dall’età, in questa fase i medici possono fare la differenza. Anche se il mio giuramento di Ippocrate risale ormai a tanto tempo fa, non ha scadenza”.
Nato a Padova e cresciuto a Venezia, fondatore dell’Istituto di anestesiologia e rianimazione dell’ateneo patavino, Giron - scrive corrieredelveneto.corriere.it - è direttore sanitario dell’ospedale Villa Salus di Mestre. Considerato un "mito vivente" del settore, dal 2010 è stato messo a risposo come docente. Eppure ha sempre definito la pensione “una morte civile” e quindi ogni tanto entra in sala operatoria per tappare qualche buco in organico o perché il paziente pretende che ad addormentarlo sia soltanto lui. Ma ciò che il mondo sta affrontando adesso, è una situazione completamente diversa. “Lo so che i più esposti alle complicanze dovute al coronavirus sono gli anziani - spiega - però io sono in buone condizioni di salute e, anche se magari non c’entra granché, faccio tutti gli anni il vaccino contro l’influenza. Non sono spaventato, insomma, anche se le situazioni epidemiche sono sempre molto difficili da affrontare”. Sull’argomento, ha le sue teorie. “Non sono un virologo, ma voglio pensare che il naturale aumento delle temperature legato alla stagionalità, abbia un effetto negativo sul virus, contribuendo ad abbassarne l’aggressività”.
Trentacinque anni dopo quel 14 novembre quando - al fianco del cardiochirurgo Vincenzo Gallucci e del resto del team - fornì il proprio contributo alla Storia della medicina, Giron si prepara a indossare il camice per affrontare un’altra sfida. “Stavolta contro un nemico invisibile". Se gli si fa notare che in questo momento così drammatico per l’Italia, medici e infermieri vengono spesso paragonati a degli eroi sul fronte di guerra, l’anestesista padovano però scrolla le spalle. “Bisogna dare tutto, sempre, fino in fondo. Mi laureai nel 1961 e a quell’epoca non esistevano le Usl ma la Pia opera ospedale civile di Padova. Ricordo che sotto la voce "orario di servizio" c’era scritto: "Tanto quanto necessario". Perché è così che, credo, debba fare chi opera in ospedale: sacrificare se stesso fino a quanto è necessario, per salvare i malati”. Eppure, non chiedetegli di fare un appello agli altri specialisti in pensione affinché seguano il suo esempio e tornino in corsia: “Non giudico chi la pensa diversamente. Una cosa, alla mia età, l’ho capita: non c’è nulla di peggio che costringere qualcuno che non ne ha voglia a entrare in una sala operatoria”.
22 marzo 2020
FONTE: Affaritaliani
Tamba, giovane sarto del Gambia residente a Valledoria, ha iniziato a cucire mascherine gratis per i sardi che ne avessero bisogno.
Arrivano da ogni parte le iniziative di buon cuore per dare una mano alla Sardegna in queste settimane di emergenza Coronavirus.
Una di queste arriva da Valledoria, dove il giovane sarto Tamba, migrante del Gambia, ha iniziato a cucire mascherine che regalerà a chiunque ne avesse bisogno.
Tamba lo ha scritto sul suo profilo Facebook: «Ciao a tutti, sono un ragazzo del Gambia e abito a Valledoria. Sono un sarto, mi offro volontario per fare mascherine gratuitamente. Chi è interessato mi contatti in privato. Grazie, forza Italia».
Una piccola goccia nell’Oceano, ma come avrebbe detto Madre Teresa di Calcutta, «se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe».
21 marzo 2020
FONTE: Vistanet.it
“Fermo la produzione di giacche e metto in catena le mascherine”. Davide Dottarelli è il titolare di Ade, azienda gioiello del settore abbigliamento. Cento dipendenti, fabbrica "smart", capi realizzati per Cucinelli con cura certosina. “Ho preso la decisione per dare un contributo in questa situazione di emergenza”, spiega l’imprenditore della ditta di confezioni di Castiglion Fiorentino. “Per precauzione i dipendenti rimarranno a casa, anche se il lavoro non ci manca. Ma alcuni di loro, tre o quattro, fino a venerdì produrranno mascherine”.
Dottarelli ci mostra il reparto taglio, dove le grandi pezze di un particolare tipo di cotone vengono tagliate in base al prototipo caricato sui computer. Poi, i pezzi ricavati dalla sagoma iniziale, vengono affidati alle mani esperte delle operaie alla macchina. Con la cucitura prendono forma una ad una mascherine rinforzate con una parte di tessuto, resistenti e maneggevoli con l’elastico per tenerle ben calzate in testa.
Una "riconversione" della linea produttiva di Ade, fatta per spirito di solidarietà. “Doneremo tutte le mascherine che riusciamo a produrre all’ospedale San Donato e alle farmacie, molti ci hanno già contattato chiedendone quantitativi”, prosegue Davide Dottarelli, con a fianco babbo Ademaro e mamma Imola.
Con loro, nello stabilimento, è come ci fosse anche Michele, l’altro figlio venuto a mancare troppo presto qualche anno fa in un incidente stradale. La grande foto campeggia nel luminoso stabilimento dove le operaie lavorano in camice bianco, tutte con la mascherina e alla dovuta distanza l’una dall’altra, in un clima operoso, fresco, incalzante.
“Sì, lo stop alla produzione è una decisione che abbiamo preso dopo aver riflettuto con senso di responsabilità per ridurre al minimo le occasioni di rischio”, riprende Dottarelli. “Ma nello stesso tempo, da imprenditore e da cittadino, volevo rendermi utile in un modo operativo. Avevo disponibilità di questo cotone, ideale per produrre mascherine capaci di trattenere particelle in entrata e in uscita. E ci siamo messi a studiarne una come modello da produrre in serie. Il risultato è buono, di qualità. Sono protezioni assolutamente utili in questa fase in cui non si trovano in giro”. Ne ha fatto richiesta anche il sindaco di Castiglion Fiorentino, per il Comune, e associazioni di volontariato impegnate nel sociale.
Alla Ade di Castiglion Fiorentino accanto a manichini e e carrelli con bellissime giacche in cachemire e tessuti pregiati, ecco le mascherine. Si stanno attendendo anche le specifiche tecniche per poterle far certificare da istituto universitario di ricerca.
La volontà e l’impegno non mancano, solo la burocrazia potrebbe mettere i bastoni fra le ruote.
Mentre osserviamo le operaie che cuciono le mascherine per l’emergenza Coronavirus, arrivano in ufficio telefonate di farmacie interessate. La voce già corre. Del resto sono protezioni di tipo chirurgico con copertura del naso e sagoma rigida per farle aderire alla forma del volto. Ade, è chiaro, persegue il progetto totalmente a sue spese. L’unico obiettivo è farne dono prima possibile all’ospedale di Arezzo. Al personale medico, paramedico, ma anche alle categorie esposte, ai cittadini. Se saranno mille, duemila o di più ancora non si sa. Da ieri e fino a venerdì stop giacche, qui si producono mascherine.
di Luca Serafini
17 marzo 2020
FONTE: Corriere di Arezzo
Il dottor Mario Cavazza, medico in pensione, ritorna in corsia per far fronte all'emergenza: "Se ognuno fa la sua parte, ne usciamo tutti"
C'è bisogno di una mano e di medici, soprattutto quelli, per far fronte all'emergenza sanitaria del Coronavirus. Nuove leve o camici bianchi di comprovata esperienza poco importa, l'imperativo è uno solo: intervenire.
"Mi hanno chiamato per dare un aiuto, ed eccomi qui. Nessuna persona che ami questa città, i suoi cittadini, il proprio lavoro, poteva dire di no", racconta Mario Cavazza, 67 anni, medico in pensione che per lungo tempo ha diretto la medicina d'urgenza del Sant'Orsola di Bologna.
Lo scorso gennaio, dopo 42 anni in corsia, il dottor Cavazza si è svestito del camice per dedicarsi alla famiglia e ai suoi hobby preferiti. Ma poi, un contrordine imprevisto, lo ha costretto a rimettere lo stetoscopio al collo. Ora, è di nuovo in ospedale, dodici ore al giorno, sette giorni su sette. "E' stata la direttrice Chiara Gilbertoni a chiedermi una mano. Se puoi essere d'aiuto alla tua città, ai tuoi cittadini, in un momento così pesante, non puoi dire di no. Quando l'ho comunicato alla mia famiglia, hanno capito subito. Mia moglie è un medico, conosce la mia passione".
Il ritorno improvviso al 'mestiere', dopo la decisione di ritarsi a vita familiare, non l'aveva messo in conto. Stavolta, però, il medico non si occuperà della parte clinica: "Per quella c'è il mio successore Fabrizio Giostra - assicura nel corso di un'intervista rilasciata a La Repubblica - Mi occupo del lato organizzativo, perché dietro questa emergenza c'è un lavoro enorme di coordinamento, anche con i pronto soccorso degli altri ospedali. Certe polemiche del passato, certi campanilismi, si sono appianati. Si combatte tutti insieme o si è schiacciati".
In ospedale, ai tempi della pandemia Covid-19, si sta come in trincea: schierati contro un nemico invisibile. "Già dalle chat con i miei colleghi avevo capito che era una guerra. - continua - E' una illusione tipica degli occidentali pensare che certe cose siano lontane. Un anno e mezzo fa, ero stato a Wuhan e quando ci vai ti rendi conto che non è così distante. Di emergenze infettivologiche ne abbiamo avute tante, dall'aviaria alla Sars. Ma questa ha delle dimensioni inattese. Mi porterò dietro questo bagaglio: ho vissuto anche io una roba terribile".
Più che medici, eroi dei tempi moderni. Moltissimi i giovani dottori arruolati in queste settimane: "Questa situazione turba. Negli occhi c'è la paura, l'abbiamo tutti, ma diciamo anche: 'possiamo farcela'. Ho visto grande passione nei giovani medici, soprattutto tra gli specializzandi in formazione. E ho visto solidarietà tra i colleghi, anche di altre specialità che adesso sono ridotte. Hanno subito detto: 'Come possiamo aiutare?'".
La quarantena è l'unica via praticabile, al momento, per negativizzare i contagi. Cavazza ne è certo: "Ve lo diciamo da esperti: il virus muore se non trova l'ospite. Sparisce. Se non lo trasmetto, prima o poi smette. Capisco gli anziani soli, i ragazzi chiusi in casa: è chiaro ma questa è la strada. Se stiamo a casa, l'epidemia finisce. E poi oggi abbiamo tanti di quei sistemi. Io ho quattro figlie, ieri abbiamo fatto una videochiamata tutti insieme su WhatsApp, è stato molto bello".
L'isolamento forzato può rivelarsi una preziosa opportunità per sdradicare le vecchie abitudini in favore di nuove possibilità. "Può servire credo, a impare a cambiare approccio alla vita - dice il medico - Basta un niente per spazzare via tutto quello che hai costruito. Proviamo a riappropriarci del tempo lento. Lo dico da pensionato che rivede una dimensione che stava ormai perdendo: dobbiamo sempre correre?".
Prima o poi, la pandemia si esaurirà e finalmente il dottor Cavazza potrà dedicarsi al suo hobby preferito: "Quando questa crisi finirà, tornerò a fare l'umarell. Ma ora è giusto essere vicini, presenti. Ognuno deve fare la sua parte. Se tutti fanno un pezzettino, ne usciamo".
di Rosa Scognamiglio
15 marzo 2020
FONTE: il Giornale
A Rodero, una frazione di Olgiate Comasco, c’è una struttura dove medici, infermieri e volontari si prendono cura dei bambini gravissimi. È un modello di assistenza
Immaginiamo un piccolo, ordinato paese, un po’ in collina, nel verde, con vie strette che una grossa automobile fa anche fatica a percorrere. Immaginiamo una casa, non grande, ma ben tenuta, con un giardino attorno, altrettanto ben curato. Immaginiamo dei bambini verso i quali la vita è stata particolarmente difficile, "invisibili" al mondo, perché soffrono di gravi, gravissime disabilità. Ecco, il paese, la casa e i bambini esistono davvero. Il paese si chiama Rodero, una frazione di Olgiate Comasco, in provincia di Como, a ridosso del confine svizzero.
La casa è la Casa di Gabri, due piani, con il giardino dagli smorti toni invernali (quando l’abbiamo visitata) che confina con un piccolo parco-giochi per bimbi, con altalene e piccole casette di plastica, queste sì colorate e allegre. Anche i bambini ci sono e abitano in quella casa (Gabri, Gabriele, è il nome del primo, piccolo paziente, che lì ha trovato rifugio): non sono come i loro coetanei del parco accanto, non potranno mai andare in altalena perché le loro malattie sono troppo gravi, li costringono a letto o su una carrozzina, con pochissimi contatti con il mondo, anche se, con la bella stagione, in giardino ci vanno. Sono nati così, le famiglie non sempre possono accoglierli e, in qualche caso, vengono abbandonati. Ma qui hanno trovato dove stare, dove essere accuditi.
«Sono dieci in tutto - commenta il pediatra e genetista Angelo Selicorni che lavora all’Ospedale Sant’Anna di Como (con cui Casa di Gabri ha una convenzione) e qui è l’"anima" dell’assistenza medica - quelli che ospitiamo al momento. Molti soffrono di malattie genetiche rare, accompagnate da malformazioni e con pesanti deficit intellettivi, disturbi comportamentali e psichiatrici. Alcuni hanno crisi epilettiche ricorrenti, difficili da controllare. Sono i più gravi fra i gravi, quelli che, paradossalmente, vengono salvati alla nascita proprio grazie ai progressi della medicina. Noi ci prendiamo cura di loro».
Quasi tutti richiedono un supporto alla respirazione, molti sono alimentati in maniera artificiale, con la Peg (cioè con una sonda inserita nello stomaco attraverso la parete intestinale, ndr), uno, al momento, è in terapia con la morfina: «Alcuni non ce la fanno a sopravvivere e noi li accompagniamo verso il loro destino», dice ancora Selicorni. Tutti i bambini sono "dipendenti" dalla tecnologia, sono seguiti minuto per minuto, e 24 ore su 24, grazie a un sistema di monitoraggio che registra costantemente i loro "segni" vitali, come la frequenza del respiro o il battito cardiaco oppure i loro comportamenti che possono rivelare se stanno provando dolore. Il sistema avverte anche quando qualcosa va storto e, grazie alla telemedicina, i medici "collegati" possono valutare, a distanza, che cosa sta succedendo. E intervenire, fermo restando che nei casi complicati si chiama il 118.
La Casa di Gabri è nata dieci anni fa da un’idea di don Angelo Epistolio, presidente della cooperativa sociale onlus Agorà 97 (che gestisce nel comasco servizi residenziali per persone con disabilità), da allora ha ospitato 42 bambini ed è supportata dalla Regione Lombardia (dalla quale ha ottenuto l’accreditamento nel 2011). Le persone che assistono questi bambini potrebbero essere personaggi usciti dal libro Cuore di Edmondo de Amicis, ma anche loro sono veri, sono lì in carne e ossa, giorno e notte. Un nome fra gli altri: Stefano Besseghini, che si occupa della gestione degli infermieri, organizza il loro lavoro e si sobbarca, anche lui, i turni. Suo fratello Sergio coordina la Cooperativa Agorà e gestisce la casa. E poi ci sono i volontari, molti del posto.
«Dov’è la nonna Emma, dov’è la nonna Emma, dov’è la nonna Emma», chiede Richi (lui viene addirittura dalla Sardegna, via Genova) ed è felice quando arriva una signora dai capelli bianchi, per fargli compagnia. Anche lui è grave, ma forse un po’ meno degli altri. Ha un certo senso del ritmo, così tenta di suonare una specie di chitarra ed è in grado anche di leggere quei simboli, alla base della cosiddetta comunicazione aumentativa, che aiutano chi ha problemi con quella verbale. In altre parole, riconosce simboli collegati alle cose (per esempio il disegno di un cibo) e attraverso questi si può esprimere. Alcuni bambini, nonostante le gravissime disabilità, sono lì da molto tempo: Fabio ha 17 anni, ha una tetraparesi spastica con gravi malformazioni cerebrali ed era stato abbandonato; poi ha trovato una famiglia affidataria che a un certo punto non è riuscita più a gestirlo e, infine, è arrivato qui, nel 2013.
Quale che sia la loro malattia, tutti i piccoli inquilini della Casa vengono vestiti ogni mattina con abiti "normali", nessuno è in pigiama: sono cresciuti come bambini prima che come malati. Spiega Besseghini: «Cerchiamo di coinvolgere, nell’assistenza, anche i genitori, quando ci sono. E, in un terzo dei casi, riusciamo a restituire questi bimbi alle famiglie. Ma prima, spesso, dobbiamo risolvere con gli psicologi i problemi delle coppie che vanno in crisi». Ci sono anche storie a lieto fine, insomma: Emma, per esempio, è nata con la sindrome di Larsen che le ha distrutto lo scheletro e le ha tolto la capacità di sentire. È stata nella Casa di Gabri otto mesi e, nel frattempo, hanno insegnato alla mamma come gestirla: adesso è ritornata in famiglia .
La Casa di Gabri è un piccolo, speciale, modello di assistenza, come fa notare il professor Selicorni: «Questi bambini, di solito, rimangono in ospedale, nelle terapie intensive, dove non solo occupano un posto, togliendolo ad altri che ne avrebbero bisogno, ma costano molto. Con questo tipo di assistenza, invece, i costi sono molto inferiori». La Regione Lombardia dà contributi che servono a coprire l’assistenza primaria. Per il resto intervengono donazioni private: sono queste che hanno permesso di costruire i programmi di telemedicina e di comperare macchinari sofisticati. Il modello Casa di Gabri è in evoluzione: ora si sta perfezionando una convenzione con il Sant’Anna per garantire una sorveglianza pediatrica, capace di intercettare eventuali problemi prima che diventino guai seri.
di Adriana Bazzi
5 marzo 2020
FONTE: Corriere della Sera
Quando vengo a conoscenza di Opere meravigliose come questa, il mio cuore si riempie di Commozione e Gratitudine nei confronti delle persone che hanno realizzato tutto questo, di chi ci lavora o presta opera come volontario.
Grazie, grazie veramente di cuore a tutti quanti voi!
Marco
Metabolizzare la morte di una persona che amiamo non è facile e, lo è ancor meno, se si è bambini. Un’esperta di lavori all’uncinetto aiuta grandi e piccini ad affrontare meglio il lutto realizzando bambole con le sembianze dei cari scomparsi.
Ognuno vive la morte a suo modo e c’è chi ama circondarsi di oggetti della persona defunta in modo da sentirla sempre vicina. Un’idea originale per aiutare le persone che stanno vivendo un lutto è quella che ha avuto JennieLeigh Holland, artista che gestisce una sua pagina chiamata The Spunky Onion dove propone lavori all’uncinetto di ogni genere.
Tra le sue creazioni vi sono anche le “Look alike Dolls”, bambole che raffigurano le persone scomparse, utili ad elaborare il lutto soprattutto ai bambini. Proprio per uno di loro ha realizzato una bambola che raffigura il nonno scomparso, un oggetto che ha aiutato il piccolo a trovare conforto in questa situazione difficile.
La bambola che, come tutte quelle realizzate da questa artista è fatta a mano e misura 38 cm, indossa gli stessi vestiti che ha il nonno in una foto e tiene in mano un pesce (i due erano soliti andare a pesca insieme).
Jennie, che vive in Louisiana (USA), ha voluto condividere la storia di questo bambino che l’ha particolarmente toccata su un gruppo di Facebook dedicato agli appassionati di crochet.
Ha raccontato che il piccolo soffriva molto per la morte del nonno e cercava in ogni modo qualcosa che potesse sempre portare con lui per ricordarlo. E’ stato il bambino stesso a scegliere la foto per farle creare la bambola e a chiederle di inserire anche il pesce in memoria delle belle giornate trascorse insieme.
Sulla pagina Instagram di Jennie potete vedere tante altre creazioni, tra cui appunto le Look alike Dolls…
di Francesca Biagioli
5 marzo 2020
FONTE: Greenme